Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana - Vol. III/Capitolo XX

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Capitolo XX

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CAPITOLO XX




Per la storia.


Ed ora che tutto il processo si è svolto dinanzi ai miei lettori, ora che essi hanno esaminato sommariamente con me la Relazione del Giudice Avvocato Laurenti e hanno assistito, il meglio che gli atti processuali permettessero, ai dibattimenti di questa causa famosa, ora che essi han potuto farsi un’idea abbastanza esatta dei metodi di procedura e di accusa adoperati contro gli imputati, ora che essi hanno veduta la prima e la seconda sentenza, tanto nella motivazione, quanto nella dispositiva, ora che han veduto la fine dei principali due condannati, esaminiamo insieme le risultanze degli atti processuali in relazione alla storia, per vedere se queste risultanze, corroborate e completate da molti documenti nuovi da me raccolti, apportino nuova luce sulla trama — fin qui rimasta avvolta nel mistero — della quale fu vittima il Conte Pellegrino Rossi: vediamo se di questo fatto storico di altissima importanza si possano stabilire le vere responsabilità.

Credo assolutamente necessario che i lettori osservino le circostanze importantissime per effetto delle quali il misfatto compiuto al palazzo della Cancelleria Apostolica il 15 novembre 1848, oltre essere rimasto per sessanta anni sepolto nel buio, fu trasfigurato attraverso ad una serie di [p. 128 modifica]leggende le più strane, le più contraddicentisi e le più fantastiche. Su quel delitto, che i varii partiti politici vicendevolmente si imputarono l’un l’altro, nessuno di quei partiti ebbe interesse di fare la luce e di cercare la verità, appunto per poter continuare ciascuno ad accusarne promotore ed autore o l’uno o l’altro partito avversario.

Io ho, se non esaurientemente, certo più che sufficientemente, parlato nel capitolo VI del primo volume di quest’opera1 dei varii ed opposti giudizi che gli uomini più autorevoli dei rivolgimenti politici del triennio 1846-1849 portarono sulla uccisione del Rossi, sui supposti autori di essa e sulle conseguenze di quel fatto ed ho anche accennato alle opinioni, ai giudizi, alle insinuazioni e alle leggende messe fuori da moltissimi storici o contemporanei, o posteriori.

Di quei settantasette scrittori da me consultati e citati quarantanove erano italiani, ventuno francesi, due svizzeri, due tedeschi, uno austriaco, uno inglese, uno spagnolo; e quanto al colore politico dodici di essi erano prettamente reazionarii, quindici repubblicani, trentaquattro costituzionali, sedici, senza deciso carattere di partito, erano di tendenze varie, ma temperati e sufficientemente spassionati scrittori.

Ora otto di quegli scrittori repubblicani imputarono la uccisione del Conte Rossi al partito sanfedista, quattro non negarono, che la uccisione potesse essere stata meditata ed eseguita individualmente da qualche esaltato giovine repubblicano e, biasimando il fatto, cercarono qualche attenuante per l’autore di esso; tre, fra cui il Cattaneo —- robusto ingegno, grande patriota, alto pensatore, valoroso scienziato, ma appassionato sempre in politica e parziale ed ingiusto, questa è la verità — attribuiscono la uccisione del Rossi al partito piemontese o albertista. I dodici scrittori clericali attribuirono l’eccidio del palazzo della Cancelleria alle Sètte, alla demagogia e la maggior parte di essi — segnalatissimi il D’Ariincourt, il D’Amelio, il Bresciani, il Belleydier, il De Breval e il D’Ideville — si industriarono a esagerare, ad ampliare, a colorire, con spudorate e spesso puerili [p. 129 modifica]menzogne, la congiura, cercando di estendere la responsabilità di quel misfatto a tutto il partito liberale romano.

Fra i trentaquattro scrittori costituzionali parecchi opinarono, che la trama provenisse dal partito reazionario; i più la credettero opera di un piccolo consesso di esaltati del partito repubblicano; taluni credettero che fosse eccesso individuale: qualcuno pensò che l’uccisione del Rossi fosse il resultato di furore demagogico, abilmente suscitato da segreto lavorio loiolesco.

E ugualmente varii furono i giudizi dei sedici indipendenti, inclini chi all’una, chi alPaltra delle suesposte opinioni.

Ma in una cosa sono un po’ più, un po’ meno, concordi almeno sessanta di quei settantasette scrittori ed è questa: che sventuratamente una profonda corrente di antipatia, di avversione, di odio si era venuta svolgendo in Roma contro Pellegrino Rossi. Concordi nella constatazione del fatto non lo sono circa le cagioni da cui quel fatto era derivato e molti ne incolpano il Rossi e molti i due partiti reazionario e demagogico e molti ne chiamano responsabili insieme il Ministro e i partiti a lui avversi.

Ma, circa ai particolari della congiura, circa ai nomi dei mandanti e dell’uccisore — notevolissima circostanza questa — la maggior parte di quegli scrittori procede con grandi cautele, con evidenti reticenze, con deliberato riserbo e, quelli fra essi, che accennano a qualche particolare o a qualche nome lo fanno in tono sibillino e dubitativo, con accompagnamento di si disse, di si vociferò, di se, di ma, e di quantunque.

Eppure cinquanta di quegli scrittori, contemporanei e in buona parte anche attori nel dramma del triennio 1846-1849, se non sapevano completamente i particolari della vera congiura contro la vita di Pellegrino Rossi, ne sapevano assai più che non ne dicessero; e alcuni sapevano tutta la verità e, nondimeno, non la dissero e preferirono lasciare le cose avvolte nel mistero; mentre quelli fra quei cinquanta che appartenevano al partito reazionario furono, dopo il 1853, in grado di sapere la verità vera ed alcuni di essi ebbero anche in mano il processo2; ma pur tuttavia si astennero [p. 130 modifica]dal far nomi e dal diradare le tenebre che si erano addensate intorno al delitto del palazzo della Cancelleria Apostolica. Perchè questo generale e ostinato silenzio?

Io l’ho detto: perchè ogni partito aveva interesse a tenere occulta la verità.

I repubblicani perchè i principali orditori ed esecutori di quella trama appartenevano notoriamente al loro partito; onde, per quanto specificandone i nomi si sarebbe sottratto alla responsabilità di quel delitto l’intero partito, mostrando che il misfatto era stato il resultato delle trame di un piccolo manipolo, pur tuttavia sensi di pietà, legami di amicizia, vincoli di sètta impedirono a quegli scrittori svelare i nomi degli autori — taluno dei quali era morto, i più eran profughi, a cui poteva ancora tornar fatale una denuncia — tanto più che non rivelandosi i particolari della congiura, lasciandola nel mistero, si poteva sempre chiamarne responsabili i reazionari e gli albertisti.

I costituzionali e moderati, pur insistendo nel respingere dal loro partito ogni ingerenza nel delitto e imputandolo chi alla fazione repubblicana, chi alla loiolesca, tacquero anche essi o dubitativamente accennarono a qualche nome, mossi pur essi da sentimenti di compassione o dal timore che le loro rivelazioni potessero tornar funeste ai complici errabondi in terra straniera; molti di questi scrittori moderati tacquero anche — perchè non dirlo? — per timore degli arcani pugnali delle sètte, le quali, quantunque sgominate e sconquassate dalla imperante reazione, eran pur tuttavia ancor vigorose allora e apparivano più tremende che in realtà non fossero alle fantasie, ancora agitate dalla recente rimembranza dei sanguinosi eccessi da esse compiuti nello Stato romano nel primo semestre del 1849.

Per questo stesso timore si astennero dal rivelare tutta la verità, enunciando esplicite accuse, gli scrittori della reazione, i quali poi avevano speciale e supremo interesse a lasciar pesare la responsabilità della uccisione del Rossi, non sul solo manipolo di repubblicani che effettivamente lo compiè, ma — come lo indirizzo e lo svolgimento del processo, la Relazione Laurenti e le sentenze del Tribunale della Sacra [p. 131 modifica]Consulta han limpidamente ai miei lettori dimostrato — su tutto il partito liberale romano dal Mamiani al Mazzini.

Queste dunque furono le ragioni per cui, anche coloro che sapevano la verità, e anche dopo che questa tu acquisita in processo, non vollero e non poterono manifestarla; nessuno scrittore ebbe il coraggio di dirla, onde noi, divenuti posteri a quell’avvenimento e agli uomini che vi ebbero parte — e che sono, ormai, scesi tutti nel sepolcro — siamo costretti ancora ad andarla cercando, per consacrarla nelle pagine della storia imparziale, rigorosa e documentata.

Da tutte queste ragioni, che mantennero il mistero intorno alla uccisione di Pellegrino Rossi, sorsero in parte le leggende le più strane con cui la fantasia popolare, spontaneamente, come sempre, si piaceva di circondare il truce fatto; e tanto più strane e fantastiche quanto più illustre era l’uomo che ne fu vittima, quanto più straordinario e clamoroso era stato l’avvenimento, quanto più audace era sembrata e più drammatica la esecuzione del delitto.

Ma alle spontanee leggende popolari, altre e numerose ne aggiunse, e non meno fantastiche e più meravigliose e incredibili ancora, la calcolata frode delle penne loiolesche — aventi a guida quella forbita, agghindata, leziosamente trecentistica del Padre Antonio Bresciani — allo scopo di proiettare luce livida e sanguigna sulle sètte e sui settari, a cui il romanziere della Civiltà Cattolica attribuiva tregende macabre che non attribuiscono forse neppure alle streghe e ai diavoli in mostruosi connubi stretti sotto il noce di Benevento gli ingenui e pavidi cronisti del più fitto medioevo.

Di alcuna di quelle truculente leggende — benchè così gradite al Capitano Galanti — fu costretto, suo malgrado, a far giustizia lo stesso Giudice Istruttore Laurenti; di parecchie altre, che l’impunitario Bernasconi, il Processante Relatore e il Supremo Tribunale ebbero care — avran giá fatto giustizia o faran giustizia di qui a poco — e questa volta riuniti insieme e senza tema l’uno dell’altro, come nei Promessi Sposi — il buon senso e il senso comune dei lettori di questa storia.

[p. 132 modifica]Per tutto ciò che si è detto e veduto nei precedenti capitoli, a proposito delle testimonianze raccolte dai Giudici Istruttori sulle pretese riunioni al fienile di Ciceruacchio in preparazione dell’omicidio Rossi, mi par chiaro e più che chiaro che le riunioni al fienile del Brunetti non avvennero affatto in due periodi diversi, alcune, cioè, prima della morte del Rossi e altre dopo tale morte, ma avvennero una volta sola, durante la repubblica, cioè dopo parecchi mesi dalla morte del Rossi, quando il Montecchi era ministro e il Capanna Capitano di polizia.

Leggenda, dunque, pure questa solennemente smentita anche da quei testimoni che, in buona fede, credono avvenuta la riunione prima della morte del Rossi, dappoichè poi parlano o di Montecchi Ministro, o di Capanna, Capitano di polizia, fatto che corregge immediatamente l’errore della memoria e ristabilisce la vera data cioè dopo la morte del Rossi, alla cui uccisione nessuno dei testimonii intese mai alludere in quella riunione e il solo che disse di avere udito far cenno al fienile dell’omicidio del Rossi, ne parlò come di fatto già avvenuto, non di fatto che là ri stesse preparando e che dovesse ancora avvenire.

Leggenda dunque inventata dal Capitano Galanti la fantastica e clamorosa riunione di duecento congiurati la sera del 13 novembre al fienile, sostenuta in processo, senza nessun sussidio di prove, dal solo impunitario Bernasconi, accreditata con entusiasmo dal Processante Relatore e accettata con piena fede dal Supremo Tribunale della Sacra Consulta ; leggenda ridicola che farebbe apparire come fanciulli senza cervello, senza ombra di criterio e di esperienza vecchi settarii, sperimentati cospiratori quali erano lo Sterbini, il Guerrini, Carlo Luciano Bonaparte di Canino e Angelo Brunetti, che avrebbero teatralmente dimenata e rimenata, per dieci o dodici giorni, da un punto all’altro di Roma, una cospirazione di duecento persone senza nessuna plausibile ragione, senza alcuna necessità e non col rischio, ma con la certezza di vederla denunciata e sventata.

Leggenda la affermata e pretesa fusione di tutte le tre società o congreghe di nemici del Governo pontificio e del [p. 133 modifica]Ministro Rossi che sarebbe avvenuta — ma non è provato in processo — al Circolo popolare e che è solennemente smentita anche dalle parole di Monsignor Pentini, il quale aveva veduto e raccolto tutte le carte segrete del Rossi e che attribuisce, anzi, all’intervento e alla protezione della Provvidenza che quelle varie congreghe non si fossero fuse in una sola sterminatrice congrega.

Leggenda ridicola quella inventata pure dal Padre Bresciani, accreditata dagli insulsi sproloqui del Professore Olivieri, sugli esperimenti che si sarebbero fatti sul cadavere nella sala anatomica dell’Ospedale di San Giacomo in Augusta per insegnare al feritore il colpo alla carotide, colpo al cui insegnamento — come argutamente disse il dottor Ceccarini — sarebbe bastato un caprettaro e che, nondimeno fu leggenda tanto cara al processante Avvocato Cecchini, il quale fervorosamente la inseguì per tanti mesi e se la vide man mano evaporare dinanzi agli occhi, lino a che il processante Avvocato Laurenti fu costretto ad abbandonarla completamente come cosa mai esistita.

Leggenda, non meno puerile e non meno immaginaria, la riunione a tarda notte del 14 novembre al Teatro Capranica col drammatico colpo di scena della estrazione delle palle nere, riunione ed estrazione sognata dal Padre Bresciani e dal Capitano Galanti, le quali non sono sostenute neppure da uno dei tanti testimonii interrogati in proposito in processo, anzi smentite da tutti coloro che su di esse furono interrogati, fin anche dai falegnami, muratori e illuminatori del Teatro Capranica, fin anche da Agostino Squaglia, fin anche dalla Direzione Generale della Polizia, espressamente e officialmente interrogata sull’argomento.

Sfrondata la uccisione di Pellegrino Eossi, da tutte queste leggende, allo stesso modo, respinte dal razionale buon senso e dal più volgare senso comune, poichè il misfatto avvenne e poichè evidentemente ebbe una preparazione, resta a vedere se dagli atti processuali si abbiano resultanze che permettano alla storia di stabilire, sul fondamento di altre testimonianze e documenti stragiudiziali, con [p. 134 modifica]ragionevole certezza, quali del misfatto fossero gli ordinatori e quali i materiali esecutori.

Dalle risultanze processuali emergono ventinove testimonii che, facendosi eco della pubblica voce, accusano il Dottor Pietro Sterbini quale promotore principale della trama ordita contro il Ministro Rossi: e si noti che, se dieci di quei testimonii professano principii reazionarii, sei non appartengono ad alcun partito e sono uomini onorandi e temperati come il Tenerani, il Nardini, il Gentili Spinola, sei sono notoriamente liberali come il Pantaleoni, il Tittoni, il Mucchielli e sette sono o coinquisiti o compagni di congiura non inquisiti e cioè il Testa, il Fabiani, detto Carbonaretto, il Trentanove, Sante Costantini, Zeppacori, il Buti e il Mazzanti.

Più di venti testimoni gravano come complici nell’ordinamento della trama, il Principe Carlo Luciano Bonaparte di Canino, e Angelo Brunetti detto Ciceruacchio e quattordici, tra cui il Zeppacori, il Fabiani e Sante Costantini, indicano come coordinatore, insieme allo Sterbini, al Bonaparte e al Brunetti, della ristretta congiura contro il Ministro Rossi anche il Dottor Pietro Guerrini, il quale, se da un lato appariva, era e si proclamava segretario di Ciceruacchio, era poi anche effettivamente — data la buona fede, la ignoranza e il corto intelletto del generoso capopopolo Brunetti — era poi anche effettivamente suo consigliere ed ispiratore.

Si intende che fra questi testimonii non computo l’impunitario.

E questi nuclei di testimonianze accusatrici appaiono tanto più formidabili ed importanti se si pensi che la maggior parte dei testimoni esaminati in questo processo, sia per timore dei settarii, sia per paura del processante, sia per sentimento politico, sia per sensi di pietà e di simpatia verso parecchi degli imputati e in special modo verso Ciceruacchio, si mantenne recisamente reticente e negativa, anzi una sessantina di quei testimonii si mostrarono, con rimarchevole fermezza, coraggiosamente negativi sopra circostanze e sopra fatti che a loro erano — come si potè [p. 135 modifica]desumere dai successivi avvenimenti della storia del risorgimento italiano — perfettamente noti.

Dunque, date queste condizioni dell’ambiente processuale, la responsabilità dello Sterbini, del Bonaparte di Canino, di Ciceruacchio e del Guerrini nella preparazione della ristretta congiura contro Pellegrino Rossi, risulta da quei formidabili gruppi di testimonianze accusatrici, acquisita alla storia.

E già, anche senza quelle testimonianze e storicamente parlando, data la temperatura dell’ambiente italiano e specialmente del romano a quei giorni, dato lo stato di sovraeccitazione febbrile della grande maggioranza dei patriotti, dato l’agitarsi del partito repubblicano, date le coperte mene del partito reazionario, certo non favorevole al ministero Rossi, data la guerra implacabile del giornalismo liberale contro il Rossi, dato l’ascendente di Angelo Brunetti sulla plebe e dato l’ascendente dello Sterbini e del Guerrini sopra Angelo Brunetti, dato il sobbollimento degli elementi più impuri della peggiore ciurmaglia anelante ai furti e al saccheggio — sobbollimento del quale risultano irrefiutabili e luminose le prove in questo processo — dati i molti errori commessi da Pellegrino Rossi, data la irresistibile corrente di antipatia, di avversione e di odio sviluppatasi in Roma nella prima quindicina di novembre contro lo sventurato Ministro di Pio IX, già, dico, dati tutti questi fatti indubbiamente, effettivamente esistenti in quel clima storico, anche senza quel gruppo di testimonianze, storicamente parlando, vai quanto dire sul fondamento di quanto ci è storicamente noto, a nessuno, neppure a Pietro Sterbini, in quel momento popolarissimo e quasi onnipotente, sarebbe stato possibile organizzare un attentato alla vita di Pellegrino Rossi senza l’annuenza e il concorso di Ciceruacchio.

