Poemetti (Rapisardi)/Metamorfose

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Metamorfose

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La Cometa Un vinto
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METAMORFOSE


I.


     La castellana, che ne’ rosei giorni
Brama fu di monarchi e di poeti,
Modestamente, in un campestre asilo,
Quasi ignara di sè, l’ore trascorre.
Qual meteora cangiò di quell’altera
Beltà, di quell’accesa indole i modi,
Le sembianze, gli affetti? A le pupille
Estasíate da la sua presenza
Visíone d’amore ella parea,
Quando a’ teatri sfolgoranti, o stesa
Ne la biga stemmata, in molli pose.
Di subite fragranze e di presaghi
Fascini l’aure e i cor trepidi empía.
Nella freddezza del natío paese
Era la sua beltà raggio di sole,
Che dissuggelli il pian nevoso ed apra
Alle aspettanti violette il seno.
Chi più brune mirò seriche chiome
Sopra una fronte della sua più pura?
Chi più neri, imperanti occhi in più bianco
Volto adombrar più tragici misteri?
Era ne la sua voce un’armonia
D’anime, un’eco d’altre sfere; nella
Soavità del suo pallor, nel vago
Ondeggiamento della sua persona,

E in quello sfoggio oríental di veli,
Di broccati, di gemme, onde godea,
Panneggiarsi abbagliando, una sibilla
Detta l’avresti dal pensiero emersa
Dell’Alighieri e dal Vecellio pinta.
La miravan le donne, e il dispettoso
Occhio torcendo agl’incantati amanti,
In maligni susurri, in moti atroci
Agitavan ghignando il labbro adunco.
Ma il giovinetto, a cui fervida urgea
La pubertà ne le fiorenti membra:
Chi è, dicea con tramutata voce,
Costei, che dentro a me tutta precipita,
E la mente mi fura, e a sè dintorno
In fiammeggianti vortici l’avvolge!
Si ritraeano i vecchi al suo passaggio
Sospirosi, in disparte: al chiaro vampo
Di quella vista, onde ogni cosa arden.
Guizzar sentíano insolite faville,
Correr sentíano tiepide carezze
Nel tardo sangue; ed agognavan, muti:
Così, quando l’autunno, all’ultim’ora,
Fra le torbide nubi il sole occhieggia,
Tosto un roseo vapore, un tepor lene
Circonfonde le cose, ed un richiamo
Di primavera i tristi alberi illude.

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II.


     Che una destra a lei cara, orrida altrui,
S’ingegnasse allentar gl’incliti nodi,
Che il suo stemma stringeano alla fortuna;
Che dell’alcova marital fra’ veli
S’insinuasse un qualche genio infido,
Momo il dicea, lo susurrava il mondo.
Ma di quel capo e di quel cor bizzarro,
Fuor che la flessuosa Egle, chi mai
Penetrò l’ombre e decifrò gli enimmi?
A lei sola, augurale astro, di quella
Trionfante beltà spiar fu dato
Le lattee vie, gli ombrosi incantamenti;
Sitibonda falena, ella potea
Delibar le odoranze acri e il licore
Inebbríante di quel fior notturno;
Ella, con mano ingenaamente audace,
Di quel magico libro ad uno ad uno
Schiudere i fogli dall’amor non lètti.
E se d’un improvviso estro talora
Senti nel cor l’ignito strale, e schiva
D’altri sollazzi, in serpentine spire
Ai fianchi dell’amica ebbra si attorse,
Tali baci trovò, che in un soave
Oblío le due compagne anime assorte
Beatamente si smarríano in cielo.


III.


     Ma tal venne a la fine un piccioletto
Despota, ch’usurpò d’Egle l’impero:
Un batuffol di rose e di giacinti
Mezzo sommerso in una lattea spuma
Di ricami, di nastri e di merletti:
Un ricciutello re, ch’ebbe per soglio
Fra cortine di raso un’aurea culla,
Ed armi irresistibili i vagiti.
Sul cerulo guanciale ove la nova
Creatura con labbro semiaperto
Ricercava sognando il sen materno,
L’altera castellana a poco a poco
Deponea lieta ogni pensier del mondo;
Vigea del bizzosetto idolo intorno
L’anima sua come aranceto in fiore;
Erano i suoi pensieri api al mattino
Sciamanti argute a un ramuscel fiorito;
Gli affetti suoi, tenaci edere; in ogni
Adito del cor suo cantavan fonti
D’acque lustrali, e pigolavan nidi.
Vedea meravigliando il grigio sposo
Tanti da un bacio suo fluir tesori
Di domestica pace, e d’insueta
Giocondità si rivestíano i solchi
Del volto suo, come arenoso greto
Che al sorriso d’april metta alcun fiore.


IV.


     Qual gelosa ad un tratto ala di morte
Tanta luce eclissò! Presagi strani
Ebbe in sogno la madre, e con un grido
Sussultando, anelando, in sul tremante
Cubito eretta, con intente orecchie,
Con sbarrati occhi stette. Una rosata
Luce piovea dal pendulo alabastro
Su la tacita culla, e di riflessi
Dolci animava le cerulee tende;
Tutto intorno dormía, se non che in ogni
Vena, con rombo inegual martellando.
Paurose mettea voci il suo core.
Ed ecco, in un fruscio lene, i damaschi
De la portiera lentamente aprirsi,

E una pallida mano ischeletrita,
Un candido fantasma a la dormente
Culla appressarsi, e nera a la parete
Gittando la crescente ombra, chinarsi,
E posar su la fronte ricciutella,
Irrorata dal sonno, il cereo dito.
Gridò la madre esterrefatta, e nuda
Precipitando s’avventò. Sparita
Era la tetra immagine; ma in cieco
Malore attorto il picciol corpo ardea.

