Prefazioni e polemiche/II. Prefazioni alle tragedie di Pier Cornelio tradotte in versi italiani (1747-8)/II. Al conte Demetrio Mocenigo primo

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II. Al conte Demetrio Mocenigo primo

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II. Al conte Demetrio Mocenigo primo
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II


Al conte

DEMETRIO MOCENIGO PRIMO

IL BARETTI


L’umanità e la piacevolezza della vostra conversazione è tanta e tale, stimatissimo signor conte, che io benedico propio l’ora che io ebbi l’onore di essere ascritto nel numero di quelli che familiarmente ne godono; e se ho a dir vero, gli era un pezzo che non m’era venuto alle mani un cavaliere il quale, come voi, accoppiasse ricchezze e nobiltà ad amore di buoni studi ed a sommissima dolcezza di costumi; la quale cosa è tanto più da ammirare in voi, poiché sí giovane siete e perché in cosí verdi anni trovar non si suole agevolmente chi cammini per l’onorata via per la quale voi camminate. Ma lasciamo andare queste veritá, imperciocché io so che voi non vi compiacete troppo delle lodi, quantunque meritamente vi sieno date. E giacché io mi sento oggi l’umore di scarabocchiare quattro facciate, mi è venuto in pensiero di trattenermi alquanto a favellar colla penna con esso voi di alcune cose di poesia, delle quali già insieme con parole piú d’una fiata parlammo. Sono pochi giorni passati che essendo io a solo a solo con voi, e penso che ve ne ricorderete, il discorso nostro cadde sopra il grande numero di autori italiani e francesi, i quali gli uni degli altri scrivendo e giudicando, male hanno scritto e peggio hanno giudicato delle loro rispettive opere d’ingegno. — — Ella è una cosa troppo stomachevole — — dicevate voi — — il leggere tanti stravaganti e falsi giudizi dati da tanti scrittori francesi dei [p. 46 modifica]poeti italiani. Se stiamo col famoso Boileau, l’Ariosto, il nostro divino Ariosto, è da posporsi sino ad un poeta di piacevoli novellette prodotto dalla sua Francia; e La Fontaine, secondo lui, ha molta più grazia e buon discernimento nel raccontare la novella di Fiammetta, che non n’ebbe l’inventore di quella: né vuole quel buon satirico quasi soffrir paragone fra il suo caro traduttore e l’odiato inventore della fantesca spagnuola. Oh che giudizio (lasciate ch’io ’l dica), oh che giudizio sgangherato ! — Ma qual altro giudizio poteva dare — vi rispos’io — un uomo tanto dotto in lingua italiana, che credette versi gravi que’ sei pianissimi versi dell’Ariosto co’ quali e’ dà principio alla sua novella?

Astolfo re de’ longobardi, quello
a cui lasciò il fratel monaco il regno,
fu nella giovinezza sua si bello
che mai poch’altri giunsero a quel segno.
N’avrebbe appena un tal fatto a pennello
Apelle o Zeusi, o s’altro v’è più degno.

Chi crede versi gravi questi poco meno che bernieschi versi, qual maraviglia se chiama «orpello» tutto l’oro della Gerusalemme liberata! E perché si moveranno a sdegno i giudiziosi italiani contro un autore che con si strani giudizi più di riso che di sdegno ha voluto procacciarsi? E perché ci vogliamo noi sbattezzare quando leggiamo i tanti spropositi registrati in quei grossi tomi del Baillet ed in tanti altri scrittori francesi? Eh, lasciamoli dire, signor conte, e ridiamo della tanto loro franchezza di decidere del merito de’ nostri autori, che sarà la più corta.

Lo stesso tanto celebrato vivente Voltaire, che non ha detto della lingua italiana in corpo e in anima? Egli seguitando, anzi ripetendo quello che già aveva sentenziato il suo compatriota Bouhours al tempo de’ suoi padri, senza por mente e senza aver avuta cognizione delle difese fatte da più d’un italiano, chiama la nostra lingua «effemminata» e «molle». Non sono questi forse due bellissimi epiteti? Certo bellissimi, ed io gli do ragione, [p. 47 modifica]e sono anzi per dare una picciola prova della verità di questo suo nobilissimo giudizio, con riferire otto soli versi della Gerusalemme liberata, che sono questi:

Chiama gli abitator dell’ombre eterne
il rauco suon della tartarea tromba:
treman le spaziose atre caverne,
e l’aer cieco a quel romor rimbomba;
né si scendendo mai dalle superne
regioni del cielo il folgor piomba,
né si scossa giammai trema la terra
quando i vapori in sen gravida serra.