Quindi le testimonianze resultanti dal processo riescono logico complemento meglio rischiarante una situazione di fatto che il cumulo delle circostanze testè ricordate aveva prodotta.

Ad ogni modo, appunto perchè quelle testimonianze integrano le notizie che sparpagliate, qua e là, erano [p. 136 modifica]incompletamente sì, ma già acquisite alla storia, noi possiamo dalle risultanze del processo ritenere per fermo che, primo promotore e ordinatore della congiura fu Pietro Sterbini con la cooperazione diretta di Carlo Luciano Bonaparte di Canino, di Angelo Brunetti e di Pietro Guerrini. Vedremo più tardi da quali ragioni fossero mossi a macchinare quella uccisione quei quattro, da quali intendimenti e da quali considerazioni e esamineremo il grado di responsabilità di ciascuno di essi nell’omicidio di Pellegrino Rossi.

Altra resultanza amplissima del processo che conferma alla storia in modo irrefiutabile un altro fatto già da essa conosciuto è la serie di testimonianze — fra. le trenta e le quaranta — le quali provano come l’opinione pubblica, a torto o a ragione, fosse avversissima quasi ad unanimità a Pellegrino Rossi contro cui si sparlava da per tutto con accanimento — come asserì il Capo Agente Rosalbi sui concordi rapporti dei confidenti Badini, Cecchetti e Molari — in guisa che tutta Roma diceva dovunque male di Pellegrino Rossi — come affermarono il Mucchielli, il Rufini, il Pantaleoni il Volponi, il Mazzanti e molti altri testimoni, cosicchè rimane interamente consolidato questo fatto, già asserito da almeno sessanta degli accennati settantasette storici che si occuparono dei fatti del triennio 1846-1849, dalle narrazioni e considerazioni dei quali risultava già che il Rossi si era alienato gli animi dei clericali per la tassa a cui ne sottoponeva i beni e per le antiche diffidenze verso il carbonaro del 1814; si era alienato l’animo di tutti i patriotti e liberali per l’orrendo articolo schernitore di Carlo Alberto e del Piemonte e per la sua politica avversa alla lega per la guerra di indipendenza; e aveva raffermato nell’odio contro di sè i repubblicani, già ostilissimi a lui, con la chiamata a Roma dei Carabinieri, con l’arresto del Bomba e del Carbonelli e con altri atti che sembravano minacciare le istituzioni costituzionali.

Io ho dimostrato nel 1° volume di quest’opera come l’illustre statista, benchè ostinato nella erronea illusione di poter riconciliare il Papato e la libertà, Pio IX e gli Italiani, pur troppo separati dall’encicliea del 29 aprile, fosse pure [p. 137 modifica]lealmente deciso a mantenersi scrupoloso osservatore della costituzione; e di questa sua determinazione molte prove hanno dato e danno le presenti resultanze processuali: ma, disgraziatamente per l’insigne uomo, queste prove che oggi sono note a noi, non soltanto non erano allora conosciute in quel cozzo di passioni agli uomini che si agitavano in quel tempestoso ambiente, ma anzi parecchi degli atti pubblici compiuti dal Conte Rossi si prestavano ad interpretazioni maligne e sinistre, come di atti offensivi alle istituzioni rappresentative3.

Era, quindi, logicamente fatale che, in quelle correnti di diffidenza, di avversione e di ostilità, mentre la maggioranza dei patriotti e dei liberali, anche moderati e con gli articoli dei giornali, con le satire, con le caricature, con le declamazioni nei Circoli si preparava a combattere il Ministro nell’arena politica parlamentare ed anche con manifestazioni di pubblica disapprovazione, una piccola minoranza più esaltata, meno leale e più facinorosa, composta quasi tutta di settarii, volgesse in mente il disegno di spegnere più speditamente e più sicuramente col pugnale l’aborrito Ministro — da essa, nel subiettivismo dei suoi preconcetti considerato come nemico e traditore della patria.

Si spiega, quindi, — non si giustifica, mi si intenda bene — date quelle premesse, la logica conseguenza che quella idea funesta cominciasse, dopo il 4 novembre, ad aggirarsi contemporaneamente, ma separatamente, in alcuni di di quei cervelli e che, quindi, un cittadino la comunicasse segretamente all’altro.

Così è logico, è naturale e si spiega come alcuni di quegli esaltati nel sospetto, altri nella convinzione e nella [p. 138 modifica]certezza che il Rossi si andasse preparando a quello che con frase esotica si dice un colpo di stato — e moltissimi, anche non settari, ci credevano — si spiega come parecchi di quegli esaltati, e specialmente Ciceruacchio, il Principe di Canino e il Guerrini sotto la ispirazione e la istigazione dello Sterbini si adoperassero in quei giorni — come era già storicamente noto e come risulta provato dalle resultanze processuali — a sedurre e corrompere le milizie regolari, Dragoni, Finanzieri e fin anche Carabinieri, ai quali il Principe di Canino, diceva: lasciate questo Papaccio, vi dò paga doppia.

E così si spiega anche, con quelle premesse, con quell’ambiente, con quel clima storico, come quella idea della uccisione di Pellegrino Rossi, avvalorata negli animi del Canino, di Ciceruacchio, del Guerrini, di Angelo Bezzi e di Luigi Salvati, dalle eccitatrici, autorevoli, suggestionanti parole di Pietro Sterbini, rimasta segretissima fra cinque o sei sino al 12 novembre, passasse dallo stato di incubazione, allo stato di sviluppo.

Sulla vera preparazione della trama, in realtà le risultanze processuali sono piuttosto oscure; pure non lo sono tanto da non permettere, a chi voglia e sappia raccogliere e coordinare i fili di luce che si insinuano, qua e lá, fra quelle tenebre, di scorgere la verità.

Due circostanze sono assicurate dalle risultanze del processo e sono queste: che la uccisione di Pellegrino Rossi fu discussa e deliberata in una segreta riunione; che questa riunione fu tenuta, non si sa dove, due o tre giorni al più prima del 15 novembre.

Che ci fosse questa riunione due o tre giorni prima del giorno 15 si ha in atti dalle deposizioni di Francesco Anessi giardiniere del Principe Massimo, dell’avvocato Dionisio Zannini, del Dottor Diomede Pantaleoni, del Cavalier Domenico Antonio Nardini, dalla deposizione stragiudiziale [p. 139 modifica]ultima di Sante Costantini e da una piccola nota di Monsignor Pentini che or ora produrrò.

I lettori ricorderanno che Francesco Anessi aveva deposto avergli il Dottore in chirurgia Pietro Quintili predetto il giorno 14 novembre la uccisione del Conte Rossi pel 15 novembre all’apertura della Camera e avergli, dopo l’omicidio, detto le precise: r omicidio è attenuto come ti avevo io già detto.

Ricorderanno del pari i lettori che Angelo Bezzi4, parlando, la mattina del 14 novembre con l’avvocato Dicnisio Zannini, gli partecipò come sì fosse stabilito di farla finita col Rossi alla riapertura della Camera e con asseveranza gli confermò, essere incerto ancora il modo, cioè se dovesse fare la fine del Prina, o in altro modo.

II Dottor Diomede Pantaleoni aveva deposto che, parlando con lo Spini redattore dell’«Epoca» uno o due giorni dopo l’assassinio Rossi, disse non aspettarsi egli quell’assassinio, perchè sebbene se ne fosse discusso — non disse nè dove, nè quando — egli ed altri — che non nominò — aver parlato contro con tale energia da esser partiti convinti che non sarebbesi fatto nulla; e il Pantaleoni soggiunse in quello stesso primo esame che realmente lo Spini non si attendesse all’assassinio lui deponente lo giudicò dal non avere egli la sera pubblicato il «Don Pirlone» che gli disse dover contenere non sa se una caricatura o una satira del Conte Rossi.

Il Pantaleoni aggiunse nel successivo esame: Per le parole dello Spini da principio fu mía idea che la discussione sull’omicidio Rossi potesse essere avvenuta al Circolo popolare: ma, considerando che discussioni di tal genere non si avrebbe osato di tenere con certa pubblicità, stimai che si trattasse di qualche altra riunione segreta. Lo Spini parlò di «teste calde» e di «quei fanatici».

Il Cavalier Domenico Antonio Nardini, minutante al [p. 140 modifica]Ministero dell’Interno e che, per incarico del Conte Rossi procede alle ammonizioni del Maiorini, del Galeotti e di altri cospiratori della Salita di Marforio e diede gli ordini per l’arresto e per la estradizione del Carbonelli e del Bomba depose: in seguito il Grandoni, scrittore della storia contemporanea, mi riferì in segreto che la uccisione del Rossi era stata stabilita in una notte poco prima dell’apertura della Camera, ossia prima del 15 novembre 1848 da un complotto di faziosi alla testa del quale vi era lo Sterbini.

E Sante Costantini, esaminato un’ultima volta avanti al secondo Turno del Supremo Tribunale della Sacra Consulta, dopo la sua rivelazione stragiudiziale, depose aver saputo da Ranucci che Sterbini, Guerrini e Salvati riuniti in casa del primo avessero giorni innanzi alla mattina del 15 novembre 1848 concertata la uccisione del Rossi.

Dunque la riunione ci fu indubitamente non solo, ma essa avvenne certamente non il 14 novembre, ma uno o due giorni prima, perchè il Quintili ed il Bezzi il giorno 14 già sapevano che la uccisione del Rossi se non concertata, era però stata decisa: questo è evidente.

Fin qui le risultanze processuali ci assicurano che noi siamo nel vero; ciò che esse non ci dicono è se la riunione fu tenuta FU, ovvero il 12, oppure il 13 novembre e non ci dicono ove fosse tenuta.

Vediamo, dunque se ci riesce di scoprire, sulla scorta di ragionevoli congetture e di qualche documento, la verità sopra le circostanze suindicate.

Per me, che ho la piena e completa visione del dramma di piazza della Cancelleria quale risulta dalla storia integrata dalle risultanze processuali, la riunione ferale fu tenuta il 13 novembre 1848.

Difatti il Nardini nella sua deposizione dice: debbo ritenere che la congiura contro il Rossi venisse ordita pel fatto del Carbonelli, mentre in una delle cartelline contenenti gli appunti presi da Monsignor Pentini per la storia del triennio 1840-49 — che, poi, pur troppo, non scrisse — è notato: Li 5 febbraio 1852 il Marchese Ferrajuoli mi disse che esso si trovò o il giorno 14 o il giorno 13 in casa Sterbini, [p. 141 modifica]quando giunse uno dicendo che un tale napoletano era stato dal Conte Rossi arrestato a Civitavecchia, il quale individuo era prima stato arrestato, poi lasciato, poi come sopra nuovamente arrestato e diceva che quel tale doveva essere consegnato alla Corte di Napoli ed allora Sterbini disse: Ah male! (parlando di Rossi) finisce gettato a fiume5.

Dalla quale nota — non ostante le inesattezze circa l’arresto, il rilascio e poi il nuovo arresto del Carbonelli — appare chiaro che l’imprigionamento del Bomba e del Carbonelli fu la solita goccia che fece traboccare il solito vaso e l’ultima causa impellente alla uccisione del Bossi, come aveva notato nella sua deposizione il Nardini e come, del resto, risulta luminosamente dalla indignazione sollevata nel giornalismo e nei Circoli da quel fatto, tanto più grave in quanto che la determinazione presa di riconsegnare al governo borbonico i due arrestati, implicava, pei due esuli napoletani, supremi pericoli, giacche essi erano coinvolti nel processo per la sommossa e le barricate avvenute a Napoli il 15 Maggio di quello stesso anno.

Quindi, dappoichè l’arresto del Carbonelli e del Bomba avvenne la sera del 12 così è chiaro che la notizia recata come una novità in casa Sterbini, mentre era presente il Marchese Ferrajuoli, fu recata il 13 e non il 14 quando essa era già da ventiquattro ore divulgata e aveva dato origine a violenti articoli dell’Epoca, del Contemporaneo, della Speranza, della Pallade e di altri minori giornali.

Per me, quindi appare logico e razionale che l’arresto del Carbonelli e del Bomba, essendo la causa ultima e determinante dei propositi omicidi contro il Bossi, fu il fatto che indusse lo Sterbini a tenere la sera stessa del 13 novembre la riunione segreta da cui doveva scaturire il decreto funesto.

Ma dove avvenne la riunione?

Io dico, non al Circolo popolare per le ragioni prudenziali esposte dal Dott. Diomede Pantaleoni.

Dove dunque?

[p. 142 modifica]o in casa dello Sterbini, come, sulla fede del Ranucci, depose Sante Costantini nel suo ultimo esame, o nella vendita di Carbonari, esistente allora rigogliosa in Trastevere, alla quale aveva appartenuto lo Sterbini fino al 1831, prima del suo esilio, alla quale avevano appartenuto e appartenevano Ciceruacchio e il Dott. Pietro Guerrini in cui, secondo ogni probabilità, si erano raccolti e ristretti numerosi, dopo la enciclica del 29 Aprile, i più esaltati patriotti e repubblicani.

E io credo fermamente che là, in quella baracca, la sera del 13 convenissero i più autorevoli fra gli affigliati: certamente Angelo Brunetti, Pietro Guerrini, Leopoldo Spini, Carlo Luciano Bonaparte di Canino, Angelo Bezzi, il Dott. Sisto Vinciguerra, Pietro Quintili che, quantunque giovine, doveva essere investito del grado di Maestro; là probabilmente Luigi Salvati, Gerolamo Conti detto Girolometto, Michele Mannucci, l’Avvocato Nicola Carcani, Alessandro Todini e altri.

Lá, molto probabilmente e molto verosimilmente, si agitò la questione se si dovesse decretare l’anneramento nota dell’antico buon cugino Pellegrino Rossi, che era venuto meno ai suoi giuramenti ed erasi mutato in nemico della libertà e traditore della patria.

Là lo Spini e qualche altro avran messe innanzi, con calore ed energia, tutte le ragioni che dovevano sconsigliare da quell’eccesso: la inutilità di quell’omicidio contro un uomo a cui era così manifestamente e universalmente avversa la opinione pubblica, a cui mancava ogni forza per mandare ad effetto, se anche lo avesse voluto, un colpo di stato, dappoichè buona parte della Civica, tutti i Reduci di Vicenza, i Dragoni, i Finanzieri erano guadagnati alla causa democratica e gli stessi Carabinieri, e specie il loro Comandante Calderari, erano oscillanti a sostenere attentati contro le libere istituzioni; la evidente debolezza parlamentare del Rossi il quale, sotto gli assalti dello Sterbini, dell’Armellini, dello Sturbinetti, del Canino, del Mariani, del Torre, del Di 6 [p. 143 modifica]Campello, del Berti Pichat, del Rusconi, del Borgia, del Sacripante, del Manzoni, del Marini, del Caporioni, del Galeotti 7 e specialmente sotto gli assalti dei due autorevolissimi e popolarissimi Avvocato Galletti — assai influente sui rappresentanti romagnoli — e Conte Mamiani, che esercitava un grande ascendente sui Deputati Umbri e Marchegiani e sotto i concordi assalti del giornalismo, dei circoli, della opinione pubblica avrebbe dovuto infallantemente cadere e sarebbe caduto dal potere; la odiosa ripercussione che quella uccisione avrebbe prodotta in Europa: lo scalpore che di quel delitto avrebbero menato tutti i reazionarii del secolo contro la causa della indipendenza italiana; l’onta che da quel delitto sarebbe scaturita contro tutto il partito liberale romano, sul quale quella uccisione avrebbe pesato come macchia incancellabile; tutte queste ragioni saranno state addotte fra quelle teste calde e fra quei fanatici.

Ma gli oratori di questi fanatici e primo, verosimilmente, lo Sterbini, avranno risposto con enfasi e con calore, sottoponendo agli adunati tutte le ragioni che, secondo loro, rendevano utile e necessaria la soppressione di Pellegrino Rossi, colpevole di tradita Carboneria, l’uomo scettico, materialista, immorale, beffardo, allievo e seguace della corruzione di Luigi Filippo e del Guizot, l’uomo dalle cinque patrie, l’uomo dallo straordinario ingegno e dalla straordinaria dottrina, l’uomo abilissimo senza scrupoli e senza idealità, l’uomo dalla eloquenza affascinante, che si era venuto a fare il gerente responsabile della politica reazionaria del fedifrago Pontefice e che voleva l’alleanza col Borbone e si opponeva alla lega col Piemonte, che avrebbe impedito il [p. 144 modifica]rinnovamento della guerra per la indipendenza nazionale. Se si lasciava parlare Pellegrino Bossi egli avrebbe trascinato con sè la maggioranza della tiepida e fiacca Assemblea legislativa e la avrebbe aggiogata al corso della sua politica esiziale alla patria. Che quand’anche, per una ipotesi, si volesse ritenere cosa possibile che l’Assemblea fosse per rovesciare il Ministero con un voto di sfiducia, il Rossi non essere uomo da darsi per vinto: la sua fermezza e la sua audacia esser note come erano noti, per un seguito di atti manifesti, i suoi propositi liberticidi; egli avrebbe sciolto il Consiglio legislativo, avrebbe adoperato per intanto la forza dei Carabinieri e avrebbe fatto venire gli Svizzeri da Bologna per soffocare la libertà. Bisognava sopprimere quell’uomo nefasto: col sangue di un solo si sarebbe salvato il paese dalla guerra civile, si sarebbero salvata la patria e la libertà.

