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il paradiso delle signore


— Ci dev’essere tutto; rispose costui ma mi toccherà stare tutta la mattina a contare.

Il capo dava un’occhiata alla fattura, ritto davanti a un banco grande, sul quale uno dei suoi addetti posava ad una ad una le pezze di seta che venivano fuori dalla cassa. Piú in là, in fila, altri banchi, carichi come quello di mercanzie che una moltitudine di commessi esaminavano. Era un continuo sballare, un’apparente confusione di stoffe, guardate, riguardate, poi segnate fra un gran brusío di voci.

Il Bouthemont, che diveniva celebre, come suol dirsi, «sulla piazza», aveva una faccia tonda da bontempone, con la barba d’un nero d’inchiostro, e begli occhi castagni. Nato a Montpellier, burlone e bisboccione, nella vendita non valeva molto; ma nelle compre non c’era uno che l’agguagliasse. Mandato a Parigi dal padre che aveva un magazzino di novità, non aveva voluto a nessun costo tornare a casa, quando quel povero uomo credeva che ne sapesse abbastanza per potergli succedere nel commercio; e fin d’allora tra babbo e figliuolo era nata e cresciuta una rivalità curiosa perché il vecchio, tutto intento al suo piccolo commercio di provincia, non si dava pace a vedere un semplice commesso guadagnare il triplo di ciò che guadagnava lui; ed il giovane lo canzonava ostentando, vantando i propri guadagni e mettendo sossopra, ogni volta che dava una corsa a casa, tutto il negozio. Come gli altri capi d’ufficio, guadagnava anche lui, oltre tremila franchi di stipendio, un tanto per cento sulla vendita. A Montpellier la meraviglia e il rispetto non avevano limiti; si diceva che il figliuolo del Bouthemont l’anno innanzi aveva intascato quasi quindicimila franchi; e non


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