Oh che «mollezza», oh che «effemminatezza» non è in questa ottava! oimè, la mi fa sdilinquire per tenerezza! Ma lasciamo il canzonare da una banda e diciamo che la forza, la robustezza dello stile delle nostre poesie, al vedere, non è pane pe’ denti de’ signori francesi, i quali se potessero fra gli altri nostri intender Dante e se lo avessero inteso prima di scrivere, anzi, com’io dissi, di replicare lo stravolto giudizio di alcun loro antecessore, al certo parlerebbero ed avrebbero parlato con minor dispregio d’una lingua che nelle mani d’un valente scrittore piglia come cera la forma che più si vuole. Dante nell’espressione è fortissimo, Petrarca molle e soave, Ariosto nobile e leggiadro, Tasso tutto grandezza, tutto maestà, e il Metastasio tutto dolcezza, tutto amore. Non è per questo che io voglia dire che questi nostri scrittori sieno sempre egualmente perfetti dal principio al fine delle loro opere, e che sieno senza macchie e senza nèi. «Nessuno è perfetto eccetto Dio»: gli è proverbio antico più che i sassi; ma parlo così in generale e dico che il carattere dominante di quegli autori è quale io dissi, e per tale è ricevuto da tutti gl’italiani.

Ma ora che abbiamo detto così di volo de’ giudizi stravaganti, de’ francesi sopra gl’italiani, permettetemi, signor conte, che senza adular i vostri io dica liberamente che molti italiani hanno anch’essi gareggiato con molti francesi e fatto, dirò cosi, a chi più inconsideratamente giudicasse e sentenziasse. E per non mi estendere soverchio oltre i limiti d’una lettera mezzo critica, [p. 48 modifica]come mi accorgo che questa va diventando, non è ella cosa ridicola il sentire degl’italiani magistralmente decidere che il teatro francese, non che superiore, non è eguale, anzi molto è inferiore all’italiano? che noi abbiamo delle tragedie e delle commedie in quantità da preferirsi anche alle più belle di Pier Cornelio e di Molière? Io sono italiano ed amatore miracoloso de’ Danti, degli Ariosti, de’ Berni e di tutti i nostri eccellenti scrittori d’ogni genere, né fui mai degno di essere ascritto fra quella buona gente alla quale tutto pute di rancido se non viene di Francia; ma tuttavia che l’Italia abbia prodotto un Cornelio, un Molière, oh questa la non mi è potuta entrar mai. Che diascane, che certuni non si vergognino di preferire le commedie del Cecchi a quelle di Molière, se l’autor francese è letto ed applaudito fra di noi, cioè fra gente che ha altra lingua ed altri costumi; che per lo contrario il Cecchi pochissimo dai nostri più eruditi e nulla affatto dagli stranieri si legge? Molière gli è un secolo omai che va pe’ teatri di Francia e di alcune regioni d’Italia e d’altrove nella sua stessa lingua, e non c’è galantuomo studioso italiano che non lo abbia fra i suoi libri; che il buon messer Cecchi, chi lo vuole, bisogna lo vada cercando col lumicino su per gli scaffali delle più compiute italiane librerie. E dopo una prova di questa sorte, ancora si vorrà dire che il nostro comico fiorentino sia da preferirsi al francese? Ma salta qui nel cerchio un dottore in latino, e mi dice che il Cecchi è un Terenzio bello e sputato e che perciò è da preferirsi a Molière o almeno da eguagliarsi a lui. Ma, padron mio, a che rompermi il capo con questa erudizione? Traducile in latino quelle commedie del Cecchi e mandale nell’altro mondo agli antichi romani, che se le faranno recitare da Roscio e da Citeride e dagli altri istrioni loro e ne avranno un gusto matto; ma io per oggi sono di questo mondo di qua, e in questo mondo di qua le cose che erano belle a’ tempi di Terenzio e di Plauto nessuno s’arrischia a farle vedere in teatro, ed a quelle commedie che non servono per diletto ed ammaestramento