Questi — senza averli uditi pronunciare — si può esser sicuri che fossero i ragionamenti fatti da quegli esaltati, perchè questi furono, su per giù, i ragionamenti con cui libri e giornali cercarono di giustificare subito dopo quell’omicidio.

Avran replicato contro quei ragionamenti, mettendone in luce le esagerazioni e la fallacia, lo Spini, forse il Mannucci, forse altri pure, nuovamente avran dimostrato l’irreparabile danno, il perpetuo obbrobrio che da quella uccisione sarebbero derivati e sarà parso ad essi di aver persuaso i più e, dovendo allontanarsi dalla baracca, per altri impegni, saran forse partiti convinti — come lo Spini disse al Pantaleoni — che non si sarebbe fatto nulla. Ma, invece, allontanatisi i più fervidi oppositori, i più esaltati, rimasti al convegno, avran continuato a discutere, forse sarà sopraggiunto qualche altro buon cugino testa calda e infine si sarà deciso di uccidere Pellegrino Rossi, delegando la esecuzione del decreto al grande eletto Pietro Sterbini.

I particolari la storia li ignora, ma sul fondamento di tutto ciò che le è noto, essa può congetturarli, può ricostruirli senza tenia di allontanarsi dal vero. Così come io li ho esposti, si saran svolti, dal più al meno, gli incidenti di [p. 145 modifica]quella, riunione tanto se essa avvenne, come io credo, nella vendita Carbonara di Trastevere, quanto se essa fu tenuta invece, in casa di Pietro Sterbini, come sulla fede del Ranucci asserì il Costantini.

Ora per l’accordo esecutivo non c’è quasi più bisogno di procedere per congetture: le deposizioni Tittoni e Macchielli ci han detto ciò che avvenne. Lo Sterbini, per l’intermezzo di uno dei suoi più fidi — forse, quasi certamente, di Angelo Bezzi — fece raccogliere a sera tarda nell’osteria del Fornaio a Ripetta quei sei giovani, scelti da lui stesso e dal Bezzi fra i più caldi, i più coraggiosi, i più decisi, scelti fra coloro che eran già convinti che l’uccisione del Rossi fosse opera giusta, di legittima difesa, patriottica e meritoria.

Si può ritenere per certo che il Bezzi o chi altri fosse, diede a quei giovani appuntamento all’osteria del Fornaio per le dieci e mezza e le undici di sera, senza prevenirli punto di ciò che si doveva fare e senza dir loro che là sarebbe andato Pietro Sterbini.

E di quei sei noi ormai sappiamo sicuramente chi fossero almeno cinque e cioè Luigi Brunetti, Felice Neri, Filippo Trentanove, Antonio Ranucci detto Pescetto e Sante Costantini, caldi tutti, tutti fanatici, giovani decisi, rissosi, audaci e, a causa della loro esaltazione, pronti a tutto. Allo stato degli atti resta dubbio se il sesto fosse lo stesso Angelo Bezzi, o fosse il mosaicista Alessandro Todini, il quale era uomo di trentotto anni, gagliardissimo delle membra, pronto alla azione e antico carbonaro del tentato movimento insurrezionale romano del 1831: e non sarebbe neppure improbabile che il Bezzi e il Todini si trovassero tutti due quella sera del 14 novembre all’osteria del Fornaio8.

[p. 146 modifica]Ad ogni modo ciò che seguisse è noto.

A quei giovani, a cui la esaltazione politica era accresciuta, in quel momento, da quella delle reiterate libazioni, Pietro Sterbini, che per coloro, era una specie di oracolo, rivolse acerbi rimproveri di cui egli, col suo pronto ed acuto ingegno, aveva precedentemente meditata la efficacia e calcolati gli effetti.

A quei rimproveri insorse l’animo bollente di Luigi Brunetti, che del padre aveva gli istinti generosi, il temperamento impetuoso, la limitata intelligenza e, disgraziatamente, anche la ignoranza, in lui non attenuata neppure da quel certo tatto, da quella certa esperienza e, per conseguenza, da quel certo buon senso che i cinquantanni di vita abbastanza burrascosa vissuta avevano dato a suo padre Angelo.

Non è detto nè dal Tittoni, nè dal Mucchielli che insorgessero anche gli altri: ma, in quell’ora e in quel luogo, è assai verosimile che anche gli altri protestassero e insorgessero: ad ogni modo, con maggiore energia e ardimento degli altri, si ribellò Luigi Brunetti, il quale — senza accorgersene, senza saperlo — si sentiva degli altri più forte, perchè sentiva stese su di sè le ali poderose del padre, che [p. 147 modifica]giustamente il Perrens chiamò, nella sua imparziale storia di quel periodo, il Re di Roma9.

Appena quei giovani si furono palesati accesi e pronti alla strage, come lo Sterbini aveva preveduto e calcolato, il Direttore del Contemporaneo cercò di calmarli, invitandoli a seguirlo nella vicina piazza del Popolo, ove, davanti alla Fontana, strettili a giuramento, li eccitò a correre quella notte stessa ognuno a casa del più fido proprio amico e commilitone, invitandolo a levarsi di buon’ora all’indomani a indossar la divisa dei Reduci di Vicenza e sollecitandoli ad andare nelle prime ore del mattino a trovare e ad invitare altri reduci amici ad accorrere anche essi alla piazza della Cancelleria.

Evidentemente lo Sterbini ai sei o sette che fossero impose di serbare il più assoluto segreto sul concertato disegno omicida, consigliando loro di dire soltanto agli amici presso i quali si apprestavano ad andare che si doveva fare una dimostrazione ostile al Rossi e adoperare le daghe contro i Carabinieri, nel caso che essi avessero ricorso alla violenza contro i Reduci di Vicenza o contro la Civica.

La verità di questo accordo preso quella sera e mandato ad atto in quella notte e nelle prime ore del mattino susseguente emerge dalle deposizioni di parecchi testimoni, i quali riferiscono che a piazza della Cancelleria, nelle ore antimeridiane del 15 novembre, al sopraggiungere di qualche nuovo Legionario in divisa si udivano le esclamazioni di sorpresa: Oh bravo! sei venuto tu pure f Ah! ci sei anche tu? Bravo!

Le quali esclamazioni di meraviglia provano ad evidenza come quell’accorrere di Legionari non fosse la conseguenza di un accordo prestabilito parecchi giorni innanzi, ma fosse realmente la conseguenza di un avviso corso inaspettatamente e precipitosamente durante la notte del 14 e durante le ore mattutine del 15.

E qui occorre che per un’ultima volta richiami l’attenzione dei lettori sopra una considerazione, a cui ho già accennato altre due volte, che desunta dagli atti processuali [p. 148 modifica]li avvalora in quanto essi provano che la trama contro il Ministro Rossi fu condotta così come io son venuto esponendo e in altra guisa non potè dallo Sterbini essere condotta: e la considerazione è questa. Non ostante la sagacia, la preveggenza, l’astuzia e la rapidità con cui, in poco più di quarantotto ore, la congiura fu ordita e mandata ad effetto e con tutte le precauzioni prese perchè restasse segreta, occultissima e ristretta fra pochi, solo che il giardiniere Anessi fosse stato un uomo energico ed intraprendente, solo che l’Avvocato Zannini fosse stato meno tremebondo coniglio, il Ministro Rossi ne sarebbe stato prevenuto nella sera del 14 per la femminea e loquace leggerezza di Pietro Quintili e di Angelo Bezzi.

Non dico poi della divulgazione che la disegnata uccisione ebbe — e logicamente dovette avere — durante la notte del 14 e nelle prime ore mattutine del 15; giacche ognuno di quei sei o sette avrà naturalmente confidato, nel più alto segreto, al più fido fra i due o tre amici che sarà andato a svegliare o nella notte o alle prime ore del successivo mattino la deliberata uccisione: e naturalmente alla mattina del 15 quei sei o sette fidati amici, ne avranno messo a parte ciascuno, almeno almeno, un altro fidato amico: cosicchè quando il Conte Rossi giunse nell’atrio del palazzo della Cancelleria Apostolica almeno venti di quei cinquanta o sessanta fra Legionari, Civici, Tiraglioli e borghesi ivi agglomerati conoscevano il segreto.

Del qual fatto si hanno le prove in processo nelle deposizioni di parecchi testimonii che udirono in quei gruppi pronunciare fiere minaccie e parole di morte contro il Rossi.

Ora se le cose procedettero così, non ostante il brevissimo spazio di tempo di poco più di quarantott’ore fra la concezione, la deliberazione e la esecuzione del ferale decreto, si può facilmente comprendere che cosa mai sarebbe avvenuto di quel segreto se — secondo le leggende dello impunitario Bernasconi e del Processante Laurenti — la congiura fosse stata condotta, nel modo infantile immaginato in quelle leggende, vagante per quindici giorni di riunione in riunione fra le duecento persone raccolte al fienile di [p. 149 modifica]Ciceruacchio e le cento raccolte al Teatro Capranica per la estrazione delle palle nere... sarebbe proprio divenuto davvero il famoso segreto di Pulcinella e il Rossi e il Governo ne avrebbero avuto o il giorno 12, o il 13, o, al più tardi nella mattina del 14, otto, dieci, dodici avvisi.

Lo Sterbini e Angelo Brunetti e il Guerrini, come è dato desumere dagli atti del processo dai giornali del tempo e dagli storici più vicini a quell’avvenimento, si adoperarono, durante il giorno 14 a diffondere in tutti i modi la voce fra i civici più caldi e liberali — che ascendevano a tre o quattro mila — fra i Legionari, fra i Finanzieri e fra quelle tali schiere plebee che seguivano Ciceruacchio — e nelle quali purtroppo si insinuava la ciurmaglia dei ladri e dei rapinatori — che occorreva il giorno appresso uscire in divisa ed armati per respingere con la forza gli attentati che il Rossi meditava commettere contro la libertà per mezzo dei Carabinieri.

E fu così e fu per questo fatto che anche Luigi Grandoni, il quale, per la sua rivalità con Bartolomeo Galletti e per la sua eccentricità e vanità, e per il suo temperamento, fin dal suo ritorno dal Veneto si era venuto, come del resto il novantacinque per cento dei patriotti romani a quei giorni, alienando, non tanto da Pio IX, quanto dalla consorteria austro-reazionaria dei Cardinali e dei Prelati che ormai lo avevano accerchiato e suggestionato ai danni della causa nazionale, fu per questo fatto, fu così che anche Luigi Grandoni, che era stato Tenente, nella Legione, che, per la sua posizione, per la sua onestà, pel suo censo, aveva molta aderenza fra i Legionari dei cui interessi, insieme col Ruspoli, col Belli, col De Angelis, con Giovanni Costa, si era dal Settembre venuto occupando nelle sette od otto riunioni tenute prima all’aria aperta al tempio della Pace, poi per due volte alla Filarmonica, poi per altre quattro o cinque volte al Teatro Capranica a fine di ottenere dal Municipio le medaglie cemmemoratrici degli onorandi fatti d’arme di Vicenza, a fine di venire in soccorso dei bisognosi, di trovare lavoro ai disoccupati, a fine di organizzare in battaglione mobilizzato tutti quelli fra i Reduci che non avevano [p. 150 modifica]potuto o voluto allontanarsi da Roma e seguire il Galletti nelle Romagne, fu per l’accennata chiamata alla piazza della Cancelleria che Luigi Grandoni si trovò anche egli in divisa di Tenente Legionario, col cappotto di Tenente Civico, nell’atrio del palazzo, ignaro completamente della trama ordita dallo Sterbini.

E, quando, agirandosi fra quei Legionarii, udì tronche parole, sorde e terribili minaccie e si avvide che fra quei giovani era stato formato il disegno di uccidere il Ministro, Luigi Grandoni, che, sebbene ostile alla politica del Rossi, non aveva cessato di essere uomo relativamente temperato e alla cui coscienza repugnava un simile eccesso, si affannò — come deposero il Buti, il Cimati, il Tibaldi, il Pelagrossi, il Corbò, il Fabi e il Testa — in mezzo a quei giovani ... e non a persuaderli e a sospingerli al delitto, ma a dissuaderneli con ragionamenti, esortazioni e preghiere.

Ma, pur troppo, quel tentativo di salvezza non riuscì: il Rossi giunse, discese, fu accolto da fischi ed urli, circuito, stretto e il coltello da caccia di Luigi Brunetti lo percosse al collo con terribile colpo, che gli recise jugulare, carotide e trachea.

A maggiormente convalidare per la verità storica queste, che sono resultanze processuali, ora io addurrò tutte le testimonianze stragiudiziali e i documenti da me raccolti per sempre più dimostrare che l’uccisore del Rossi fu Luigi Brunetti e che Luigi Grandoni era ignaro assolutamente della trama la quale doveva togliere la vita al Conte Rossi e che, perciò, fu ingiustamente condannato all’estremo supplizio, mentre era innocente. Ma prima di procedere oltre, ho bisogno di premettere una dichiarazione.

Io ho letto, qua e là, in certi giornali, — che si intitolano democratici e che in realtà speculano nell’interesse loro e della loro sètta sulla storia del nostro risorgimento — che essi conoscono imperfettamente, ad orecchio — e cercano di sfruttarne gli ardimenti e i sacrificii a beneficio dei loro fini faziosi, sequestrando a se e come roba loro gli eroi del nostro riscatto e facendone i vessilliferi delle schiere più turbolente e facinorose della patria ciurmaglia e attribuendo [p. 151 modifica]a quei nostri grandi pensieri e sentimenti che essi non ebbero, non conobbero e non nutrirono — io ho letto talora in questi siffatti giornali lamentele sentimentali contro il soverchio rigore di metodo apportato dalla critica degli otto o dieci scrittori, seriamente e notoriamente studiosi della vera storia del risorgimento italiano al nobile e doveroso scopo di sfrondarla delle leggende, di cui la sua stessa meravigliosa e quasi prodigiosa grandezza spesso ha tale storia circondata e ho letto declamazioni retoriche contro quel giusto metodo e ho veduto affermato il desiderio che tale storia resti allo stato di nebulosa, con le sue inesattezze, con le sue esagerazioni, con i suoi errori, dappoichè sembrò a quei siffatti giornali che noi scrittori, riducendo la storia alla sua documentata e marmorea verità, finiamo per spogliarla della sua parte poetica.

Ora io dichiaro che dei sentimentalismi e delle declamazioni di codesti ignobili pubblicisti, speculatori di patriottismo e sfruttatori di una nobilissima storia che essi ignorano e che spesso, col monopolizzarla ai turpi loro fini, guastano e contaminano, io non mi diedi mai, nè mi darò un pensiero al mondo.

Seguace del metodo, io so e sento che la storia deve essere studiata obiettivamente e obiettivamente e imparzialmente scritta per la verità, la quale è una sola e assoluta e si sottrae e si deve sottrarre a qualsiasi influenza di leggende, di preconcetti, di pregiudizi, di passioni e di partiti.

La storia non può essere più scritta oggi come la scriveva duegentotrentacinque anni fa Monsignor Benigno Bossuet per uso del Delfino: no: nè pei Delfini del trono, nè pei Delfini della ciurmaglia si scrive e si deve scrivere oggi la storia: ma unicamente per la verità, poichè si scrive e deve essere scritta a base di documenti, non a base di fantasie retoriche, a constatazione di ciò che realmente fu, non a beneficio di faziosi interessi, a istruzione dei popoli non a velicamento delle loro passioni.

Certo, siccome lo scrittore è un uomo, e per quanti sforzi faccia e riesca a fare sopra sé stesso, non riesce sempre a sottrarsi totalmente alla simpatia o alla antipatia, alla pietà [p. 152 modifica]o alla repugnanza che, pel complesso delle loro azioni, possono ispirare ed ispirano alcuni personaggi, certo esso pure, in qualche momento, non può non sentire rincrescimento o dolore, quando dalla evidenza dei documenti è tratto o a menomare lo splendore leggendario di un personaggio o ad offuscare di qualche ombra la figura di qualche altro: ma queste umane considerazioni non possono e non debbono distoglierlo dal dire la verità su tutto e su tutti.

E dico questo anche perchè mi avvenne di leggere pure mi articoletto di un illustre ignoto, tanto scemo quanto ignorante, il quale pareva volere ascrivere a mia colpa la divulgazione della verità che Luigi Brunetti fosse l’uccisore di Pellegrino Rossi.

Mettendo da un canto che quel nome era stato sempre susurrato dal 15 novembre 1848 in poi, mettendo da mi canto che parecchi storici lo avevano anche indicato — senza addurre prove — come quello del sopposto autore della uccisione dell’illustre penalista ed economista, sta di fatto che il primo testimone oculare il quale la verità affermasse in proposito fu il valoroso pittore e ardente patriota romano Giovanni Costa, caporale della Legione romana, il quale, fin dal 1883 — cioè undici anni prima che io pubblicassi il primo volume dell’opera mia Ciceruacchio e Don Pirlone, Ricordi storici della Rivoluzione Romana 1846-1849, su documenti nuovi10 e nove anni innanzi che dessi fuori il primo volume di quest’opera Pellegrino Rossi e la Rivoluzione romana su documenti nuovi — in occasione della prima esposizione di documenti della storia del Risorgimento tenuta a Torino nel 1882-83, in una sua lettera autografa, indirizzata, in data 10 marzo 1883, al Commendator Biaggio (sic) Placidi, Presidente della Commissione per la storia del Risorgimento italiano, esistente nell’Archivio di Stato di Roma11 e nella quale, dopo narrati varii fatti da lui veduti e dopo aver messa specialmente in luce la parte presa [p. 153 modifica]dall’elemento romano nelle guerre del 1848-49, sul finire dell’importante documento, scrisse: dirò anche che l’assassinio politico di Pellegrino Roani, mentre lo credo inspirato dagli affigliati del Loyola, lo ho veduto eseguire dall’inconscio braccio di giovani repubblicani. Gigi Cicemacchio colpiva nella carotide il Ministro di Pio IX, mentre un cappotto di guardia nazionale volava sopra il feritore per coprirlo.

