Poemetti (Rapisardi)/Un vinto

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Un vinto

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Metamorfose Il sogno del gigante
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UN VINTO.


I.


     Apran dinanzi a me di questa orrenda
Muda le porte, io n’uscirò; ma ch’io
Grazia domandi come reo pentito,
Figlia, non lo sperar, nè voler ch’altri,
Commiserando al tuo dolor, la impetri.
Popol che chieda a vincitor superbo
Qual pietà la giustizia, è popol vile;
Al prepotente che ti abbatte, e calca
Su te caduta e disarmata il piede,
Son diritto e ragion favole vane;
E se paura il fa parer benigno,
Voti scrocca ed applausi al vulgo ignaro,
E il suo regno protrae. Non io sotterra
Portar mi voglio un tal rimorso. Amai
Più che me stesso la Giustizia; in campo
Scesi per lei; per lei pugnando caddi;
Il vincitor, di sue fortune indegno,
M’ha sul petto il ginocchio: e che potrei
Dal nemico aspettarmi? Usi il suo dritto
Come un pugnale, e nel mio cor l’affondi:
Risplenderà del sangue mio vermiglia
L’Idea sublime, a cui la vita immiolo;
E tu, dolcezza unica mia, d’un nuovo
Tempo la presagita alba vedrai.


II.


     Non son più solo: un piccioletto ragno
Ha da più giorni il domicilio eletto
Ne la mia cella; e de la ferrea grata
Sceltosi a studio un angoletto estremo,
Sue lievi insidie ad intramar s’è messo.
Ve’ come a un capo dell’argenteo filo,
Che di bocca si trae, celere scende!
Ve’ come il destro giocolier gli stami
Tende a mo’ di raggiera, e di traverso
Sen vien tessendo il luccicante ordito!
Forse le trame imbozzimar, le maglie

Collegar pari il furbacchiotto oblia?
Egli pettine e spola, egli cannello
Corre alácre da questo a quel vivagno:
In concentrici quadri i fili annoda,
Li colpeggia solerte; e poi che assai
Forte alla prova ed all’insidie acconcio
Il frodolente módano gli sembra,
Si agguata a un lembo, e paziente aspetta.
Ecco, un ingenuo moscerino incappa
Entro al pensile inganno, e più stridendo
Districarsi s’ingegna, e più s’impiglia.
Sbuca allora il famelico, e le adunche
Forbicette agitando, in su la trepida
Preda ardito si lancia: in lesti giri
Con velenosa ciurmeria l’allaccia,
Indi con voluttà placida sugge
Del tristerel, che invan si lagna, il sangue.

     Più che i feroci violenti io sempre
Gli astuti insidíosi esseri odiai;
Ma poi che insidia e violenza il regno
Disputarsi del mondo, e da maligne
Arti travolto e da brutali assalti
Sempre, ahi, finora il generoso ho visto,
Men ribrezzo le tue perfide trame,
O piccioletto masnadier, mi fanno,
Cui non odio o livor dell’altrui stato,
Ma universale, necessaria brama
Di nutrimento all’altrui danno incíta.


III.


     Il giovinetto che sepolto in questa
Tomba di vivi, all’antro mio di faccia,
Da sei mesi giacea, stanotte è morto.
Fortunato il direi, se non ch’io sento
La tua voce nell’ombra, Ada mia dolce,
Incorarmi alla vita, e nell’immenso
Baratro aprirmi di speranza un raggio.
Un insueto scalpiccío destommi;