del pubblico io sono umilissimo schiavo e non so che me ne fare, poiché non hanno la lor dote principale che è quella di piacere ai dotti [p. 49 modifica]ed agl’ignoranti. Dunque secondo il mio sentimento, signor conte, noi stiamo molto male a commedie ed utili e dilettevoli insieme, come il sono la maggior parte di quelle di Molière; e tomo a dire che un uomo versato nella nostra lingua può ben dalle nostre commedie e diletto ed utilità ritrarre leggendosele da sé a sé, ma da rappresentarsi in teatro le non sono a mille miglia così proprie le italiane pe’ teatri d’Italia come le francesi pe’ teatri di Francia. La quale cosa io credo che provenga in gran parte dalla rima che «lauca alle nostre e che è nelle commedie francesi; e di questo già toccai così di passaggio in una mia lettera ad un amico mio di Milano, che ho posta in fronte al primo tomo della mia traduzione di Cornelio. E tanto più sono confermato in questa mia opinione, che le cose teatrali nella lingua italiana e nella francese vogliano la rima, quanto che vedo che le nostre buone commedie in prosa sui nostri teatri non riescono, e che L’avaro di Molière non fu ben ricevuto a’ tempi suoi, per quanto ho letto nella sua vita, e non l’è neppure a’ nostri, per quanto mi vien riferto, appunto per questa ragione: perché in prosa fu dettato. Eppure la è molto strana cosa che fra tante sorte di commedie che dagl’italiani si sono scritte, non se ne sia potuta trovar una che dia tanto piacere a un popolo quanto ne danno Pantalone e Truffaldino. Di molte sorte di commedie, e tutte diversissime fra di esse, hanno gl’italiani scritte. Il mentovato Cecchi, verbigrazia, e moltissimi altri toscani ed altri italiani sono andati dietro a’ greci (per quanto sento dire, che io di greco non ne beo) ed a’ latini, alcuni in prosa scrivendo ed alcuni in un certo verso sciolto, che non è né prosa né verso, né carne né pesce; altri scrissero in verso sdrucciolo, come l’Ariosto, e di tutti quesd non ho veduto riuscire in Venezia che il solo Esopo rappresentato non ha un mese; e questa commedia forse più piacque per la novità e popolarità del principal carattere e per essere ornata di alcune leggiadre fa velette in rima, che per altra ragione. Altri hanno scritto un’altra sorte di commedie, come L’Amenta avvocato napoletano; e nessuna commedia italiana (eccettuata La Tancia, caro idol mio) mi ha dato nel leggere [p. 50 modifica]più piacere di quelle; ma neppur queste vanno sui teatri di Venezia o d’altra città fuori del regno di Napoli. E ciò addiviene, cred’io, per la varietà de’ linguaggi, e specialmente per lo napoletano che parlano gl’interlocutori, per i troppi avviluppati accidenti e per la troppa copia di riboboli fiorentini, de’ quali sono soverchiamente sparse. Il Fagiuoli ne ha scritte d’un’altra spezie e in prosa e in verso a modo come di recitativo, con certi caratteri, fra gli altri, di contadini, graziosissimi oltremodo; ma fuori della Toscana neppur queste escono, ché in tutto il resto dell’Italia non sarebbono que’ contadini intesi. Alcune altre commedie di alcun’altra spezie ancora noi abbiamo, come sarebbe a dire la prefata mia carissima Tancia del Buonarroti, ed alcune altre poche e in terza e in ottava rima antiche antichissime, i di cui nomi appena si sanno da’ più curiosi de’ nostri antichi libri; ma né La Tancia né quelle possono essere intese da tutti gl’italiani. In sostanza, di tutte le additate commedie i comici di Venezia non ne vogliono arrischiare alcuna né in Venezia né altrove; e pure alcuni di questi comici, e principalmente Gaetano Casali, conoscono molto bene il buono delle nostre commedie e le leggono e cavano da quelle di molte belle cose, com’eglino stessi affermano.