Quella lettera di Nino Costa fu inviata a Torino e stette lungamente esposta, per molti mesi, fra i molti documenti inviati dalla Commissione romana presieduta dal Placidi: se nessuno si è dato cura di leggerla, se poi un ignorante si impanca a parlare di cose che non sa, che colpa ne ho io?

Dunque la prima testimonianza stragiudiziale sì, ma oculare che viene a corroborare le resultanze processuali sulla uccisione di Pellegrino Possi è quella di Nino Costa, di cui ebbi la fortuna di essere amico e che mi confermò la notizia in varii colloqui avuti sull’argomento con lui, come si vedrà in seguito, e il quale — cosa notevolissima — conservò i suoi sentimenti repubblicani sino agli ultimi giorni della sua operosa vita.

Una seconda testimonianza oculare è quella del colonnello Giacinto Bruzzesi, uno dei Mille di Marsala, decorato di due medaglie d’oro al valore militare.

Nel 1893, quando io stavo lavorando a fare il sunto di questo processo per la uccisione di Pellegrino Rossi, io mi rivolsi a quel mio nobile amico ed eroico fratello d’armi per avere notizie e chiarimenti: ed egli rispose due lunghissime lettere al mio invito, contenenti preziose rivelazioni, specialmente intorno a Ciceruacchio e delle quali, naturalmente, mi sto valendo pel secondo volume dell’altra opera al generoso capo-popolo consacrata.

In una di tali lettere, datata da Milano il 17 giugno 1893, l’onorando uomo, fra altre cose, così mi scriveva:

Reduce dalla campagna del Veneto, mi trovavo anche io in Roma a figurare in qualche occasione con la famosa panuntella ed ero fra i dieci o dodici al più con quella divisa al palazzo della Cancelleria la mattina del 15 Novembre; perchè Sante Costantini, del quale ero amicissimo, ed altri [p. 154 modifica]commilitoni mi pregarono il giorno avanti di esserci: ma dichiaro, per la santa verità, che nulla sapevo della congiura per la uccisione di Rossi; io mi trovai unito coi compagni in panuntella prima che il Rossi giungesse; ed al momento che la sua carrozza entrò nel portone, una voce ordinò al gruppo di raccogliersi al piede dello scalone — ove, all’atto che il Rossi, accompagnato dal suo segretario, si accingevano ad ascenderlo — assordati tutti da fischi e grida infernali — si formò da noi con prontezza militare un cerchio stretto che divise il Rossi dalla folla — ed io — lo ripeto — che non pensavo che alcuno dei miei compagni sarebbe giunto a quell’eccesso — formai con gli altri la catena — e in un baleno — vidi la mano del bollente Giggi (sic) cadere sul viso del Rossi con atto di chi dà uno schiaffo.

Rossi cadde fulminato; e non credo che dalla folla possa essersi distintamente veduto e conosciuto quello dei miei compagni in panuntella che materialmente aveva fatto il colpo.

Capisco il necessario concorso di Sante Costantini — era tanto intimo del povero fucilato di Argenta; e credo che i congiurati non potessero essere più di tre.

E qui finisce l’importante frammento che si riferisce a quel fatto e la chiusa prova ad evidenza che il Bruzzesi non era informato di nulla, poichè egli crede che i congiurati non potessero essere più di tre, quando noi — i miei lettori ed io — sappiamo indubitatamente che, fra mandanti e mandatarii erano almeno venti, e nella ristretta cerchia della esecuzione erano al meno al meno sette od otto.

Ma la testimonianza del Bruzzesi, per probità di principii, per saldezza di carattere e per autentico eroismo nome autorevolissimo, è importante anche perchè oltre al raffermare la complicità necessaria di Sante Costantini, prova una volta di più come questi fosse fra i più esaltati per idee repubblicane e come il giorno 14, quando ancora esso ignorava il mandato che a notte gli sarebbe stato affidato, egli ed altri Legionari fanatici andassero facendo gente per la dimostrazione ostile al Rossi da farsi all’indomani; con che resta sempre più escluso che Luigi Grandoni emanasse o a voce o in scritto un ordine, o un avviso ai Legionari di [p. 155 modifica]trovarsi il 15 in divisa militare in piazza della Cancelleria.

A queste due testimonianze oculari importantissime fa seguito una terza.

Il 17 Giugno 1894, allorchè da appena un mese era stato pubblicato il I. volume dell’opera Ciceruacchio e Don Pirlone io ricevetti dall’egregio amico Giuseppe Luzi, Ingegnere municipale di Roma, la seguente lettera:

«Onorevole Sig. Raffaello Giovagnoli,

«Ho sott’occhio il primo volume della sua pregevole opera, Ciceruacchio e Don Pirlone, e scorrendola così con curiosità, a sbalzi, prima di incominciarne ordinatamente la lettura, come un ghiottone che vada golosamente spizzicando una vivanda avanti l’ora della mensa, ho appreso fra le altre cose il suo divisamento di trattare in un secondo volume quanto si riferisce a Pellegrino Rossi.

«Della morte di quest’illustre personaggio non c’è a dubitare che, colla stessa veridicità ed esattezza con che Ella parla di tutti gli altri fatti descritti nell’accennato suo primo volume, avrà trovato a svelare i singoli particolari, e specialmente a mettere in chiaro il nome del vero uccisore, onde quanto io verrò a raccontarle adesso giunga a Lei superfluo; però se non altro, perchè quel passo della sua storia Ella lo trovi più che mai confortato da altri testimoni oculari, dopo tanti anni di oscurità, mi usi, la prego, la cortesia di starmi a sentire.

«L’amico mio carissimo Ingegnere Cavalier Giuseppe Scudellari, mancato ai vivi or fa appena un anno, nell’intimità che mi legava a lui, più volte si compiaceva parlarmi dei casi occorsigli nella sua vita giovanile, negli anni dei movimenti liberali 1846 al 1849.

«E più di una volta ebbe a descrivermi pure come il giorno della uccisione di Pellegrino Rossi egli, in uniforme da civico, si trovasse sotto il Portico dell’atrio del palazzo della Cancelleria, ove il Rossi passò; ed egli era in un posto da dove perfettamente potè vedere la mossa del braccio che colpì l’infelice Ministro, e riconobbe indubbiamente la persona che vibrò il colpo, in capo della schiera dei militi [p. 156 modifica]che in quell’atrio fino alla scala faceva ala al passaggio del Ministro. Mi diceva che il feritore era un bel giovinotto; che appena fatto il colpo i Legionari (così esso chiamava quei militi della civica, dando al truce fatto l’impronta di un antico tragico quadro romano) brandirono in alto le daghe sguainate, e sollevossi tosto un mormorio lungo di voci cupe rumorose quasi a coprire l’orrore dell’accaduto.

Ma in quanto al nome dell’uccisore lo Scudellari, che era di una rigidezza ne’ suoi propositi, e di una riservatezza senza pari, mi dichiarò che, sebbene l’uccisore stesso fosse morto da un pezzo, egli ne avrebbe sempre taciuto il nome a chiunque, per la ragione che non voleva essere lui il primo a mettere in piazza una notizia tanto grave, e rimasta sempre nel mistero.

«Ma ecco che un giorno lo Scudellari s’imbattè a parlare con un suo coetaneo, che non aveva mai più riveduto fin dai tempi fortunosi del 47-49, e con esso ritornando ai ricordi di quei giorni lo ode anche parlargli della uccisione di Pellegrimo Rossi, e in quella fargli francamente il nome dell’uccisore, il nome appunto del giovinotto riconosciuto da lui Scudellari nel l’atto del ferimento. E sì che lo Scudellari (e lo posso attestare io che lo vedevo nei lavori di campagna) aveva occhio sicuro, e vista da marinaro.

«Non passa molto tempo che Scudellari mi riferisce l’incontro col suo vecchio amico e la conversazione con lui avuta, e mi dice: «credo inopportuno adesso di tacere ciò che sanno e dicono senza reticenze altre persone: Sappi dunque che l’uccisore di Pellegrino Rossi fu Luigi, il figlio di Ciceruacchio».

«Lo Scudellari nell’atrio della Cancelleria ricostruiva tutta la scena del triste avvenimento. Indicava il posto dove si trovava lui, il Rossi quando fu ferito, e descriveva tutti gli altri particolari.

«Mi perdoni on. Giovagnoli, se forse le avrò arrecato noia e disturbo e gradisca i miei sinceri saluti ed ossequi.

Obbl.mo Dev.mo.

Ing. Giuseppe Luzi


Roma, 17 Giugno 1894».

[p. 157 modifica]Ai lettori non sfuggirá, spero, la importanza di questa testimonianza sorvenuta spontaneamente, per mezzo di un così rispettabile galantuomo quale fu l’Ingegnere Luzi sulla fede di un altro valoroso e onorando cittadino quale fu l’Ingegnere Scudellari, che fu volontario nell’artiglieria che difese le mura di Roma nel 1849, nel 1870 Capitano della Guardia Nazionale, sempre temperato e perfetto gentiluomo.

A questa è da aggiungere la spontanea rivelazione fatta da Giuseppe Cavaracci, uno degli inquisiti in questo processo, pubblicata con deplorevole leggerezza dalla Rivista d’Italia nel fascicolo IX, del 15 settembre 1898, il quale afferma che Luigi Brunetti andò a trovarlo la mattina del 15 novembre verso le dieci e mezzo del mattino e che lo invitò e lo costrinse ad andare a piazza della Cancelleria.

Mi vestii — racconta il Caravacci — andai solo alla Cancelleria, entrai il portone (sic) e appoggiato a una colonna del portico, attorniato da un gruppo di Legionarii, trovai il mio amico. — Sbrighiamoci, che io debbo tornare a casa, gli dissi — Fra poco verrà il Rossi.

Infatti, poco dopo, si sentono grida: Eccolo! Eccolo. Giggi mi dice: Andiamo!12 La carrozza entrò nel cortile e si arrestò sotto il portico a sei o sette passi da noi. Cessò il tumulto e s’udì solo un vocìo sordo. Il Ministro scese dalla carrozza fece sette od otto passi verso la scala: e allora Giggi, tratto il pugnale e alzato il braccio, lo colpì al collo. Subito mi prese per la mano, mi trascinò nel cortile e, traversatolo, uscimmo insieme per la porta allora aperta che dava sul vicolo de’ Leutari ecc.

Io qui constatato il fatto che questo e il quarto testimóne oculare stragiudiziale che afferma uccisore del Rossi essere stato Luigi Brunetti, abbandono per il resto quel buon uomo del Caravacci e lo lascio correre liberamente sulle ali della sua fantasia nella rivelazione delle successive panzane e fanfaluche che egli aveva già raccontate a me, [p. 158 modifica]prima di pubblicarle nella Rivista d’Italia, perchè le inserissi nel primo volume di quest’opera; panzane e fanfaluche che io mi rifiutai di raccogliere, perchè io scrivevo e scrivo per spogliare la verità dalle leggende che vi si sono attorcigliate intorno e non per avviticchiarcene delle nuove, le quali, non solo non trovano alcun appoggio nei documenti e nelle resultanze processuali, ma sono completamente smentite dagli uni e dalle altre e soltanto avrebbero dovuto servire a dare un momentaneo rilievo e una fuggevole importanza al più oscuro e inconsapevole gregario di questa congiura, che era allora giovane di appena venti anni, senza ingegno, senza ombra di cultura, senza alcuna autorità, ignoto a tutti e il quale, per essersi recato, sia pure per invito dei Brunetti, sia pure nel modo da esso narrato, nell’atrio della Cancelleria, pretenderebbe infiltrarsi da sè a rappresentare per un momento una parte principale che le resultanze storiche precedenti e quelle emergenti dal processo assolutamente gli contendono.

Effettivamente negli atti fra le deposizioni dei testimoni che descrissero de visu la uccisione del Rossi ve ne sono nove le quali concordano in sostanza nel narrare la uscita del feritore del Rossi dall’atrio per la parte del Vicolo dei Leutari, accompagnato e protetto chi dice da tre, chi da quattro, chi da parecchi compagni in divisa di Legionari di Civici o in borghese: a queste nove deposizioni debbono aggiungersi le due rivelazioni del Neri e di Sante Costantini. Il Neri infatti dice che il Brunetti, vibrato il colpo si staccò con indifferenza dagli altri e si diresse per dentro il cortile per uscire dai Leutari. E, poco, stante aggiunge: Ranucci, un Filippo non so dei quali13 e un altro popolante guardavano le spalle al Brunetti perchè nessuno lo seguisse e inseguisse, il Ranucci anzi spianò una pistola contro chiunque.

E Sante Costantini nella sua rivelazione dice che il Brunetti, dopo colpito il Rossi uscì dalla parte dei Leutari accompagnato da Filippo Medori in divisa del Battaglione Universitario, da Raffaele e Filippo Pennacchini e da [p. 159 modifica]Antonio Ranucci tutti tre vestiti in borghese e da un giovine col bonetto da dragone e da un altro a lui ignoto che non vide mai più.

E descrive il cammino percorso da quel complotto di persone e aggiunge che il Brunetti, il Ranucci ed il Medori presero per gli Orfanelli e lui li perdè di vista ecc.

È, quindi chiaro come la luce del sole, che, se non risulta con precisione chi fossero quelli i quali accompagnarono Luigi Brunetti non risulta che fra quelli accompagnatori vi fosse il Caravacci e risulta poi vittoriosamente provato che furono parecchi, come del resto era logico e naturale: e quindi è escluso assolutamente il fantastico a due narrato dal Caravacci a inventata e mendace millanteria della sua personale postuma vanagloria.

Ed è ugualmente escluso assolutamente tutto il seguito di fandonie narrate dal Caravacci, le quali sono in completa contraddizione con tutti i documenti storici e con tutte le risultanze del processo. Secondo quel fantastico tessuto di fandonie il Caravacci avrebbe accompagnato egli solo Luigi Brunetti, dopo che questi ebbe colpito il Rossi, e lo avrebbe scortato a casa di Ciceruacchio vicino a piazza del Popolo, ove Luigi si sarebbe lavato, mutato di panni, poi, fatta allestire una vettura, sarebbe andato, sempre col solo fido Acate Caravacci, fuori di Porta Salaria in direzione della tenuta di Tor di Quinto, ove il Brunetti intendeva rifuggiarsi. A un miglio di distanza dalla porta Salaria il Brunetti sarebbe sceso di vettura e, invitando il Caravacci a tornare indietro in carrozza, gli avrebbe detto: va da Tata: lo troverai a piazza di Spagna da Mattei: digli che, se dentro domani non fa la rivoluzione sono perduto: non mi vedrà più.

Se i documenti esistenti permettessero di accettare per un istante questa favola male immaginata e peggio svolta da un povero cervelluccio da formica, quel tragico avvenimento e le gravissime conseguenze che ne derivarono — avvenimento e conseguenze che erano la risultanza di un cumulo di fatti storici, addensatisi logicamente gli uni sugli altri nel corso di sei mesi di storia italiana — sarebbero stati il prodotto del caso, il prodotto di un impeto d’ira di [p. 160 modifica]un giovine di ventidue anni, il quale, cortissimo di mente, privo di cognizioni, avrebbe spontaneamente ucciso un ministro e costretto suo padre e tutto un partito a fare all’indomani una rivoluzione!

Mi sono soffermato più assai che non meritasse sulla burlevole millanteria del Caravacci: essa è interamente e in ogni sua minima parte distrutta, come i lettori hanno veduto, dai documenti preesistenti e dalle resultanze processuali.

Occorre piuttosto fermarsi qui alquanto per vedere, se è possibile, di congetturare quale realmente fosse la parte personalmente avuta da Ciceruacchio nella tragedia di piazza della Cancelleria.

Che egli fosse partecipe della preparazione della congiura pur troppo risulta in modo da non potersi assolutamente revocare in dubbio: ripeto che lo stesso Pietro Sterbini non avrebbe potuto concepire e mandare ad effetto un siffatto disegno senza l’assenso e la cooperazione di Ciceruacchio.

Ma la parte individuale del capo-popolo nella esecuzione quale fu? Sapeva egli o ignorava che lo Sterbini aveva affidata tale esecuzione al figlio Luigi?

In verità io ho per lungo tempo vagheggiato la speranza di potere escludere che Ciceruacchio avesse saputo che suo figlio era imo degli incaricati della uccisione del Rossi. Sul fondamento della deposizione di Luigi Badini, seguace di Ciceruacchio e confidente della polizia, il quale disse che la sera del 14 novembre aspettò Ciceruacchio alla porta del Circolo popolare donde questi uscì con Sterbini a un’ora di notte, che accompagnarono Sterbini a casa sua alla fabbrica di Ripetta, che lui accompagnò Ciceruacchio all’Osteria incontro alla casa di lui e poi andò a riferire al Rosalbi le parole dette dallo Sterbini e al Rosalbi parlò al Vicolo del Salvatorello, a me sarebbe piaciuto e piacerebbe ancora supporre che Angelo Brunetti, da quella Osteria del Fornaio, ove lo aveva lasciato il Badini, fosse uscito prestò per andare altrove e che, quindi, egli nulla avesse saputo del successivo raccogliersi in quella stessa Osteria dei sei giovani [p. 161 modifica]a cui era stato dato colà convegno e che, per conseguenza, esso fosse rimasto ignaro della parte assegnata al proprio figlio e da questo assunta nella imminente tragedia.