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Su la branda mi assisi; e dal maligno
Sportel, che spia la mia segreta, un bieco
Lume irruppe a ferir le mie pupille.
Voci sommesse ed interrotte udii:
«Egli era infermo da più giorni; avea
Ieri scritto alla madre; ed oggi s’era
Con una scheggia acuminata ucciso.»
Qual fosse il nome suo, quale il delitto,
Non so, nè il cerco. Un solo istante il vidi;
Solo una volta la sua voce intesi;
E pietà n’ebbi. Il signorile aspetto,
Il mite suono della sua parola
Tornava spesso alla memoria mia
Ne le tetre ore, ne le notti insonni:
Se veduto sovente anco l’avessi,
Forse l’avrei come un figliuolo amato.
Nato forse ad amare, abbeverato
D’odio e di sprezzo, egli si franse. Il sordo
Tonfo del corpo suo, dentro una rozza
Cassa gittato da straniere mani,
Ho sentito; pe’ tetri anditi i colpi
Riecheggiare del martel sinistro
Ho sentito, e ne fremo. Ahi, mentre quella
Misera bara, come sozza cosa.
Trafugata è per l’ombre algide e quasi
Gittata in pasto all’infinito oblio,
Ahi, nessuna vivente anima pensa,
Che dentro a quelle quattro assi inchiodato
Hanno un cor vivo, d’una madre il core!


IV.


     O lusinghiera illusíon di cielo,
Gran tempo è già che dal mio core in bando
Cacciata io t’ho come una sposa infida:
Nè per vezzi che sfoggi, arti che adopri.
All’amorosa comunanza io torno.
Ben io mi so, che in variopinti veli
Fra terra e cielo ondeggi, e le deserte
Piagge vestendo del tuo roseo lume,
Incoroni di fiori anche la morte.
Trepida per le torve ombre si leva
Al tuo passaggio ogni anima cui preme
Troppo il fardello della vita, e un’ora
Di tregua almen, se non di pace, impetra.
Tu di sogni vivaci e di ridenti
Fantasme il cor de’ giovanetti inondi;
Tu dell’ignee chimere il popol desti,
Perchè cibate di sublimi inganni
Sorgan le menti de’ mortali, e in vano
Fluttuar viva e si propaghi il mondo.

     Nel tuo fáscino attorto anch’io più tempo
Vissi, intènto così ne’ tuoi miraggi,
Che me stesso oblíato, e le severe
Cime smarrite, ove tra ghiacci e fiamme
Regna, sol nume a’ generosi, il Vero,
Bamboleggiai dietro al tuo vol. Ma poi
Che col niveo martello al petto mio
Picchiò più volte la fatal gorgóne
Del disinganno, e del tuo vitreo nappo
Vidi, nell’ora dello strazio, il fondo,
Liberai dal tuo spettro il regno austero
Dell’intelletto mio, nè, di te privo,
Deserto io vissi ed infelice; arrise
Provvidente il dovere al mio cammino;
E dal casto tuo lume irradiato
Esultò pronto ad opre audaci il core.

     Pur, se penso, o mia dolce Ada, che quando
Sigillati saran da la tua mano
Questi miei dolorosi occhi (deh, questo

Conforto estremo non m’invidj il cielo!),
Più non vedrò le tue forme leggiadre,
Più non udrò, per quanto il ciel si giri,
Per quanto il moto si lontani e spanda,
La tua voce soave; e non più mai
S’incontreran le nostre anime, i nostri
Atomi per l’immenso aer, più mai....
Atterrito il ciel guardo, e immensamente
Tristo mi sembra e sconsolato il Vero.


V.


     Quando il pensier da queste ferree chiostre
Libero erompe, e corre a volo il mondo,
A questo covo ignoto al sole, al cibo.
Misero, al fragore orrido de’ ferri,
Fatto quasi insensibile ed inerte,
Adusando si viene il corpo mio.
Ma se di voli stanco, e della pigra
Età sdegnoso e della scarsa fede,
Ond’io qui gemo, l’anima ritorna;
E queste bianche, solitarie mura
E il raso capo e i goffi abiti osservo,
Fuor di me con selvaggio impeto allora
Alla grata mi aggrappo, i ferri scuoto
Rabbiosamente, e non parole e voci
Ma ruggiti e bramiti al cielo avvento.
A tal dunque son io? Deh, tutti in questo
Capo i suoi mali addensi irato il mondo;
Tutti vibri i suoi dardi al petto mio
L’ira che usurpa alla giustizia il loco;
Ma che di me la padronanza io perda.
O Natura, non sia! De la tua luce
Suggella, o madre, agli occhi miei le fonti,
Ma tal governo al mio pensier concedi,
Che alle sventure immeritate incontro,
Conscio di me, serenamente io regga
Col capo eretto e col perdóno in core!