     Languía la rosea creatura; e come
In tenebroso baratro rapita
Dell’egra madre s’avvolgea la mente.
Fuggir vedea tra le socchiuse imposte,
Nei cocenti meriggi, a la parete
Le vaghe ombre dei carri e dei passanti;
Perdersi udiva in un romor confuso
Le voci, i suoni della via frequente;
E fuggíano da lei come in un sogno
E si perdeano in un vuoto infinito,
Neri augelli di morte, i suoi pensieri.


V.


     Quando con trasognati occhi mirò
Vuota la casa, derelitto il nido,
Al freddo capezzale ella si assise
Pallida, austera a vigilar la morte.
E in leggieri, gementi ondeggiamenti
Agitando la tenue navicella,
Che già lieta portava il suo tesoro,
In vaghe nenie, in teneri bisbigli
Cullava dell’errante anima i sogni.

«O piccioletto re, che da le case
     Auree del sole eri venuto a me,
Il trono dell’amore orbo rimase,
     Deserto il regno che il mio cor ti diè.

Per la notte infinita, in fragil barca,
     Inesperto nocchier, dove vai tu?
Tu che del sen materno eri monarca,
     Sopra il mio sen non poserai mai più!

Vedi? è torbido il mar; gelido il verno
     Mugolando per l’ombre orride va;
Torna, figlio adorato, al sen materno,
     Loco più fido il mondo e il ciel non ha.

Volgi, amor mio, la solitaria prua;
     Teco per l’infinita ombra verrò;
Io che un regno ti tiedi, io che son tua,
     Ove dormire, ove morir non ho.»


VI.


     E un giorno egli la udì. Esile e grande,
Non qual visto l’avea nell’ultim’ora
Pargolo semplicetto, egli le apparve:
Bello d’un blando lume era il suo volto,
Ma pensose e pietose avea le ciglia,
Come se tutte, in sì brevi anni, avesse
Dell’umano dolor le voci udite.
Le si fece da presso, e dolcemente
Carezzandole il petto: O paradiso
De’ miei sonni infantili, ei le dicea,
Da lontane regioni ecco a te riedo,
Poi che la voce ho del tuo pianto udita.

     Estatica, anelante ella mirava,
Nè voce avea: tremavano le sue
Aride labbra, come tenui fiori
A la gelida brezza irrigiditi;
Da una rorida nuvola velati

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Nuotavan gli occhi fra il sorriso e il pianto,
Mentre, agitato da singulti, il niveo
Collo pulsava ed ondeggiava il seno.
Perchè così guardate, ei soggiungea,
Perchè così piangete, occhi soavi?
Placida è la casetta ov’io dimoro:
Odorose corone april vi appende,
E la rallegra degli uccelli il canto.
Ma non canto, non fior, non aura amica
La casa de’ traditi orfani allieta;
Ma vivanda non fuma, e non sorriso
Di domestico lume i passi alletta
Al peregrino meschinel, che il bacio
E il viso e il nome della madre ignora.
Come foglie disperse errano al vento
Gli abbandonati tapinelli, o in cupi
Antri sepolti, ad aspre opere addetti.
Deformati ululando, ascendon l’irto
Calvario de la fame. O derelitti
Fiori, perduti al sole ardente e al nembo.
Da la muta casetta ov’io soggiorno,
Sterpati errare e inaridir vi miro;
O tenerelli cori, io nell’eterna
Vigilia de la morte il grido ascolto
Del dolor vostro immedicato. A loro
Volgi, o madre, lo sguardo; apri su loro
La benefica destra, ed alcun fiore
Su la tetra lor via nutra il tuo pianto!


     Così parlava e dileguava. Un’onda
Melodíosa di siderea luce
Rasserenò dell’egra madre il senno;
Ma non così che d’affannose voci
Talor non suoni il suo campestre asilo.

«Fiore dell’amor mio, fiore cresciuto
     Sul core della Morte, entro un avel,
Fiore che il pianto mio tutto hai bevuto,
     Ed alzi la corolla esile al ciel;

Nella polvere giace or la mia fronte,
     Chiusa è l’anima mia dove sei tu;
Sigillato il conforto ha la sua fonte,
     E le lagrime mie non sgorgan più.

Vivrò come tu vuoi; tutte le vie
     Percorrerò del sagrificio uman:
I bimbi ignoti alla pietà le mie
     Provvide cure ed il mio pane avran.

Ma tristi suoneran le mie parole,
     Ma la preghiera mia vol non avrà:
Carme senz’armonia, fior senza sole
     Il mio conforto al pianto altrui sarà.

Esule da me stessa, i danni miei
     Altrui celando, al bene altrui vivrò,
Ma fin che non mi accogli ove tu sei,
     Un istante di pace io non avrò.»