Ma, riflettendo e meditando sugli atti del processo — e dicendo sugli atti escludo da questi le rivelazioni fantastiche dell’impunitario infame e la relazione del Processante Laurenti — pur troppo vidi che a poter ritenere veritiera ed esatta quella supposizione si opponeva tutto l’atteggiamento inesplicabile tenuto da Ciceruacchio durante l’effettuazione di quel deliberato e preparato eccidio. .

Ma come? quel Ciceruacchio, che andava al Caffè della piazza del Popolo a mansuefare i Carabinieri, quel Ciceruacchio che, durante la preparazione della trama, era penetrato più volte nelle caserme di quelli per sedurli, quel Ciceruacchio, che era entrato in relazione col Colonnello Calderari per paralizzarne lo zelo e indurlo a non essere ostile al popolo, quel Ciceruacchio, che tanto aveva declamato contro l’opera nefasta e liberticida di Pellegrino Rossi, quel Ciceruacchio ardentissimo patriota, profondamente convinto — non importa se a torto o a ragione — che il Rossi era nemico della patria e traditore della libertà e che quindi non solo fosse diritto, ma dovere di buon cittadino il sopprimerlo, quel Ciceruacchio, che aveva, per ciò, evidentemente cooperato a decretarne la morte, quel Ciceruacchio, contrariamente al suo carattere franco e impetuoso, contrariamente alle sue abitudini di essere sempre il primo dovunque ci fosse qualche cosa da dire e da fare per la patria e per la libertà, non si trova presente nell’atrio della Cancelleria in quel 15 novembre 1848? In atti non v’ha un solo testimonio, neppure l’onniveggente impunitario Bernasconi, che abbia veduto Ciceruacchio o sulla piazza, o dentro il palazzo della Cancelleria nell’ora dell’azione; nè dagli atti processuali risulta ove egli fosse in quell’ora, nè che cosa facesse.

Ora questa assenza, questa inazione del capo riconosciuto della plebe militante, è un fatto così singolare, così strano, così a prima vista incomprensibile e inesplicabile che costringe chi legge a profonde riflessioni e a serie [p. 162 modifica]meditazioni. In seguito alle quali chi abbia spoglio l’animo da preconcetti e da prevenzioni, non può non concludere che quella premeditata e prestabilita assenza, che quella insueta e calcolata inazione di Ciceruacchio, benchè diretta prudenzialmente a scagionare il Tribuno della plebe dalla responsabilità del sanguinoso dramma che stava per accadere, benchè tendente ad allontanare dalle menti degli astanti l’idea di una connivenza fra il padre ed il figlio, il quale a quel dramma stava per dare compimento, si risolveva infine in una eloquente affermazione di quella responsabilità e di quella connivenza. Quella assenza e quella inazione provavano e provano troppo: precisamente come l’assenza di Luigi Brunetti da Roma, dopo avvenuto l’eccidio avrebbe richiamato anzi che allontanare dal suo capo i sospetti e le congetture: donde la necessità di farlo subito tornare la sera stessa in città, il che seguì, come raccontò Sante Costantini nella sua rivelazione.

Cosicchè, quantunque noi non abbiamo negli atti processuali alcun indizio del dove potesse essere Ciceruacchio in quell’ora solenne di trepidazione e, dato anche, per caso che egli stesse aspettando ansiosamente ciò che seguirebbe all’osteria di Francesco Mattei a piazza di Spagna, pure possiamo ritenere per certo che egli ebbe la notizia del ferale evento quindici minuti appena dopo che era successo, da venti o trenta di quelli che erano suoi amici e seguaci e i quali si eran trovati al palazzo della Cancelleria; e se suo figlio, avviatosi a Tor di Quinto, avrà voluto mandargli qualche ambasciata gliela avrà inviata immediatamente da taluno di quei parecchi suoi amici che — secondo le concordi deposizioni di nove testimoni oculari — lo seguirono e lo scortarono fuori del cortile per la porticella che immetteva nel Vicolo dei Leutari.

La insulsa favoletta del Caravacci, quindi, creata dalla torbida e boriosa fantasia di un’idiota, a fugace esaltazione della propria nullità, e per effetto della quale Ciceruacchio sarebbe stato a sbevazzare con trenta dei suoi all’Osteria Mattei e sarebbe rimasto per tre ore ignaro di tutto ad aspettare che il Caravacci avesse accompagnato Gigi a casa [p. 163 modifica]a lavarsi, a cambiarsi, a scortarlo in vettura fino a un miglio fuori di Porta Salaria, per poi tornare indietro ed andare ad avvertire il capo-popolo dell’avvenuto, verso le quattro pomeridiane, nell’ora, cioè, in cui a noi risulta Angelo Brunetti già in moto con le sue turbe innanzi alle Caserme per attrarre ad affratellamento i Carabinieri, quella insulsa tavoletta, dico, resta, dunque, assolutamente e completamente smentita prima dal senso comune e poi dagli atti processuali.

Quanto all’esser stato il Caravacci ritenuto in carcere con gli altri imputati e compreso fra i deferiti al giudizio del Supremo Tribunale, non dipese come egli scioccamente asserisce, dalla deposizione di un suo falso amico, ma dall’avere più testimoni constatato la sua presenza nell’atrio della Cancelleria nel momento del misfatto e dall’essere stata provata la sua relazione con Ruggero Colonnello, ritenuto Capo dei Carbonari e degli elementi più turbolenti nel rione Regola, nel quale la famiglia Caravacci e segnatamente Luigi, fratello di Giuseppe, aveva una certa notorietà fra i vaccinari.

Resta ora a vedere per la storia quali fossero realmente le responsabilità di Sante Costantini e di Luigi Grandoni nella uccisione del Conte Pellegrino Rossi.

Sante Costantini, che non mancava di svegliatezza di ingegno, che aveva ricevuto una sufficiente mezza educazione letteraria ed artistica, che aveva seguito l’impeto generoso di impugnare il fucile e di partire per la guerra di indipendenza, che era stato poi tratto ad entusiasmarsi per Pietro Sterbini e per Ciceruacchio e a seguirli nella loro evoluzione contro il Papato e verso le idee repubblicane, appare dal processo un giovane nè al tutto buono, nè al tutto cattivo.

Leggiero, inconsiderato, coraggioso, ma vanitoso e millantatore, non certo soverchiamente amico del lavoro, piuttosto incline alle gozzoviglie ed al piacere, non appare, pur troppo, dotato di un largo senso morale, anzi, sotto questo punto di vista, le risultanze processuali si aggravano formidabilmente sopra di lui con le dodici concordi deposizioni intorno alle frodi commesse nelle note dei lavoranti a Tor [p. 164 modifica]di Quinto, ove egli era soprastante, e con il possesso e la vendita di cavalli provenienti da refurtiva ampiamente emergente dall’incartamento fulignate.

Le ripetute sue smargiassate dopo la uccisione del Conte Rossi, l’imprudentissimo e quasi si potrebbe dire provocante contegno tenuto da lui col fratello Francesco e con Felice Neri durante la troppo lunga loro dimora a Fuligno dal luglio al dicembre 1849, l’essere stato arrestato nell’atto di fuggire all’estero con Felice Neri, i concordi primi rapporti della Polizia che designavano i Costantini come complici della uccisione di Pellegrino Rossi costituiscono l’opprimente fardello sotto il peso del quale egli dovette presentarsi avanti al Giudice Istruttore.

Gli atteggiamenti troppo ingenui, quasi idioti, che egli assunse nei primi suoi interrogatorii e che lo trassero, più tardi, in gravi contraddizioni, non lo schermirono dalle deposizioni sempre più gravi che si venivano accumulando sopra di lui. Le reiterate accuse di Colomba Mazzoni Debianchi, la quale gli cambiava nome, è vero, ed equivocando col nome di Gigi Brunetti, lo chiamava Giggio, ma designava, nella descrizioni della persona e degli abiti, lui Sante Costantini, le vigliacche rivelazioni di Innocenzo Zeppacori, le deposizioni di molti testimoni e di alcuni coinquisiti e per fino dell’agente De Paolis, che era suo amico e gli aveva procurato il passaporto, deposizioni le quali constatarono la devozione di Sante verso Sterbini e Ciceruacchio anclie anteriormente all’omicidio del Rossi, le prove munerose raccolte sulla speciale protezione che lo Sterbini e Ciceruacchio accordavano ai due Costantini e al Ranucci, pubblicamente ritenuti complici della uccisione del Rossi, il frequente lampeggiare di quel maledetto pugnale che Sante Costantini avventatamente traeva dalla sua guaina finirono per costringerlo, man mano, a confessare molte circostanze da prima negate e lo avvilupparono in un ginepraio di accuse concrete, da cui lo sventurato, smessa la primitiva finta ingenuità, cercò, spesso con destrezza ed abilità, ma invano difendersi, ostinandosi, fino all’ultimo istante della sua vita, a proclamarsi innocente.

[p. 165 modifica]Ma innocente di che? se le sue proteste di incolpevolezza si riferivano al fatto materiale della uccisione di Pellegrino Rossi14, certo egli poteva dirsi innocente; ma se egli proclamandosi tale intendeva scaricare da se la complicità sua diretta e necessaria nell’omicidio Rossi, allora egli era smentito e schiacciato dalle molte prove e dai moltissimi indizi raccolti in processo contro di lui, la maggior parte dei quali erano stati somministrati dalle sue stesse imprudenze e spavalderie.

Ora in quel clima di spiegabile reazione in cui si svolse il processo, sotto quella legislazione, con quei metodi di inquisizione, con quel regolamento di procedura, trattandosi di delitto di lesa maestà e di processo di così alta ed eccezionale importanza politica si comprende benissimo come pel Governo pontificio rei ugualmente di morte dovevano apparire ed essere considerati tanto colui che colpì come coloro che concorsero direttamente alla preparazione e alla effettuazione dell’omicidio.

Quindi, date tutte quelle premesse, si comprende benissimo come per i giudici Processanti e per il Supremo Tribunale della Sacra Consulta non solo Sante Costantini — che era in loro potere — ma anche Felice Neri — che la tisi galoppante aveva loro sottratto — ma anche Antonio Ranucci, Filippo Trentanove ed Angelo Bezzi che eran profughi dallo stato apparvero — e dovevano necessariamente apparire — e furono considerati ugualmente rei quanto Luigi Brunetti che colpì, ma che senza la diretta ed efficace cooperazione di quelli e senza il concorso di altri venticinque o trenta di quei giovani, consapevoli o inconsapevoli che essi ne fossero, non avrebbe potuto colpire e non si sarebbe accinto a colpire.

[p. 166 modifica]E, quindi, se quei quattro fossero stati in potere del Supremo Tribunale, questo, anche risultando che il Brunetti era stato il materiale percussore, avrebbe condannato tutti quei quattro all’estremo supplizio come condannò Sante Costantini e come avrebbe condannato il Brunetti, se lo avesse avuto in suo potere.

E non intendo di giustificare, ma di spiegare storicamente soltanto.

Luigi Grandoni, figlio di Pietro e di Innocenza Giuliani, aveva sortito da natura un temperamento irruente e bisbetico.

Dal padre, agiato possidente e mercante di campagna, era stato avviato agli studii; e dalle frequenti citazioni latine che si incontrano nei quattordici costituti di lui si dovrebbe dedurre che il Grandoni fosse dotato di felice memoria e che avesse frequentato anche le scuole di diritto alla Università.

Ma da quei costituti e da tutte le irrequietezze e stranezze della sua vita di Colonnello del Battaglione Reduci, di cui or ora parlerò, traendole da un documento ufficiale, si può affermare che l’intelletto di lui fosse un intelletto esquilibrato.

Non pare che in quel cervello il limitato raziocinio e il modesto discernimento fossero in equa corrispondenza con la torbida fantasia, agitata da sogni ambiziosi.

E pari esquilibrio era nel suo carattere, il quale dagli atti processuali risulta composto da un fondo di grande rettitudine, di abituale probità, di alterezza coraggiosa, di puntigliosa fermezza, in cui si insinuavano le due passioni dominanti in quell’uomo la vanità e l’ambizione.

Nella coscienza del Grandoni c’era un fortissimo sentimento di onore da cui il soverchiante amor proprio di lui traeva un eccessivo sentimento di sè stesso e, da questo esagerato sentimento di sè stesso fuso con la vanità, scaturiva nel Grandoni una straordinaria presunzione, la quale tanto più sembrava svilupparsi e crescere in lui quanto più sembrava che gli altri non comprendessero e non apprezzassero debitamente i meriti di cui egli si riputava adorno.

[p. 167 modifica]E la poca considerazione in cui quei supposti suoi meriti erano tenuti dalla maggioranza dei concittadini del Grandoni acuiva la irritabilità di questo e lo rendeva ombroso e diffidente.

I lettori hanno udito dire dal testimone Francesco Mattei che esso conobbe venti anni indietro — il che val quanto dire nel 1832 — alla cavallerizza di Cesarmi, Luigi Grandoni, detto allora Grandoníno, col quale però non ebbe mai a trattare, per cui se si incontravano il semplice saluto e non ricorda se con esso abbia più parlato.

Quel diminutivo Grandoníno, con cui i giovani coetani designavano il Grandoni, è di una eloquenza storica e illustrativa assolutamente meravigliosa. Esso scolpisce il Grandoni frequentatore della cavallerizza, dei ritrovi, della università, pieno di amor proprio e di presunzione, smanioso di segnalarsi e di elevarsi fra la gioventù ragguardevole, dalla quale non pare che fosse preso sul serio15.

Perchè è bene notare che, sia dai costituti di lui, sia dagli atteggiamenti suoi durante il comando del Battaglione Reduci, emerge evidentemente provato come Luigi Grandoni, [p. 168 modifica]spirito sinceramente liberale, ebbe sempre, anche nel breve periodo in cui più si accostò alla democrazia, innate tendenze aristocratiche: in sostanza egli era un moderato che, ad acquisto di popolarità e a soddisfazione delle sue aspirazioni ambiziose, si sforzava di vincere il proprio temperamento; il quale tornava sempre a far capolino negli scatti subitanei e sdegnosi.

Dalle numerose deposizioni dei Reduci di Vicenza risultano chiare due cose: la poca simpatia che il Grandoni inspirava: e la reciproca avversione esistente nel Veneto fra il Colonnello Bartolomeo Galletti e il Tenente Luigi Grandoni, avversione che derivava da precedenti rancori e che poi degenerò in ostilità.

Il Galletti non aveva opinione favorevole del Grandoni e gli si mostrò sempre poco benevolo e forse, nel rapporto sul combattimento del 10 giugno 1848, ingiusto; mentre il Grandoni, presumendo di valere quanto il Galletti, ritenendosi leso ed offeso dal contegno di esso verso di lui, si afforzava nei suoi disegni ambiziosi. Sarebbe difficile, ed è perfettamente inutile, stabilire chi, fra i due, avesse torto e avesse ragione: probabilmente v’era un po’ di torto e un po’ di ragione da ambo le parti.

Fatto sta che, quando il Grandoni il giorno 10 dicembre 1848 fu eletto Tenente Colonnello del Battaglione Reduci, subito diede prova della sua stravaganza di carattere e di quelle sue tendenze moderate ed aristocratiche.

In fatti il 12 dicembre giungeva improvvisamente in Roma da Ravenna Colonnello Giuseppe Garibaldi e scendeva all’Albergo Cesari.

La sua inattesa venuta non fu gran fatto gradita al Ministero Muzzarelli— Mamiani— Sterbini. Con tutto ciò, e quantunque l’Eroe di Sant’Antonio non fosse ancora popolare [p. 169 modifica]come divenne più tardi a Roma, alcuni dei Reduci, forse i più caldi e più repubblicani, forse assenziente qualche Ufficiale, deliberarono di spiccare un picchetto dal Quartiere di piazza San Claudio nella notte del 12 al 13 perchè facesse guardia d’onore all’Albergo Cesari.

Informato di ciò là mattina del 13, il Tenente Colonnello Grandoni andò su tutte le furie e scrisse al Generale Comandante della Guardia Civica il seguente breve e concitato Rapporto da me trovato nelle Buste della Guardia Civica esistenti nell’Archivio del Campidoglio.16

«Dal quartiere San Claudio
il 13 dicembre 1848

«Rapporto straordinario.

«Questa notte, senza mia interpellazione, alcuni Legionari annotati in questo Battaglione si sono fatti lecito mettere un picchetto nella locanda Cesari per onorare il Generale Caribaldi (sic).

«Occorrono istruzioni tanto per l’accaduto, quanto per ulteriori disposizioni.

«Mi ripeto con stima e venerazione

«A Sua Eccellenza
Il Generale della Guardia Civica


«Il Comandante il Battaglione
Luigi Grandoni».


Se l’avvocato Pietro Gui avesse conosciuto e posseduto questo Rapporto, scritto di tutto carattere del Grandoni, avrebbe potuto dimostrare quale terribile repubblicano e furioso demagogo fosse questo Tenente Colonnello, che non voleva si mettesse picchetto d’onore all’uscio della casa ove dimorava Giuseppe Garibaldi!

Del resto perchè meglio i lettori intendano la irrequietudine e l’umor bisbetico del Tenente Colonnello Luigi Grandoni, quale Comandante del Battaglione Reduci, io li [p. 170 modifica]rimando all’esame del già citato Ristretto Sommario fiscale per aver condotto un distaccamento di Civici il 16 Novembre al convento di San Carlino e che si trova fra i Documenti in fine di questo volume al N. V.