Da tutte queste cose che ho dette così alla rinfusa, una a ridosso dell’altra, come mi sono venute nella fantasia, alta maraviglia deve sorgere negli animi nostri, che per numero e per varietà di commedie nessuna nazione sinora vinca la italiana, e che pure sempre Truffaldino e sempre Pantalone trionfino sui nostri teatri, e che quelle tante commedie se ne stieno polverose nelle biblioteche. Ma come mai va questo? Lasciatemelo replicare, signor conte, che bisogna venga in Italia una testa simile a quella di Molière, che abbia facilità di rima, oltre all’invenzione e all’altre parti necessarie a un poeta comico, e che poi questi scriva delle commedie in ottava rima, poiché la prosa e i versi sciolti e gli sdruccioli non possono essere gustati dal popolo italiano, il quale, amando generalmente la rima ed avendo gli orecchi e l’anima né più né meno come quel di Francia, si piegherà, come quel di Francia si piegò, già son tanti anni, a [p. 51 modifica]sentire delle cose buone ed utili. Moltissime altre cose io ho nella mia testa intorno alla commedia; ma, signor conte, ne parleremo un’altra volta più a dilungo o in voce o in iscritto. Solo vo’ dirvi prima di finir oggi di parlarvi di essa, che io credo voi di quel mio pensiero che io ho qui di sopra mostrato palesemente avere, cioè che i comici di Venezia debbono avere la maggioranza sopra tutti i comici d’Italia, così che citando quelli per prova di alcune cose intorno al teatro, io faccio conto che tanto debba valere quanto il citar Boccaccio intorno alla lingua.

Se noi abbiamo poche commedie che piacciano al pubblico, non siamo così scarsi di tragedie delle quali pure di diverse ragioni e spezie ne abbiamo. Ne abbiamo in prosa, in versi senza rima ed in versi frequentemente rimati. Di quelle in prosa non n’ho visto riuscire alcuna, di quelle in versi senza rima poche, e di quelle frequentemente rimate, che sono le uniche del Metastasio, comunemente chiamate drammi, assai, anzi tutte: e per mio avviso il Metastasio, quantunque rigorosamente parlando non si possa chiamar poeta di tragedie, è il solo poeta di teatro che io ardirei quasi di porre a fronte di Pier Cornelio, quantunque io senta dire da molti, e che talora paia anche a me, ch’e’ non conservi troppo i veri caratteri de’ suoi eroi come a noi sono venuti dalla storia. Questa è una delle principali critiche che si fanno a quel grand’uomo; l’altra è che nelle sue tragedie o drammi, chiaminsi come si vuole, e’ non ha soverchio badato a’ precetti del padre Aristotile e che ha molte inverisimiglianze negli accidenti delle sue favole. Ma a che giova mai tutto ciò, se Metastasio piace e se ha fatto guadagnar tanti ducati agli stampatori che lo hanno stampato tante volte? Metastasio letto piace, piace cantato e piace recitato; ma quella de’ ducati guadagnati dagli stampatori è la prova più grande, per mio avviso, del gran merito d’un autore, che aver si possa. Viva, viva il Metastasio; e que’ pochi grechisti che lo vanno criticando provinsi un tratto a restringersi, come egli a forza dee fare, in tre atti assai brevi, con la legge di non aver a far entrare al più al più che sette personaggi, con tante arie e tanti [p. 52 modifica]recitativi determinati per ciascuno; provisi un altro ad essere cosi espressivo, così nobile, così dolce, così amoroso, così vario e così pieno di bei documenti e sentenze come il Metastasio è; e poi lo critichi, ché gliela perdono. Io sono di sentimento che non ne verrà mai più un altro tale in quel suo genere, e in una parola lo giudico poco al di sotto del gran Cornelio e molto al disopra di Racine. E qui, giacché viene in taglio, dirò che da molti francesi Racine non solamente è agguagliato a Cornelio, ma posto anzi un grado più alto; ed io gli ho per poco meno che pazzi quanti e’ sono, che gli è vero che Racine è molto più corretto ed esatto nella lingua che non Cornelio, ma i suoi romani, i suoi macedoni, i suoi indiani, i suoi greci ed i suoi turchi stessi tutti sono francesi; e poi quel loro sospirare e piangere continuamente, quelle lor seccaggini d’amore non solo a lungo andare mi spiacciono, ma mi muovono nausea e mi saziano di troppo. Racine di rado, di radissimo s’alza e dà nel grande e nel sublime, ed è sempre uguale, sempre va terra terra; e se nelle sue poche tragedie non ha i difetti del Pertarite e dell’Agesilao, è lontano altresì, lontanissimo dall’avere le maravigliose bellezze della Rodoguna, dell’Orazio, del Cinna, del Pompeo, del Nicomede e dell’altre belle incomparabili tragedie di Cornelio. Il quale, e per feconda invenzione e per elevata fantasia e per una certa forza di ragionare tutta sua, si lascia indietro assai e Racine e tutti gli altri tragici francesi, fra i quali ve ne ha alcuno che io sarei tentato di anteporre a Racine. L’Atalia e l’Esterre di Racine sono, a mio giudicio, le due sue più belle tragedie, sparse di frasi e di sentenze tolte da’ santi libri; ma tuttavia sono molto inferiori al Poliutte di Cornelio. E per conchiuderla io chiamerò sempre Racine il poeta delle dame e Cornelio il poeta, anzi il maestro degli uomini. Ma, signor conte, non venite a cercar Cornelio nella mia traduzione, che voi non vel troverete certamente; non mica perché io abbia tanto cattiva opinione de’ fatti miei che io non creda non averlo ben tradotto quasi dappertutto, ché se non avessi creduto avere qualche poca d’abilità, non mi sarei accinto mai a questa impresa, e liberamente dirò che in molti luoghi le mie [p. 53 modifica]espressioni agguagliano le sue: non per questa ragione, dico, il Cornelio francese non si dee cercare nel Cornelio italiano, ma sibbene perché alla mia traduzione manca la rima, la quale dà risalto e magnificenza e grazia e forza e tutto quello che si può desiderare al mio originale.

