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il paradiso delle signore

Stesa nel letto non rivelava piú la forma e l’esistenza d’un corpo, tanto era sottile sotto le coperte. Le braccia scarne consunte dalla febbre ardente dell’etisia si movevano di continuo quasi cercassero qualcosa, con un moto ansioso e incosciente; e i capelli neri, che parevano anche piú folti, suggevano quel povero viso dove agonizzava l’ultima generazione d’una famiglia cresciuta di padre in figlio nel buio di quella cantina del vecchio commercio parigino.

Dionisia intanto, col cuore che le si spezzava dalla compassione, la stava a guardare, senza aprir bocca, per timore di non poter piú rattenere le lacrime. Finalmente mormorò:

— Son venuta subito... Se fossi buona a qualche cosa... Mi volevate... volete che resti?

Genoveffa, col fiato corto, le mani sempre convulse tra le pieghe della coperta, non le levava gli occhi di dosso:

— No, grazie, non ho bisogno di nulla... Soltanto vi volevo dare un bacio.

Anche lei aveva le lacrime agli occhi. Allora Dionisia a un tratto si chinò e la baciò nelle gote, rabbrividendo a sentirsi sulle labbra la fiamma di quelle gote smunte. Ma la malata la stringeva in un abbraccio disperato. Poi guardò il babbo.

— Volete che resti? — ripeté Dionisia. — Se avete qualcosa da farmi fare...

— No, no.

Gli occhi di Genoveffa si volgevano ostinatamente verso il babbo che restava lí ritto, senza saper che dire, strozzato dal pianto. Finalmente capí, e zitto se n’andò. Si sentirono i passi pesanti scendere la scala.

— Ditemi, sta con lei? — domandò la ma-


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