Dalla lettura di quel documento essi vedranno come, a causa della disorganizzazione imperante nelle milizie romane dal dicembre 1848 al giugno 1849, il Battaglione Reduci, il quale, secondo il Decreto 22 novembre 1848 con cui era stato istituito, doveva dipendere militarmente dal Comando Generale della Guardia Civica e amministrativamente dal Ministero dell’Interno, fosse posto anche e abusivamente alla dipendenza della Prima Divisione Militare.

E, quindi, vedranno risultare da quel documento, come il Grandoni venisse due volte a collisione col Generale Bartolucci Comandante la Prima Divisione; come da questo, per disobbedienza e insubordinazione, venisse due volte posto agli arresti di rigore; come egli ripetute volte offrisse le sue dimissioni e chiedesse di essere esonerato dal servizio non potendo più permettere di vedere compromesso il suo onore — sono sue parole — presso persone che prendono di fronte chi alla patria aveva consacrato libertà, interessi e vita col prestar servizio senza percezione di soldo; come esso frammettesse nelle sue querele col Generale Bartolucci l’avvocato Sturbinetti Senatore di Roma e Generale della Guardia Civica, il Pro-Ministro della Guerra Colonnello Calandrelli e il Triumviro Avvocato Armellini; e vedranno altresì come il 30 aprile 1849, mentre ancora non erano state accettate le sue dimissioni, stesse col suo Battaglione, secondo gli ordini ricevuti, in riserva in piazza di Santa Maria in Trastevere e come, in fine, con ordine del Ministro della Guerra Generale Avezzana del 13 maggio il Grandoni venisse sostituito nel comando di quel Battaglione dal Capitano Giorgio Pinna, promosso Maggiore.

Ma, in sostanza, i lettori si convinceranno dalla lettura di quel documento che, se esso mette sempre più in rilievo le stravaganze del Grandoni, conferma sempre più gli intendimenti temperati di esso, il quale, se si era mosso a ribellarsi agli ordini del Generale Bartolucci, lo aveva fatto [p. 171 modifica]per opporsi alla intromissione di Capitani turbolenti che avevano portato il disonore e il disordine nel Battaglione.

Dato l’uomo così come io ho procurato di ritrarlo sul fondamento di informazioni autorevoli e spassionate e sulle resultanze dei documenti e degli atti processuali, si intende e si ha la ragione del contegno da lui tenuto nei suoi costituti e nelle sue difese e si comprende e si spiega come e perchè egli si impuntasse, durante la istruttoria, con una specie di voluttà e con ostinazione caprina a sottilizzare coi Processanti, avanti ai quali, forte del coraggio che gli veniva dalla sicura coscienza e nel tempo stesso, dalla presunzione di essere dotato di un grande ingegno e di una sufficiente dottrina giuridica — mentre realmente era a corto dell’uno e dell’altra — egli tenesse un atteggiamento un po’ provocante e soverchiamente reticente e negativo sopra circostanze che, mentre risultavano provate in processo, scarso nocumento gli avrebbero recato se egli francamente le avesse ammesse.

Perchè, per esempio, negare assolutamente le sue relazioni con lo Sterbini e con Ciceruacchio, dal momento che egli doveva comprendere che agevolmente se ne sarebbe in atti raccolta la prova?

Certo che, in un processo come quello, tali relazioni costituivano già una presunzione criminosa a danno di un imputato; ma non dava pretesto al Fisco di peggiori illazioni il fatto di negare relazioni che erano provate?

Da altra parte se l’essere in relazione con lo Sterbini e con Ciceruacchio avesse potuto costituire un titolo di complicità nell’omicidio Rossi, l’Ufficio di Istruzione avrebbe dovuto porre sotto processo quaranta mila almeno degli abitanti di Roma a quel tempo.

Ma oltre alle ragioni del bizzarro temperamento, di presunzione e di puntiglioso bizantinismo indussero il Grandoni a tener quel contegno ragioni di ordine morale, che ampiamente attestano del suo sentimento d’onore.

Di qui le precauzioni e le cautele con cui egli procedeva nelle sue deposizioni: giacché, se desiderava di provare la propria innocenza nel fatto dell’omicidio Rossi, non avrebbe [p. 172 modifica]voluto mai e in qualsiasi modo pregiudicare uno solo dei coinquisiti in causa.

E di qui le molte evidenti sue reticenze e le negative che, spesso, lo misero in cattiva posizione di fronte al Processante.

Ludovico Buti nutriva manifesto rancore contro il Grandoni e Felice Neri addirittura — come si è visto già — un odio profondo e ambedue — senza che il Grandoni lo sapesse o lo sospettasse — lo avevano, fin dai loro primi esami, gravemente compromesso.

Con tutto ciò, invitato nei primi suoi costituti a designare quali fra gli ascritti al Battaglione Reduci fossero i caldi e i turbolenti egli non volle nominare alcuno e non denunciò quei due; e solo quando si venne alle contestazioni e quando gli fu partecipato esser quei due fra i suoi accusatori, allora soltanto il Grandoni espose i fatti onde aveva origine l’astio del Buti e l’odio del Neri: ma nulla disse a carico del Buti, nulla a carico del Neri, il quale era fra i dodici o quindici più indiavolati contro il Rossi e decisi ad ammazzarlo e presso i quali egli, per un quarto d’ora, era andato perorando e scongiurando per dissuaderli dal delitto, come affermarono parecchi testimonii, tra cui il Buti stesso, gli agenti Tibaldi e Cimatti, i cittadini Corbò e Pelagrossi e il coinquisito Alessandro Testa.

Se il Grandoni fosse stato meno tenero dal punto d’onore, avrebbe potuto, dicendo la verità, unicamente la verità, salvare se stesso rispondendo al Processante, che lo interrogava proprio su quel suo affannarsi in mezzo a quel gruppo di ossessionati: si, io mi affannavo, perchè aveva udito e capito ciò che coloro si apprestavano a fare, mi affannavo per impedire l’efferata tragedia. Ma, siccome l’Istruttore gli avrebbe chiesto subito i nomi di quelli presso cui egli aveva perorato e scongiurato e siccome egli quei nomi non voleva a nessun costo pronunciare, preoccupato più del proprio onore che della propria salvezza, così quella verità non volle dire e non disse.

E, probabilmente e verosimilmente, per una uguale ragione di punto d’onore, per non compromettere una donna [p. 173 modifica]ritata, quella Teresa di cui egli era l’amante, non volle dire ove egli passasse le sere del 13, del 14 e del 15 novembre.

Ma che il Grandoni fosse consapevole della trama per cui Pellegrino Rossi fu tolto di vita non resultò in alcun modo provato — come i lettori han potuto vedere — nelle resultanze processuali. Quindi, come i lettori sanno, lo stesso Procuratore Fiscale Generale non si lasciò prendere al laccio di certe apparenze e di certi indizi che stavano contro il Grandoni e sentì e affermò non essere la istruttoria a carico di lui compiuta e concluse doversi proseguire per la impinguazione degli atti.

L’essere stato il Grandoni, non ostante quelle conclusioni sospensive del rappresentante del Fisco pontificio, condannato a morte dal Supremo Tribunale non poteva mutare e non mutò quelle resultanze: esse rimasero ciò che erano prima di quella iniqua condanna; giuridicamente il Grandoni restò un imputato, un giudicabile di cui, se non era provata la innocenza, non era neppure stata dimostrata la reità.

Ma che egli in realtà fosse completamente ignaro degli accordi notturni presi dallo Sterbini coi sei o sette giovani riuniti all’Osteria del Fornaio a Pipetta, che egli, per conseguenza, fosse innocente può e deve asseverarlo la storia, oltre che per quelle fin qui enunciate anche per le seguenti prove e ragioni.

Respinte ed escluse, perchè immaginarie e false, le rivelazioni dello scellerato impunitario Bernasconi circa le pretese fantastiche riunioni delle sere del 13 e del 14 novembre al fienile di Angelo Brunetti, al Circolo popolare e al Teatro Capranica; annientata, sulla scorta delle testimonianza e dei documenti irrefragabili raccolti in processo, la falsa rivelazione di Felice Neri circa il preteso e fantastico ordine del giorno affisso nel quartiere dei Reduci a piazza San Claudio con cui il Grandoni avrebbe ingiunto ai Legionarii di Vicenza di recarsi in divisa in piazza della Cancelleria la mattina del 15 novembre, dappoichè risultò luminosamente provata non solo la inesistenza di quell’ordine dei giorno — che nessuno vide, che nessuno lesse[p. 174 modifica]ma la inesistenza altresì di un Battaglione Reduci, di un Tenente Colonnello Grandoni e di un quartiere in piazza San Claudio, fatti tutti tre avvenuti posteriormente al 16 novembre, come risultò dagli atti processuali e ora più luminosamente risulta dai documenti dal XY al XXI, che il colonnello Cleter, non seppe trovare ma che le mie pazienti e faticose ricerche hanno scovato dall’Archivio storico capitolino e che pubblico in fine di questo volume; ammessa la verità delle rivelazione fatte da Filippo Trentanove per bocca di Angelo Tittoni e confermate dalla deposizione di Tommaso Mucchielli circa la riunione della sera del 14 novembre all’Osteria del Fornaio; a carico del Grandoni non resta in atti che una risultanza, la quale costituisce la prova più lampante della sua innocenza, l’essersi, cioè, egli aggirato affannosamente fra quel gruppo di giovani un quarto d’ora prima del delitto in atto di parlare e di eccitare coloro a fare o a non far qualche cosa. E siccome è chiaro che egli, il quale non aveva partecipato alla trama ordita all’Osteria del Fornaio, non poteva avere alcuna ragione, nè alcun interesse a eccitare coloro — che, del resto, nel parossismo della loro ossessione, non avevano bisogno di essere eccitati — a commettere il misfatto, ma aveva invece sentito l’istintivo e onesto bisogno di dissuaderli dal delitto, è chiaro che egli, rimasto spaventato — come disse il Trentanove — si affannasse a tirar fuori quella gente dal palazzo come con la scusa di leggere una carta quasi fosse stato un ordine del Governo e pareva li avesse voluti portar via, come depose Alessandro Testa.

Nino Costa, del resto, da me che scrivo ripetutamente interpellato in proposito, Nino Costa che, in quel terribile momento era al fianco del Grandoni e che era anche egli ignaro della trama, mi ha ripetutamente assicurato sul suo onore che il Grandoni fece effettivamente di tutto per dissuadere coloro dai truci loro propositi, confermando quanto egli depose nel suo primo esame in processo e cioè che il Grandoni fu da alcuni di quei giovani minacciato se non smetteva di impicciarsi di cose che non lo riguardavano.

L’insigne pittore e patriota mi disse pure più di una [p. 175 modifica]volta: scrivi, scrívi pure che il Grandoni era innocente, non scriverai che la verità, perchè egli non sapeva nulla.

Lo stesso profondo convincimento ebbe l’onorando avvocato Pietro Gui, difensore del Grandoni il quale, nelle citate Memorie autobiografiche, lasciò scritto quanto segue:

«Essendo stata la sentenza capitale proferita non ad unanimità di voti, ebbe luogo un secondo esperimento dinanzi i due Turni riuniti del Tribunale Supremo: io feci sforzi supremi, specialmente pel Grandoni, che ritenni sempre nelle mie convinzioni non implicato nella ferale congiura contro il Rossi, comunque le apparenze lo accusassero: le mie perorazioni (benchè lodate dagli stessi Giudici) non giunsero a salvare quei due miei poveri clienti: la sentenza capitale fu confermata: il Costantini andò a perdere la testa sul patibolo: al Grandoni il Papa era disposto a far grazia della vita presso una lunga e ragionata memoria che io gli diressi; ma in quest’intervallo il Grandoni, temendo di finir la vita per mano del carnefice, preferì togliersela colle proprie, e si appiccò da sè nelle carceri di S. Michele» 17.

Ma un altro testimonio non meno autorevole ed onorando, ripetutamente mi affermò, eccitandomi ad affermarla, allorchè avrei dato compimento a quest’opera Pellegrino Rossi e la Rivoluzione romana, la innocenza di Luigi Grandoni.

Il carissimo e davvero mai abbastanza compianto mio amico e fratello d’armi Principe Emanuele Ruspoli, Ingegnere, Capitano d’artiglieria, Deputato al Parlamento, Senatore del Regno, morto mentre sedeva in Campidoglio Sindaco di Roma, uomo in cui le doti dell’ingegno e della cultura erano accoppiate a quelle di un animo veramente liberale, franco e leale, mi ha più volte raccontato che, nel 1849, dopo entrate in Roma le milizie francesi, egli che aveva allora dodici anni — essendo nato in Roma il 30 gennaio 1837 — vedeva in casa del proprio padre Bartolomeo dei principi Ruspoli, Luigi Grandoni, il quale le[gato da] n 1 [p. 176 modifica]antica amicizia con lui, ne frequentava le serali intime conversazioni. Emanuele Ruspoli ricordava che a quelle conversazioni accedeva anche il Giudice avvocato Bosi e ricordava benissimo che, negli ultimi mesi del 1849, quando si erano con impeto iniziati processi politici dal restaurato Governo Pontificio, tanto il proprio padre Bartolomeo quanto l’avvoccato Bosi consigliavano e stimolavano il Grandoni ad emigrare e affermava che questi, altamente protestando della propria innocenza, non volle mai piegarsi a quei consigli, sicuro — come egli diceva — che, essendo esso stato eletto Tenente Colonnello del Battaglione Reduci dopo la uccisione del Rossi, non poteva essere nè chiamato nè dimostrato responsabile della parte qualsiasi che alcuni Legionari potevano avere individualmente presa al misfatto compiutosi al palazzo della Cancelleria, misfatto della cui organizzazione egli era ignaro e che, anzi, con suo rischio e pericolo, aveva fatto del tutto per impedire, quando potè avvedersi che stava per compiersi.

Il qual fatto risulta anche dagli appunti della difesa del Grandoni lasciata dall’avvocato Pietro Gui sul finire dei quali è scritto: si rammenti che se Grandoni era correo avrebbe emigrato con gli altn; aveva tempo di farlo e denari; ebbe sollecitazioni da Bosi: non volle muoversi.

E Emanuele Ruspoli aggiungeva che suo padre Bartolomeo fu sempre convintissimo della innocenza del Grandoni, il quale — lo ripeto — dal venerato padre mio e da Giovanni Battista Speck, che erano stati, come ho accennato, suoi subordinati e avevano avuto per due anni dimestichezza con lui, fu sempre ritenuto incapace di aver partecipato a quella brutta trama.

In conseguenza di tutte le cose premesse può, quindi, tranquillamente affermarsi che dalle resultanze processuali e dalle testimonianze stragiudiziali la innocenza di Luigi Grandoni risulta provata.

Resta ora a vedere quali, dagli atti del processo, fra i tanti individui denunciati dallo Squaglia e dall’impunitario Bernasconi partecipassero effettivamente, consapevoli o inconsapevoli, alla tragedia del palazzo della Cancelleria.

[p. 177 modifica]Fra i pienamente consapevoli che vi presero parte, o in divisa di Legionari, o in divisa della Guardia Civica, o vestiti in borghese vanno notati — oltre i sei correi Luigi Brunetti, Felice Neri, Sante Costantini, Angelo Bezzi, Filippo Trentanove e Antonio Ranucci detto Pescetto — Alessandro Todini, Girolamo Conti detto Girolometto, Filippo Medori, Alessandro Testa, Raffaele e Filippo fratelli Pennacchio, Francesco Costantini, Mattia Calcina, Cesare Diadei Ludovico Buti; e, in parte soltanto informati, Gioacchino Selvaggi, Ferdinando Civilotti, Antonio Maiorini, Giovanni Galeotti detto Scapiglione e Giuseppe Caravacci.

Nell’atrio della Cancelleria assai probabilmente, quasi sicuramente erano, e forse più o meno consapevoli di ciò che stava per avvenire, Ruggero Colonnello, Lorenzo Capperuci, Paolo Papucci, Ampelio Mazzanti detto il sergente Verdone, Innocenzo Zeppacori, Bernardino e Filippo fratelli Facciotti, Luigi Fabri e Paolo Nomai.

Vi erano sicuramente, ma non si potrebbe asserire se e fino a qual punto informati di ciò che stava per avvenire o che poteva avvenire i dottori in chirurgia Luigi Zavaglia, Luigi Bis, Giovanni Ceccarini, Cesare Pestrini, e Ferdinando Buti. O nell’atrio del palazzo o sulla piazza della Cancelleria si trovavano sicuramente, ma quasi certamente non consapevoli della trama ordita contro la vita del Ministro Rossi, Tito Lopez, Giovanni Angelini, Mariano Volpato, Luigi Corsi, Filippo Scalzi e Luigi Escalar; e indubbiamente vi erano, ma indubbiamente ignari della congiura Nino Costa, Giacinto Bruzzesi, Angelo Berni, Giuseppe Scudellari, Pietro De Angelis, Angelo Tittoni, Antonio Fabi, Angelo Orioli.

Forse vi erano, e forse più o meno informati di qualche cosa, Giuseppe Fabiani detto il Carbonaretto, Odoardo e Luigi fratelli Berretta, Giuseppe Giovannelli, Giulio Pinci, Alessandro Altobelli, Giovanni Desideri, Giovanni, Vincenzo e Francesco fratelli Testini, Alfonso Liverani, Antonio Foresti, Nicola Ferrari e Antonio Grimaldi detto Fetone.