Di due altre sorte di tragedie oltre a quelle del Metastasio noi abbiamo, come dissi. Le une in prosa schietta, e di queste non occorre perdere il tempo a parlare, poiché il teatro vuole il verso e sempre l’ha voluto tanto negli antichi quanto ne’ moderni tempi. L’altra sorte è in verso endecasillabo sciolto o in verso alternamente settesillabo ed endecasillabo sciolto misto a capriccio. Di queste, poche n’ho visto aver fortuna e tanto poche che si potrebbono per avventura sulle dita d’una mano senza passar all’altra numerare; e queste, tutte d’autori de’ tempi nostri, cioè del sapientissimo abate Conti, patrizio di quest’inclita repubblica e principalissimo ornamento della letteratura italiana, del celebre marchese Maffei e del rinomato Lazzarini morto pochi anni sono. Moltissime altre di antichi e di moderni italiani, proposte per modello ed alzate sino al terzo cielo da alcuni uomini che sono creduti e che credo anch’io pienissimi di dottrina, e spezialmente di greco, sono solamente lette; ma in teatro non si sono viste da noi né, m’imagino io, si vedranno mai da’ nostri discendenti. La Sofonisba del Trissino, il Torrismondo del Tasso e le altre del teatro italiano del menzionato marchese Maffei, quelle del dottissimo Gravina, quelle del Salio e molte e molte altre non si sa che sieno al mondo se non da qualcuno che si spaccia letterato, e massimamente quelle del Gravina e del Salio sono andate tanto in disuso ed hanno avuta la sorte sì contraria, che io non credo che si sieno stampate più d’una volta. Eppure vi è chi pretende che sieno capi d’opera fatti con tutti gl’ingredienti di messer Aristotile, avendo sino i loro inutilissimi cori alla greca, e non mi ricordo bene se abbiano le loro belle e buone strofe e le antistrofe e l’epodo; ma basta che le sono alla greca, e sofocliche ed euripidiche spaventevolmente. Tuttavia quelle benedette antistrofe, quegli epodi se mai avessero coraggio di mostrarsi sulle nostre scene, non varrebbe loro [p. 54 modifica]chiamar pietà in greco né in italiano, ché le sarebbono fischiate coi fiocchi. Il cielo le scampi da tanta rovina. Torniamo adesso a quello che io diceva da principio.