VI.


     Un vago accordo, un amoroso canto
Mi reca a notte il venticel d’aprile,
Mentre supino su la dura branda
Con gli occhi immersi nel mistero io veglio.
Vive ancora la gioia? Ancor di fiori
S’incorona la vita; e la divina
Frenesia dell’amor l’anime invade?
E questa terra, in cui tutto ognor muta,
quella terra ch’io conobbi, quella
Terra in cui vissi e ríamato amai?
Ecco, rivivon ne la mente ad uno
Ad uno i sogni ch’io sognai nel mondo,
Amor, Giustizia, Libertà! Vivete,
Sogni divini, su la terra, e tutte
Consolate le meste anime! Il giorno
Della vostra vittoria, ancor lontano,
Verrà, ne ho fede. Io nol vedrò quel giorno:
Un’ombra, un sogno di me stesso io sono;
E tale, o figlia, alle mie case or vengo
Dell’amorosa melodia su l’ale;
Ed a te m’appresento, a te che ignara
Di dolci amori e di convegni lieti,
A’ cari studj attendi, e al davanzale
Del verone appoggiata, il mesto sguardo
Volgi a le stelle, ed a tuo padre il core.
Mi riconosci? Con aperte braccia
Ecco, a me corri; l’adorato capo
Offri, anelando e sorridendo, a’ miei
Baci; e ti sgorga facile dagli occhi
Il dolce pianto ch’io versar non posso.

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VII.


     Fatto inutile agli altri, a me nojoso
In questa fossa abbandonato io fremo;
Ma se penso che voi, squallide torme
All’officina ed alla gleba addette,
Non avete men triste il covo e il cibo;
Che di voi molti, ad ozíar dannati
Da’ casi avversi o dall’infamia altrui,
Questa mia sorte a invidíar son tràtti,
Più del mio stato non mi lagno: il bieco
Civil congegno abbrividendo osservo;
E dolorando a’ vostri mali, iniqua
Pena la vita e vile il mondo appello.


VIII.


     Questa ch’ora è prigione umida e scura,
Fu già castello baronale: albergo
Già di amori, di fasti e di delitti,
Or di dolori senza nome, anch’esso
L’eterno gioco delle umane sorti
E l’incalzar della grande Ora accusa.

     Come nero fantasma, all’erta cima,
Nel mio notturno immaginar lo vedo
Vigilar con fiammanti occhi la valle,
Nel cui sen vaporoso umili e muti
Perdonsi i tetti de’ vassalli. Ed ecco
Splendono a festa le marmoree sale,
E il fragor delle cene ebbre e de’ balli
All’ombre, al sonno degli oppressi insulta.
Risonate, armonie; danze, volgete:
Il grato regno della notte è vostro!

     Deh, come fuor dall’iridate spume
Di merletti e di veli, e constellate
Di gemmee punte abbarbaglianti, emergono
Rosee spalle, auree trecce, eburnei seni!
Come vibranti all’amoroso invito
Balzan le coppie, e con irresistibile
Lancio al sonoro vortice abbandonansi!
Come le dame a’ cavalieri indomiti
Voluttuosamente si attorcigliano,
Mentre già già le bocche in caldi aneliti
Sfioransi; ed in un brivido, in un’estasi
Di desiderio l’anime si fondono!
Risonate, armonie; danze, volgete:
Il grato regno della notte è vostro!

     Ma già il mattino timidetto affacciasi
D’interromper le vostre alte vigilie.
Date vénia, o felici, al putto ingenuo,
Che aprendo con la man candida l’ètere,
Le sfatte acconciature, i volti pallidi,
Lo ciglia orlate di cerchietti lividi
Ridendo addita, e con frizzante soffio
Smorza i doppieri. Oh come tristi e squallide
Ripetendo si van per entro a’ perfidi
Specchj le vostre or or celesti immagini!
Come languidi i cembali sbadigliano
L’ultime note, mentre a la cinerea
Luce che da’ cristalli umidi infiltrasi,
Per le pareti sonnolente strisciano
Le vostre insaziate ombre volubili!