Così si hanno, come resultanza degli atti processuali e con la quasi certezza di aver noverati coloro che furono [p. 178 modifica]effettivamente presenti al fatto, sessantadue individui, alcuni pienamente informati, altri assolutamente non informati, altri soltanto in minima parte informati della congiura; dei quali sessantadue quaranta erano Reduci della campagna di guerra del Veneto, sebbene non tutti indossassero sulla piazza della Cancelleria la divisa di Legionari in quel giorno 15 novembre 1848. Fra questi sessantadue a tutti quelli che nulla sapevano di ciò che si era tramato e anche a quelli che qualche cosa della trama avevano appreso nell’atrio della Cancelleria pochi minuti prima del misfatto non può essere attribuita responsabilità nell’eccidio perchè il loro involontario concorso alla uccisione del Rossi non fu la circostanza che la rese necessaria.

Essi erano tutti — per le ragioni più volte addotte e date le condizioni di quell’ambiente storico — erano tutti logicamente avversi al Ministro Rossi e dalle premesse erano spinti a manifestargli con urli e fischi la loro disapprovazione; e di ciò che avvenne non ebbero neppure intenzionalmente coscienza.

I responsabili della morte di Pellegrino Rossi furono anzi tutto i mandanti Pietro Sterbini, Luciano Bonaparte di Canino, Pietro Guerrini, Angelo Brunetti e il Salvati e il Bezzi ed altri se ve ne furono e, dopo di essi, i mandatari ed esecutori.

Ma fra tutti costoro la maggiore e la più grave responsabilità ricade sul capo di Pietro Sterbini sia per la posizione che esso moralmente e politicamente occupava in quel momento, sia perchè risulta che della trama fu il principale ispiratore e organizzatore, sia perchè egli per la preponderanza dell’ingegno suo su tutti gli altri era quel desso che più e meglio degli altri avrebbe dovuto intendere e valutare le ragioni addotte dallo Spini a dissuadere dal delitto, sia perchè in lui considerazioni di interesse personale — anche a sua insaputa — potevano essersi insinuate a persuaderlo a disfarsi di Pellegrino Rossi18.

[p. 179 modifica] Di poco minore a quella dello Sterbini risulta la responsabilità del Principe Carlo Luciano Bonaparte di Canino, la cui alta intelligenza, la cui estesa cultura, per quanto offuscate dalle passioni e dalla personale ambizione, avrebbero dovuto far vedere al Canino le funeste conseguenze di quell’eccidio, alla cui decisione risulterebbe aver egli concorso in massima, ove anche personalmente non vi avesse concorso negli ultimi accordi.

Alquanto minore, ma pure grave è la parte di responsabilità che nell’omicidio di Pellegrino Rossi risulta a carico di Pietro Guerrini, nel cui animo ardente di settario [p. 180 modifica]convinto non pare influissero aspirazioni di interesse personale: egli credette opera patriottica e utile alla causa della libertà quell’omicidio del quale l’ingegno di lui avrebbe dovuto vedere i danni, che esso non vide perchè ottenebrato dal politico fanatismo.

Il meno responsabile, quantunque efficacissimo, anzi il più efficace dei cooperatori nella congiura, fu Ciceruacchio, il cui limitato intelletto, la cui ignoranza non consentivano a lui di prevedere le conseguenze dannose che quell’omicidio avrebbe apportato a quella stessa causa, al cui trionfo egli aveva consacrato tutto il disinteressato entusiasmo dell’animo suo generoso.

In lui, di fatti, nessuna personale considerazione, di nessuna specie, potè influire e influì a determinarlo, al fatto: unico movente in lui fu il patriottismo — malinteso, anche, se si vuole — ma il patriottismo. Egli non uomo di studii, non uomo politico, ma uomo di impulsi e di azione, in completa buona fede, in quell’ambiente, saturo di patriottica elettricità, nelle ansie febbrili di quei giorni affannosi, tutto acceso dell’amore d’Italia e di libertà, non poteva non considerare come nemico dell’una e dell’altra il Conte Pellegrino Rossi e non poteva non considerarne legittima, anzi doverosa la soppressione; tanto più che in quei suoi sentimenti e convincimenti lo raffermavano la voce del giornalismo, le declamazioni dei circoli, l’autorevoli parole del Guerrini e quelle autorevolissime dello Sterbini: onde la sua cooperazione dell’eccidio, obiettivamente considerata nel tempo e nello spazio, mentre non si può giustificare, ampiamente però si spiega.

E queste ragioni determinanti, che attenuano e spiegano la partecipazione di Ciceruacchio all’eccidio del palazzo della Cancelleria, storicamente valgono ad attenuare ed a spiegare la colpevolezza dei sei o sette mandatari, quantunque non valgano in alcun modo a giustificarla.

Ricostruiti così gli avvenimenti che precedettero, accompagnarono e seguirono il misfatto del palazzo della Cancelleria del 15 novembre 1848 sul fondamento delle risultanze del processo e in base agli altri documenti da me raccolti [p. 181 modifica]e stabilito, in omaggio alla verità storica, a chi spetti la responsabilità di quel delitto e, dimostrato come esso fosse il prodotto di una segreta trama ordita e mandata ad effetto da un ristrettissimo manipolo di settarii, diretti e guidati da quattro o cinque Carbonari, io nutro la profonda convinzione che sia ugualmente dimostrata da oggi in poi una verità ed è questa: che nella uccisione di Pellegrino Rossi nessuna partecipazione ebbero nè il Mamiani, nè il Galletti, nè il Campello, nè lo Spini, nè l’Armellini, nè il Torre, nè lo Sturbinetti, nè il Montecchi, nè alcun altro degli uomini autorevoli del grande partito liberale romano, onde, da ora innanzi, la storia imparziale non potrà più ascrivere a colpa di tutto quel partito, composto allora in maggioranza dalla parte migliore delle popolazioni dello stato pontificio, un fatto che fu opera tenebrosa di una piccola frazione estrema del partito stesso.

Dei mandanti e dei mandatarii varie furono le vicende e diverse la fine. L’infelice Ciceruacchio e Luigi suo figlio furono fucilati, anzi assassinati, insieme al tredicenne e assolutamente innocente Lorenzo, a Ca’ Tiepolo, nel Polesine, 11 10 agosto 1849, per ordine dell’infame croato Tenente Buckovina.

Felice Neri, come i lettori sanno, morì, durante il processo, divorato dalla tisi galoppante alla infermeria delle Carceri di San Michele in Roma e Sante Costantini lasciò, come i lettori hanno veduto, intrepidamente la testa sul patibolo il 22 luglio 1854. Angelo Bezzi morì a Londra, ove si era rifugiato, assai prima della liberazione di Roma e Filippo Trentanove, che non venne più da Londra a Roma, è morto recentemente in tarda età.

Ruggero Colonnello, Innocenzo Zeppacori, Bernardino Facciotti, il Capanna, Francesco Costantini che si trovavano chi nella rocca di Narni, chi in quella di Spoleto a scontare le varie e gravissime pene a cui erano stati condannati, rimasero liberati nel 1860 per la irruzione dell’esercito italiano nell’Umbria. Il Colonnello pare che riparasse in Piemonte e nel 1870 era in carcere a Torino per reati comuni e scriveva al chiaro avvocato Ernesto Pasquali, che [p. 182 modifica]fu per parecchie legislature Deputato al Parlamento, la spropositata lettera che riferisco fra i documenti.19

Il Zeppacori riparò da prima a Gualdo Tadino, poi a Fossato di Vico, e riprese moglie e mise su un piccolo caffè presso quella stazione ferroviaria, ove visse quasi nascosto e ove morì anche egli, or sono tre o quattro anni, nella tarda età di quasi ottanta anni20.

[p. 183 modifica]Bernardino e Filippo Facciotti, che io, come dissi, conobbi in esilio, a Firenze; tornarono in Roma ove furono nominati Soprastanti dei lavori stradali dell’Ufficio Tecnico Municipale e ove morirono l’uno e l’altro dopo il 1870.

Francesco Costantini, tornato a Fuligno vi fu nominato Messo Comunale e mori tragicamente l’anno successivo 1861, colpito a morte e colpendo a morte il suo feritore.

Antonio Ranucci detto Pescetto, vetturino, dopo essere stato, come i lettori hanno veduto dalle risultanze processuali, dal dicembre 1848 al marzo 1849, Soprastante poco delicato e poco onesto ai lavori di Tor di Quinto, per essersi avventurato, da quell’audace e scaltro uomo che egli era, ad attraversare le linee dell’esercito francese per recare un dispaccio importante a Civitavecchia, fu nominato Ufficiale di pubblica sicurezza e tenne il posto sino alla caduta della repubblica.

Poi — come i lettori ricorderanno — era rimasto in Roma e vi si era indugiato, spacciandosi per Giovanni Desideri, sino ai primi giorni di luglio, evidentemente in attesa di potere ottenere un passaporto per la Francia.

Nel frattempo egli si recò a Genazzano nella provincia di Roma in casa del macellaio Filippo Mogliè, la cui sposa era sorella della moglie di esso Ranucci. Colà costui prese parte a qualche partita di caccia e si trattenne alcuni giorni, poi d’un tratto sparì e si seppe dopo che, per la montagna, si avviò a Spoleto, ove pare che avesse un altro parente e, [p. 184 modifica]da allora, più non fu possibile alla polizia pontificia, che lo ricercava, di rinvenirlo21.

Il Ranucci, in fatti, che durante la repubblica, mentre era ufficiale di pubblica sicurezza, era entrato in relazione col Principe di Canino, potè riparare a Parigi, ove il Bonaparte si era rifugiato presso il cugino, prima Presidente della repubblica francese, poi Imperatore Napoleone III, da cui egli ebbe benevolenza e protezione fino a che al nuovo Monarca francese, non fu comunicato dal Governo pontificio il processo contro gli uccisori di Pellegrino Rossi.

E, siccome il Ranucci giunse a Parigi nel 1851, così per la intromissione di Carlo Luciano Bonaparte fu ricevuto fra i propri confidenti dalla Polizia francese, con lo speciale incarico di insinuarsi nei luoghi frequentati dagli esuli italiani per sorvegliare costoro, sempre, nella loro maggioranza avversi a Napoleone III e minaccianti attentati alla vita di lui.

Pare che in quell’ufficio egli si diportasse con abilità e con tatto, tutto intento alla tutela della vita dell’Imperatore, cosicchè vi durò dal 1851 al 1859, anno in cui per gli avvenimenti politici, svanito il pericolo di congiure italiane contro la esistenza di Napoleone III, il Ranucci che, nel frattempo, era rimasto vedovo e aveva sposata una donna di teatro, fu dall’Imperatore dispensato dal servizio e remunerato con una rilevante largizione di danaro, con la quale formò una compagnia comica e come proprietario di questa tornò in Italia, facendo il giro di varie città. Pare però che mai più venisse in Roma e, per quante ricerche io abbia fatte, non mi è riuscito di sapere dove e quando morisse.

Colomba Mazzoni Debianchi che, evidentemente ebbe diminuita la pena a cui era stata condannata come omicida, [p. 185 modifica]giacche nel 1870, sempre bella donna e, con tutti i suoi cinquantadue anni che aveva, sempre dimostrante dieci o dodici anni di meno, si andava stropicciando ad alcuni dei reduci del ventenne esilio e ci fu un momento, nel 1873, che stava per ottenere protezione dall’onorando patriota e Deputato Conte Luigi Pianciani, allora Sindaco di Roma, quando il dottor Pietro Guerrini, che era capo del gabinetto di lui in Campidoglio, potè mettere sull’avviso il Pianciani che ributtò subito con sdegno la delatrice. La quale, rientrata ben presto nell’ombra dei bassi fondi sociali in cui aveva sempre vissuto, ha tirato innanzi la sua esistenza, vecchia, curva, raggomitolata, ma sempre vispa, sfrontata e piena di energia, portando sempre la pettinatura usata nella sua giovinezza coi capelli disposti a ciambellette sulle due tempie sino all’ ll Agosto del decorso anno 1908, morendo qui in Roma, in età di novantanni compiuti.

Ma per quante ricerche abbia io fatte, fin qui non mi è riuscito di poter rinvenire con sicurezza le traccie del più turpe e lurido personaggio di questo dramma, dell’infame impunitario e lenone Filippo Bernasconi.

E le ragioni delle difficoltà ad avere notizie di costui si presenteranno naturali a prima vista all’occhio dei lettori.

Le principali vittime delle sue denuncie e delle sue calunnie giacevano in fondo agli ergastoli dello Stato a Civitavecchia, a Narni, a Spoleto ed erano, quindi, nella impossibilità di seguire i passi del loro carnefice. Nè più, nè meglio potevano tener dietro alle orme di lui, le centinaia e centinaia di patriotti sparpagliati sulle vie dell’esilio; tanto più che, quando, sul finire del 1854, lo scellerato ebbe ricuperato la libertà, egli ebbe tutta la cura, come certo aveva tutto l’interesse, di occultarsi nell’ombra il più che gli fosse possibile.

Due versioni ho avuto sulla sua fine. L’amico mio Cesare Capanna, figlio di quel Filippo Capanna che i lettori hanno veduto dalle accuse del Bernasconi coimplicato in questo processo, da cui scampò a miracolo, Cesare Capanna, compromesso e processato politico egli pure per la tentata [p. 186 modifica]insurrezione di Roma nel 1867, il quale era Ispettore alla polizia urbana in Campidoglio e che disgraziatamente è morto in età ancor fresca, un anno e mezzo fa, assicurava che il Bernasconi era morto o nel 1855 o nel 1856 di polmonite qui in Roma e Sante Ciani antico e ben noto patriota, vecchio carbonaro, morto il decorso anno 1909 qui in Roma nella bella età di novantaquattro anni, confermava questa versione: ma di tale morte, nelle ricerche, fin qui, fatte nei libri mortuari di varie parrocchie di Roma, non mi è per anco, riuscito di trovar la prova.

L’altra versione datami dal carissimo e rimpianto amico Augusto Lorenzini sarebbe questa.

Il Bernasconi, appena uscito dal carcere, si sarebbe appiattato in un paesello dell’Umbria o delle Marche, cambiando nome, per lasciare trascorrere il tempo necessario a farsi dimenticare.

Ma, dopo un paio d’anni, fra il 1856 e il 1857 sarebbe tornato a Roma, vivendo appartato e ritirato, sempre in buona armonia con la polizia pontificia, che, secondo questa versione, avrebbe anche invigilato sulla vita di lui. Ma, ciò nondimeno, sul far dell’avemaria di un giorno dell’anno 1858, mentre il Bernasconi si affrettava a rincasare, traversando lo stretto vicolo della Palombella, indirizzato da piazza della Minerva a piazza Sant’Eustachio, si sarebbe abbattuto in un uomo che proveniva da Sant’Eustachio a passo frettoloso e il quale gli avrebbe dato un pugno, vai quanto dire una coltellata, nell’inguine. Nonostante la gravità della ferita, il Bernasconi si sarebbe sottratto alla morte.

Ma, appena guarito, sarebbe scomparso e più non si sarebbe avuta alcuna notizia di lui.

Del resto date queste poche notizie sulla fine dei principali personaggi apparsi nel processo che ha formato argomento del mio lavoro, io pongo fine a questo richiamando l’attenzione dei lettori sul riassunto che io già feci nei Capitoli V e VI del I volume di quest’opera a proposito delle considerazioni, delle ipotesi, delle congetture e degli apprezzamenti fatti da parecchie dozzine di scrittori, [p. 187 modifica]specialmente italiani, intorno alla tragedia del 15 novembre del 1848.

Le premesse storiche che avevano generato, con logica e rapida successione, quella situazione violenta, ponendo di fronte, in lotta ormai irreconciliabile, il Pontefice Pio IX e il patriottismo italiano, fatalmente condussero a quella soluzione violenta in cui perde la vita l’uomo di Stato, che si era improvvidamente cacciato in quel cozzo. Ma se può dirsi, come parecchi storici han detto, che, col sangue versato da un solo, si evitò una collisione che avrebbe fatto versare il sangue di molti; ma se si può ritenere che la morte di Pellegrino Rossi impedì forse un inizio di guerra civile, non si può e non si deve negare che quella uccisione lu apportatrice di danno gravissimo alla storia della rivoluzione romana, sulle cui fulgide pagine quell’eccidio proiettò un’ombra che non potè mai essere completamente dissipata. Oh niun danno sarebbe stato per quella storia la effusione del sangue civile per le vie di Roma!... Ma poichè la storia non si svolge nè coi postumi desiderii, nè con le postere ipotesi del lettore, ma deriva logicamente dalle sue necessarie premesse, occorre rassegnarsi ad accettarla e a sul)irla quale essa fu, cercando di spiegarsela, obiettivamente esaminando le cause che la produssero nel tempo e nello spazio in cui i fatti avvennero.

Ma, con ciò, non si ha in nessun modo ad intendere nè che si possano e molto meno, che si debbano giustificare quei fatti, per quanto spiegabili, i quali urtano con la legge morale, eterna reggitrice — si voglia o non si voglia, piaccia o non piaccia — degli umani consorzi e dei sociali ordinamenti.

Una siffatta interpretazione ed applicazione della legge logica che governa la storia trarrebbe lo scrittore ad un cieco determinismo, da cui sarebbe annullato il libero arbitrio dell’umana volontà e il concetto di qualsiasi responsabilità individuale nella vita.

Ciò premesso, io posso e debbo spiegarmi come e perchè Baldassarre Gérard abbia potuto uccidere Guglielmo di Orango e Francesco Ravaillac ammazzare Enrico IV, ma [p. 188 modifica]io sento — e chiunque non sia destituito di senso morale deve sentire — che non si possono e non si debbono giustificare quei due assassinii, quantunque ambedue quei delitti agli occhi e alla coscienza dei due fanatici che li commisero sembrassero eroiche azioni.