Dunque, perché noi abbiamo tre o quattro o cinque tragedie che sono sentite, senza che il volgo sbavigli troppo, alcune poche volte ne’ lunghi carnovali di questa città, noi vogliamo dire che abbiamo de’ Pier Corneli a mazzi? Deh non paragoniamo né per numero né per bellezza le nostre tragedie con quelle de’ francesi, e molto meno le nostre commedie colle loro, ché ci faremo corbellare a’ tempi presenti da chi intende e da tutti i nostri ragionevoli posteri, ché ella è troppo gran bestemmia il voler dire che l’Italia ha de’ Corneli e de’ Molieri. Qual è quel poeta italiano che abbia posti in sulla scena cento bellissimi e diversissimi caratteri di persone, come il Cornelio ha fatto? quale che sia tanto conosciuto da un canto all’altro dell’Europa come il Molière? quali teatrali poeti si sanno mezzi a memoria dalla plebe italiana, come mezzi a memoria si sanno e l’uno e l’altro di questi due immortalissimi francesi dal popolo francese? Via, via, mostriamoci più sinceri, più disappassionati e più retti giudici delle cose nostre, e non facciamo come alcuni che spacciano magnificenza in piazza e poi non hanno del pane in casa. Diciamo che l’Italia è ricca d’un’altra sorte di poesia più pregevole ancora della teatrale; diciamo che nell’epica abbiamo cose e per numero e per varietà e per bellezza molto maggiori di quelle della Grecia e del Lazio; che nessuna nazione antica né moderna, nessuna lingua vivente ha chi si possa porre in linea con Dante, coll’Ariosto, col Tasso, col Pulci, col Berni, col Lippi, col Tassoni e con altri nostri autori di poemi; e lasciamo a’ francesi l’onore del loro teatro e tragico e comico, e ridiamo de’ loro poeti quando pongono mano all’epica tromba, che in quella loro lingua non potranno sonar mai; e non imitiamo i loro poco giudiziosi critici che vengono a criticarci Dante e l’Ariosto e a lodarci il Tasso e il Trissino ed altri poeti senza punto intenderli, biasimando e lodando sempre egualmente a sproposito i nostri poemi, i quali per lo più né hanno que’ difetti che i francesi appongono loro, né quelle bellezze che loro attribuiscono. E sopra [p. 55 modifica]questi due punti io avrei un vasto campo da estendermi e mostrare quai grossi granchi non solamente Bouhours e Boileau, che mai non gustarono questa nostra lingua, han preso criticando, com’io giá dissi; ma degli altri granchi ancora che ha preso Menagio e Chapelain e Regnier ed altri molti che alcun pochino ne intendevano, lodando i poeti e i prosatori nostri.

Egli è ormai tempo, signor conte mio caro, di farvela finita, che forse di soverchio io vi ho tenuto a bada. Verrá per avventura un giorno che porrò in iscritto alcune cose che nella mente mi bollono su questo argomento, e frattanto starò desiderando che vengano all’Italia degli uomini capaci di fare delle commedie e delle tragedie in ottava rima, degne di essere poste a fronte di quelle del gran Cornelio e di Molière. E ben è cosa da farsene infinita maraviglia, che con una lingua cosí propria e per lo stile alto e per lo stile piacevole, non sieno ancora venuti due cervelli capaci veramente di questi due generi di poesia e da potersi porre a rimpetto di que’ due francesi poeti; ma lo scarso numero de’ mecenati che incoraggiscano gl’italiani forse è la principale, anzi l’unica cagione che non si vedono ancora questi tali poeti che io desidero; ché se i mecenati si trovassero, la nazione italiana diventerebbe presto presto superiore, non che alla francese, a tutte le altre nazioni e nelle scienze ed in ogni bell’arte, non che nel teatro, come lo fu ne’ felici antichi tempi de’ romani e ne’ piú felici moderni ancora di Leon decimo d’immortalissima memoria.