     Dileguate, notturne ombre: la valle
Tra’ vapori sepolta, ecco, si sveglia;
Ecco, a la squilla mattutina, nu aspro
Popolo armato di campestri ingegni
Torna invitto a la vita; e di feconde
Opere ravvivando i campi altrui,
La mèsse nova e la giustizia affretta.


IX.


     Non caro volto, non parola amica,
Non benigna risposta. E un mese, un anno,
Un secolo che qui m’han seppellito?
Non sorriso di sol, non mutamento
D’aura, non moto di viventi cose,
Ma tacite fantasime perdute
In perpetuo crepuscolo; ma ombre
D’uomini senza nome, senza voce,
Evaníenti in un mistero immenso....
Non è questo un sepolcro? E chi m’ha chiuso
In questa fossa, in questa bara? Aprite
Questa bara; scoprite questa fossa;
Non gettate su me la fredda terra:
Uomini, udite, io non son morto ancora!


X.


     La sventurata che cotanto amai,
Che mi amò tanto, e nella terra or giace,
E questa notte a’ sogni miei venuta.
Sul mio Plutarco io vigilava, ed alti
Conforti a’ mali della vita e nova
Nell’umana virtù fede attingea,
Quand’ella con la man cerea scostando
La grave tenda, la testina bruna
Sporse in silenzio; e del tappeto i fiori
Con la punta de’ piè sfiorando appena,
Da canto a me, come solea, si assise.
lo trasognato la guardavo: ancora
Giovane ell’era, come il dì che sposa
Me la condussi al paesel natío,
Dove mia madre, vecchiarella santa,
Sorridendo e piangendo al sen la strinse;
Bella tuttor come quel dì; soffusa
Di quel candor, di quel pudor che rende
Celestiale una mortal bellezza:
Se non che gli occhi suoi, già chiari tanto,
Or velati apparían di quel sottile
Vapor che il viso de le stelle adombra
Ne’ mattini d’autunno, onde ti pare
Che al destino dell’uom pietose anch’esse
Tutta la notte abbian vegliato e pianto.

     Ammalíato da’ suoi dolci sguardi
La man le presi (oh bianca e fredda mano
Ch’io scaldar co’ miei baci invan provai!)
E, dove, le dicea, dove sei stata
Senza me, si gran tempo, anima cara?
Perchè lasciato hai così presto il frutto
Delle viscere tue? V’è dunque un loco,
In terra o in ciel, dove l’amor si oblía?

     Non dolerti di me, con sospirosa
Voce rispose: ad alte sfere io fui
Lungi da te, malgrado mio, rapita:
Beate sfere a chi la terra oblía,
Esilio a me, che su la terra, in queste
Adorabili mura il cor lasciai!

     Proruppe allora irrefrenato il pianto
Da le mie ciglia: — E qual poter ti vieta
Di restar co’ tuoi cari, ospite santa!
Deh, se di nuovo abbandonar t’è forza
Questo senza di te vedovo nido,
Guidami al dolce loco ove dimori,
Ne l’abisso o nel cielo: anche la nostra
Ada verrà.... Non la destar, con pio
Ammonimento m’interruppe: i sonni
Puri dell’innocenza ella ancor dorme,
E non la svegli di suo padre il pianto!
La cerula stanzetta ove riposa,

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Odimi, or ora ho visitato: al bianco
Suo capezzal mi son librata, e il fresco
Alito de la sua bocca aspirando,
Le ho posato su la fronte un bacio,
Sì lieve che non fu dal sonno udito,
Sì dolce che nel sonno ella sorrise.
Rasserénati, o caro: a’ generosi
Dovere alto è la vita. Altri, tu ’l sai,
Dolori ha il mondo; altre battaglie ancora

Ti aspettano: sii forte; e non che vane
Lacrime prodigar sul mio destino,
Terger le altrui, vivere altrui procura!

     Così dicea l’amata donna; e un bacio
Su le labbra imprimendomi, le braccia
M’avvolse al collo. Ne la dolce stretta
Mi ridestai; mi volsi intorno; il pianto
Tersi; ma su le labbra e dentro al core
Il bacio, il gelo della morte io sento.