Quindi in nessuna guisa può e deve essere giustificato l’assassimo di Pellegrino Rossi: e debbono essere biasimate le bizantine sottigliezze con cui, nel giornale L’Epoca, Michele Mannucci — se pure fu lui — cercò a quei dì condannare ad un tempo e nobilitare la uccisione dell’infelice Ministro.

Io credo fermamente che mandanti e mandatari dell’eccidio del Rossi abbiano, specialmente gli esecutori, creduto in buona fede, nel momento del delitto, di compire una bella e patriottica azione; ma credo altresì che, ad assassinio consumato, tutti sentirono fiaccata nell’animo proprio la primitiva convinzione, come lo dimostra ad evidenza il fatto che tutti, ordinatori ed esecutori, cercarono di allontanare da loro ogni responsabilità del compiuto misfatto.

Marco Giunio Bruto, che stimò sempre opera grande la uccisione di Caio Giulio Cesare, sempre se ne gloriò fino al giorno della sua morte e Carlotta Corday, che uccise Giovan Paolo Marat, se ne vantò come di opera patriottica ed umanitaria, al giudice che la interrogava rispondendo sinceramente: ho ucciso un uomo per salvarne centomila, uno scellerato per assicurare la vita a tanti innocenti, una fiera per dar pace al mio paese; ma con tutto ciò nè la magnanimità di Giunio Bruto, nè la virtù di Carlotta Corday poterono, dinanzi alla legge morale, purificare i due assassinii da loro compiuti.





Note

  1. Vedi volume I cap. VI di quest’opera da pag. 295 a pag. 328.
  2. Il Padre Bresciani e il Conte d’Ideville, per esempio.
  3. A complemento dei giudizi intorno a Pellegrino Rossi e all’opera sua pronunciati da illustri, o valorosi, o notevoli suoi contemporanei e da me riferiti nei Capitolo VI del 1° volume di quest’opera pag. 205 e seguenti, riporto fra i documenti gli apprezzamenti in proposito di quel grande che fu Camillo Benso di Cavour. Vedi Documenti n. IX e X.
       E a dimostrare poi come e quanto — non importa ricercare se a torto o a ragione — l’ambiente fosse ostile a quei giorni a Pellegrino Rossi e a provare lo stato di farnetico a cui erano giunti gli esaltati, riferisco fra i documenti un’orrida poesia, vera degenarazione di ogni senso morale, vera aberrazione di ogni senso estetico e che pure fu stampata in foglietto volante, senza indicazione di tipografia e fu distribuita e venduta e che tolgo da un esemplare, non solo divenuto rarissimo, ma irreperibile, esistente in una preziosa Miscellanea presso di me. Vedi Documento n. XIX.
  4. A dimostrare l’animo feroce di questo esaltatissimo settario, riproduco fra i documenti, una lettera di tutto pugno di Angelo Bezzi da lui indirizzata, in tempo di repubblica e precisamente in data 17 marzo 1849 o al Ministro dell’Interno, o a quello della Guerra; lettera esistente all’Archivio di Stato di Roma nella Miscellanea politica del 1846-49, Busta 83, Copertina 177. Vedi Documento n. XII.
  5. Archivio del Risorgimento alla Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, Carte Pentini, 20, 65.
  6. Nel linguaggio simbolico dei Carbonari dicevasi annerimento la uccisione del traditore.
  7. Che tutti questi Deputati si sarebbero indubbiamente schierati subito contro il Ministero Rossi si deduce da un fatto importantissimo, di cui non ha tenuto conto nessuno degli storici del risorgimento italiano da me veduti, il fatto cioè, che tutti questi Deputati, rieletti due mesi e mezzo dopo rappresentanti alla Costituente, votarono tutti per la decadenza del potere temporale dei Papi e per la proclamazione della repubblica.
       Che il Mamiani e il Galletti avrebbero subito capitanato la opposizione nel Consiglio dei Deputati si desume irrefiutabilmente dal loro immediato successivo atteggiamento e da quello dei giornali Epoca e Don Pirlone ispirati dal Mamiani, che collaborava anche nell’uno e nell’altro, e da quello del Contemporaneo e della Pallade sostenitori e laudatori strenui del Galletti.
  8. Alessandro Todini, mosaicista, figlio di Luigi e nipote del Dottor Todini, archiatro del Pontefice Leone XII, era nato a Scarpa — oggi Cineto Romano — in provincia di Roma, nel 1810 e aveva, nel 1827, o nel 1828, diecissette o dieciotto anni, ed era giovine robustissimo, energico, risoluto, fino da allora liberale esaltato e, nel 1828 uccise con una selciata un gendarme pontificio. Fu processato ma, vista la sua giovanissima età e stante la protezione dello zio, potentissimo allora nella corte papale, fu condannato a tenue pena.
       Par certo che nel 1830 fosse ascritto alla Carboneria: nel 1831 fu arrestato per la tentata sommossa del 12 febbraio a piazza Colonna, ma, dopo qualche mese di carcere, fu prosciolto per non sufficientemente provata reità.

       Nel frattempo prese moglie e nel 1848-49, avendo egli trentotto anni e sempre conservandosi fortissimo e battagliero, tanto che era soprannominato da molti il Terribile, fu fra i più caldi liberali e combattè — benchè non si sia potuto accertare in quale milizia — in difesa delle mura di Roma, avendo a fianco il sedicenne figlio Achille, che rimase ucciso.

       Dopo caduta la repubblica, riparò prima in Inghilterra e poi in America, ove militò nell’esercito di una delle repubbliche meridionali, in cui si sarebbe segnalato per valore e avrebbe, dopo qualche anno, conseguito grado di Capitano.

       Dopo il 1860 egli tornò in Italia con un gruzzolo di trenta o quaranta mila lire e, per avvicinarsi alla desideratissima Roma, si andò a stabilire in Sabina, ove, tratto in inganno da un truffatore, impiegò in fallaci speculazioni e perdè il suo piccolo capitale.

       Dopo la liberazione di Roma si ritirò a Cineto, ove morì, povero e dimenticato, nel 1880, come risulta dalla fede di decesso da me veduta.

       Debbo la maggior parte di queste notizie alla cortesia dell’egregio Dott. Cav. Carlo Todini, nipote di Alessandro, medico esercente e stimatissimo in Roma e Sindaco di Cineto Romano, a cui rendo qui pubbliche grazie.

  9. F. F. Perrens, Deux ans de révolution en Italie, II, pag. 38.
  10. Opera della quale, se Dio mi dà vita, confido di pubblicare entro il prossimo anno 1012 il secondo volume, in gran parte già scritto.
  11. Miscellanea di documenti riguardanti i rivolgimenti romani, Copertina 336. 15 novembre 1848.
  12. Anche la forma di questo racconto è insulsa Giggi mi dice: andiamo? Ma dove dovevano andare se una linea innanzi aveva detto che il Brunetti era nel portico, appoggiato ad una colonna, attorniato ecc., ma dove mai dovevano andare?. . .
  13. Era Filippo Medori, come risulta dalla rivelazione di Sante Costantini.
  14. Quel tale signor Del Cerro nell’articolo zibaldone di cui ho parlato si affanna a dimostrare che Sante Costantini era innocente: d’accordo se si tratta della esecuzione materiale del delitto — e non occorreva neppure uno sforzo straordinario di ingegno, a comprenderlo dal momento che tante prove emergevano dagli atti a indicare quale uccisore Luigi Brunetti — ma quando il Del Cerro si sforza di scolpare il Costantini quasi da ogni responsabilità nella uccisione del Rossi, allora egli dimostra tutte le leggerezze del suo criterio storico e giuridico, tutta la insufficienza dalle sue cognizioni in argomento, tutta la superficialità della sua trattazione.
  15. Io ho raccolte molteplici testimonianze di onorandi patriotti, che conobbero di persona il Grandoni, per avere notizie della sua indole e del suo carattere.
       Il Colonnello Cavalier Angelo Berni, il Tenente Cavalier Giuseppe Benai, il Cavaliere Giulio Buti, il Colonnello Commendatore Angelo Tittoni, il Colonnello Conte Luigi Pianciani, il Maggiore Dottor Mattia Montecchi, il pittore Giovanni Costa, già ricordato, l’avvocato Francesco Giovagnoli adorato padre mio e il possidente e commerciante Giovanni Battista Speck — questi due ultimi Militi Civici nella Compagnia del III Battaglione in cui Luigi Grandoni era tenente — i quali tutti, purtroppo! non vivono più — tutti nove concordavano nel riconoscere il patriottismo e la probità del Grandoni, ma tutti nove, dal più al meno, concordavano altresì nel giudicarlo uomo di corta levatura di ingegno, dotato di grande presunzione e tutti, un po’ più, un po’ meno, ammettevano i difetti e le bizzarie del suo carattere.
       Tre di quegli uomini onorandi, il Berni, il Tittoni e il Costa lodavano la fermezza e il coraggio del Grandoni; e tutti, ritenendolo tenero dal punto d’onore, escludevano assolutamente la possibilità che egli fosse informato della trama ordita contro la vita di Pellegrino Rossi, concordi nel reputarlo incapace dell’attribuitogli misfatto.
       E circa il carattere del Grandoni, nella difesa di lui, l’avvocato Pietro Gui disse e lasciò scritto: Si rammenti che le stesse stravaganze fatte da quest1 uomo, dal primo giorno che è entrato in carcere, sono una prova della sua buona coscienza.

       Anche i due onorandi patriotti romani deceduti, nel decorso anno il Colonnello Commendatore Adriano Gazzani e il Capitano Ingegnere Demetrio Diamilla Müller, da me interpellati in proposito, quantunque non soverchiamente benevoli al Grandoni, escludono nelle due risposte che pubblico fra i documenti che questi partecipasse alla trama contro la vita di Pellegrino Rossi.

       Vedi Documenti n. XIII e XIV.

  16. Buste della Guardia Civica nell’Archivio Capitolino, Busta 84.
  17. Avvocato Pietro Gui, Memorie della mia vita, manoscritto quaderno 8°.
  18. Un sentimento di delicatezza e i rimasugli dell’antica ammirazione che io aveva per lungo tempo provata per Pietro Sterbini poeta, patriota e polemista, mi spinsero, dinanzi alle resultanze processuali le quali venivano a confermare e ad aggravare la responsabilità del Direttore del Contemporaneo nella uccisione di Pellegrino Rossi già per cinquantanni incombente su di lui nell’opinione pubblica, mi spinsero dico ad interrogare l’onorando Deputato Giuseppe Lazzaro, che, insieme col cav. Deodato Lioy e col dott. Pietro Sterbini aveva fondato a Napoli il giornale Roma nel 1861. Tanto al Lazzaro, quanto al Lioy chiesi se, nei due anni circa di vita trascorsi a quasi quotidiano contatto con lo Sterbini, mai si fosse fra loro tenuto proposito dell’omicidio Rossi. Il Lazzaro più volte mi disse a voce e poi mi scrisse, e conservo la lettera, che mai ebbe occasione di parlare con lo Sterbini delle faccende di Roma. Il Lioy mi inviò una informazione dattilografata di cui gli rendo grazie e che io pubblico fra i documenti. E siccome io aveva inteso talvolta accennare ad una autodifesa dello Sterbini circa alle imputazioni fattegli per l’omicidio Rossi, e avevo chiesto al Lioy se egli ne avesse contezza, così il Lioy chiuse — come i lettori vedranno — la sua informazione con queste parole: Parlando dell’assassinio di Pellegrino Rossi, egli — lo Sterbini — lo attribuiva al partito clericale e non accennò ad un auto-difesa. Ma non pago di ciò io mi rivolsi al carissimo e rimpianto amico mio Federigo Napoli, uomo in cui le doti del vigoroso e poetico ingegno erano circonfuse dall’aureola di bontà, di nobiltà, di gentilezza che si effuse per tutta la vita dall’anima sua cavalleresca e che fu carissimo a Pietro Cossa, a Benedetto Cairoli e a Giuseppe Zanardelli, dappoichè egli era oriundo di Frosinone, chiedendogli le notizie che cercavo e pregandolo a parlarne ai discendenti dello Sterbini — se ve ne erano — affinchè, da lui informati delle resultanze processuali, mi fornissero, nell’interesse del loro aguato, quelle deduzioni o quei documenti che possedessero e credessero utili a difesa di lui. L’amato amico Napoli parlò di fatti col nipote diretto di Pietro Sterbini, figlio del di lui figlio, che allora, cioè nel 1907, si trovava a Frosinone, benchè abitualmente dimorante in Roma e il quale mostrò di interessarsi della cosa e rispose che sarebbe venuto egli stesso da me a parlarmi e ad informarmi. Ma, non avendolo mai veduto, dopo parecchi mesi scrissi nuovamente al caro Federigo, il quale mi rispose una bella lettera — che insieme a quella del Lazzaro e del Lioy conservo — in cui mi diceva che io già più di ciò che non fosse mio debito avevo fatto: adempissi al mio dovere di storico coscienzioso ed obiettivo e dicessi tutta la verità resultante dagli atti e, già, un po’ più, un po’ meno, nota nel circondario di Frosinone, severo nei suoi apprezzamenti sullo Sterbini.
  19. Vedi Documento N. XXII.
  20. Di questa losca ligura di delatore così parla il chiaro Raffaele De Cesare:
       «A Fossato di Vico conobbi, alcuni anni or sono, un superstite dei condannati a pene minori. Si chiamava Innocenzo Zeppacori e da giovane aveva fatto il pescivendolo. Era un vecchio dallo sguardo sinistro, butterato dal vaiuolo, e portava costantemente una cravatta di lana rossa. Aveva coperte le sudicie pareti di un piccolo caffè, che esercitava presso quella stazione, di brutte oleografie, rappresentanti i più celebri delinquenti politici. Lo Zeppacore, da me interrogato, asseriva di essere innocente, aggiungendo che il giorno dell’assassinio era andato con alcuni compagni, per divertirsi, a Frascati, e che solo tornando la sera a Roma, avevano appresa la morte del Rossi. Nessuna confidenza mi riuscì ottenerne, non è però inverosimile, che l’alibi fosse soltanto fantastico, e che egli avesse invece rivelata la congiura, con promessa di impunità, che non gli fu mantenuta.
       «Zeppacori riproduceva il tipo di quei vecchi e tristi settari, romaneschi o romagnoli, non loquaci che nella bestemmia contro la divinità, nell’odio ai preti e nella irriverenza alla religione; falsi nei loro rapporti sociali; pieni di unzione, anzi adulatori e servili nel bisogno, e sempre pronti a far la festa ad un uomo per comando di setta, o per compiacere agli amici. Per essi la libertà non era rappresentata che dall’odio per ogni governo costituito e dall’esercizio del più sboccato turpiloquio; non avevano paura che della forza soldatesca, sicuri, alla inen peggio, che i compagni non avrebbero parlato. Lo Zeppacori è morto da pochi anni».
       Raffaele De Cesare, Roma e lo Stato del Papa dal ritorno di Pio IX al XX Settembre, Roma, Forzani 1907, vol. I cap. 4° pag. 67-68.
       Ma intorno a Innocenzo Zeppacori io so un altro fatto che merita esser comunicato ai lettori.
       A Gualdo Tadino e poi a Fossato di Vico, egli che, come i lettori sanno, era ignorante, illetterato e volgarmente spavaldo, nei suoi plebei sproloquii intorno ai fatti per cui era stato condannato, a venti anni di galera, a coloro che lo interrogavano lasciava fraintendere, così fra il lusco e il brusco, di avere avuta una parte importante nella trama contro Pellegrino Rossi e, in sostanza, a traverso a tronche frasi e a studiate reticenze, cercava di far credere essere proprio lui stato l’uccisore. Il compianto e valoroso patriota romano Senatore Augusto Lorenzini, che fu per varie legislature Deputato di Spoleto e che, girando per l’Umbria, aveva conosciuto il Zeppacori, quando il Barone Giovanni Nicotera era Ministro dell’Interno per la seconda volta, nel 1891-92. gli chiese, sopra istanza del Zeppacori, un sussidio pecuniario a favore di questo.
       Allorchè il Nicotera, il quale asserì a me tante volte e asseriva a tutti di essersi trovato il 15 novembre 1848, quando egli, esule dieciottenne per la recentissima insurrezione calabrese, era rifugiato in Roma, al palazzo della Cancelleria e di aver visto benissimo la figura dell’uccisore, seppe dal Lorenzini che il Zeppacori era reputato appunto il feritore del Rossi, volle vedere costui e ordinò che venisse a Roma. Ma il pescivendolo, che, dopo la breccia di Porta Pia, non aveva più osato venire in patria, temendo le vendette delle molte vittime delle sue delazioni, non volle venire se non accompagnato da due Guardie di pubblica sicurezza, vestite in borghese.

       E così, di fatti, venne a Roma, ove fu dall’onorevole Lorenzini presentato a palazzo Braschi al Ministro Nicotera che, appena vide quel coso lungo, magro, butterato dal vaiuolo, esclamò subito: Ma che! non è lui!

       E, fatto dare un sussidio di un centinaio di lire al Zeppacori, lo fece nuovamente scortare a Fossato di Vico.

       Questo aneddoto mi fu narrato dal Lorenzini e mi fu confermato dal Nicotera.

  21. Sulle tardive ricerche fatte dalla Polizia pontificia per arrestare Antonio Ranucci produco tre Documenti, tolti dall’Archivio del Governatore di Genazzano, dai quali risulta anche come fosse disorganizzata ancora e sconquassata la Direzione Generale della Polizia di Roma sui primi del 1850, perchè — come i lettori vedranno — nei connotati personali del Ranucci — erroneamente da quella Direzione designato Ranuzzi — è scritto che egli aveva capelli neri, mentre — come ben sanno i lettori — Pescetto aveva i capelli rossi.
  1. Manca nella scansione