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il paradiso delle signore


Il Mouret era li dinanzi a loro.

Da dieci minuti il Jouve cercava per il magazzino il direttore, ch’era sui palchi della nuova facciata in Via Dieci Dicembre. Tutti i giorni stava lí delle ore, cercando appassionarsi a quei lavori che aveva studiato tanto.

Era il rifugio dai suoi tormenti, trovarsi tra i muratori che innalzavano i pilastri degli angoli in pietre di cava, e i fabbriferrai che su vi posavano i ferri dell’ossatura.

La facciata usciva già dal suolo, accennava il porticato, le finestre del primo piano, un palazzo appena disegnato.

Il Mouret saliva su le scale, discuteva con l’ingegnere gli ornamenti che dovevano essere originali, scavalcava ferri e mattoni, scendeva perfino nei fondamenti; e il frastuono della macchina a vapore, lo strepito delle gru, il fragor dei martelli, le grida d’un popolo d’operai, in quella enorme gabbia circondata da impalancati che risonavano, riusciva per un poco a stordirlo. Ne usciva bianco di polvere, nero di limatura di ferro, con i piedi infangati dalle cannelle d’acqua che gli schizzavano addosso: cosí mal guarito dai suoi pensieri, che l’angoscia subito lo riafferrava e gli faceva battere più forte il cuore, a mano a mano che dietro lui s’andava ammorzando il fracasso degli operai.

Quel giorno, per l’appunto, era di buon umore per una distrazione avuta; e stava ancora a studiare un album di disegni per mosaici e terre cotte smaltate che dovevano decorare il cornicione, quando il Jouve venne a cercarlo, ansante, tutt’arrabbiato di sciuparsi il soprabito tra quei materiali. Da principio esclamò: «Mi aspettino! »; ma l’ispettore gli sussurrò qualcosa


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