Prefazioni e polemiche/II. Prefazioni alle tragedie di Pier Cornelio tradotte in versi italiani (1747-8)/III. Al conte Gioseffo Anton-Maria del Villars Carrocio torinese

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III. Al conte Gioseffo Anton-Maria del Villars Carrocio torinese

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III. Al conte Gioseffo Anton-Maria del Villars Carrocio torinese
II. Prefazioni alle tragedie di Pier Cornelio tradotte in versi italiani (1747-8) - II. Al conte Demetrio Mocenigo primo III. Primo cicalamento di Giuseppe Baretti sopra le cinque lettere del signor Giuseppe Bartoli intorno al libro che avrà per titolo: «La vera spiegazione del dittico quiriniano» (1750)

[p. 57 modifica]Ili Al conte GIOSEFFO ANTON-MARIA DEL VILLARS CARROCIO torinese IL BARETTI Io vi ringrazio, signor conte mio caro, io vi ringrazio assai assai di quelle tante lodi che voi date alla mia traduzion di Cornelio, e a quelle due, non so se io mi dica lettere o cicalamenti, da me posti in fronte al primo ed al secondo tomo della medesima traduzion mia. Né aspettate che io voglia dirvi che io di quelle lodi non son meritevole, o veramente che lo affetto vostro per me fa velo al vostro giudizio, o simili altre ciancie; che anzi quelle lodi io me le beo come vin dolce, e fo ’1 conto che m’abbiano a rifare dall’amarezza di quelle tante critiche che da molti si son fatte e si vanno tuttavia facendo, e qui in Venezia ed altrove, per quanto mi viene scritto, alla traduzione ed alle due prefate lettere. Oh se sapeste quanti e quanti, che si credono saputi in lingua toscana ed in lingua francese, e che da se medesimi si spacciano per valorosi in prosa e in verso, mi vanno tuttodì lacerando! Chi dice che la mia traduzione non è fedele, chi la trova stentata, chi diseguale, chi fredda, chi ’1 morbo che lo colga. Altri si scaglia sulle lettere e grida che io sono un prosuntuoso, perché voglio in troppo giovenile età e, quel ch’è peggio, senza saper punto di greco e con poco di latino in corpo, farmi a dettar leggi, ed anzi magistralmente prescriverle sul fatto del comporre tragedie e commedie, e prescriverle contrarie affatto affatto alle prescritteci da tanti maiuscoli saccentoni. Ma gracchino pure costoro, gracchino pure a lor posta, che io non li curo un fico quanti e’ sono, [p. 58 modifica]poiché voi, signor conte, vi unite con molti altri galantuomini, e senza che io ve ne preghi (che sarebbe soverchia pazzia, se mi fosse pure caduto in mente di farlo), voi, dico, lodate egualmente e la mia maniera di pensare e la mia foggia di esprimere e gli altrui e i miei pensamenti. Io ve ne ringrazio, io ve ne ringrazio, torno a dirlo due volte, e delle lodi vostre io mi fo bello bello e meco medesimo me ne compiaccio, me ne congratulo e me ne rallegro.

Adesso mò che ho fatto il debito mio per le lodi che voi mi date, io me ne verrò, signor conte, il più brevemente che saprò farlo, a risolvere quelle piccole difficoltà che voi dite di avere ancora sul principal punto del mio forse nuovo sistema di tragedie e di commedie, secondo il quale e le une e le altre debbono esser dettate in ottava rima, anzi che in verso sciolto le prime e in verso sciolto o sdrucciolo sciolto le seconde. Ma permettetemi che io trascriva qui, per chiarezza maggiore di quello che m’apparecchio a dirvi, quel paragrafo della ornatissima lettera da voi in questo proposito scrittami, nel quale voi dite cosi:

Tant’è: io non so a chi io mi debba credere, se a voi o al famoso Dryden poeta inglese. Questi scrisse molte cose sue teatrali in rima, eppure di questo, come di cosa da lui fatta contro il buon senso, si scusa e dice ch’e’ s’è assoggettato alla rima per accomodarsi al cattivo gusto de’ suoi tempi. E voi scrivete le vostre tragedie in verso sciolto, e poi vi dichiarate acre difensore della rima? E a qual di voi ho io a credere? Oh quanto avrei caro v’intendeste di lingua inglese, che io vi esorterei a leggere la prefazione di quel poeta alle Egloghe di Virgilio, e un’altra opera del signor Spence, professore di poetica in Oxford, mio grande amico, nel suo libro intitolato: An essay on mr. Pope’s «Odissey»! E spiacemi che io non ho tempo d’inserire in questa mia le loro ragioni contro l’uso della rima ne’ teatrali componimenti. La sola ragione che io voglio ora arrischiare con voi è questa. Io ho sempre creduto che in una tragedia e in una commedia debbasi supporre che i personaggi parlino ex tempore, e che quanto meno comparirà, anzi quanto più scomparirà e svanirà il poeta in quelle, tanto più l’una e l’altra sarà perfetta; la maggior arte del poeta dovendo [p. 59 modifica]

esser quella d’ ingannarci a segno che noi crediamo poco meno che vedere e sentire realmente Cesare, Pompeo, Catone, Semiramide, Cornelia, nella tragedia; e il signor Anselmo e Trafurello e la signora Isabella e madonna Pocofila, nella commedia.

Eccovi il vostro paragrafo, al quale io verrò cosi rispondendo.

E qui, per farmi, dirò cosi, da capo, bisogna prima che noi convenghiamo di una cosa, cioè che il teatro vuole poesia e non prosa. Io credo che né da voi né da altri mi sará contrastato questo punto, dietro l’esempio e dietro la sperienza che noi ne abbiamo dagli antichi e da’ moderni teatrali poeti di ogni nazione; conciossiaché i greci, i latini, i francesi, gl’italiani ed altre nazioni hanno fatte le loro tragedie e le loro commedie in poesia e non in prosa; la sperienza poi l’hanno fatta a loro danno molti francesi e molti italiani, i quali ne hanno per loro mala ventura scritte alcune in prosa, che, invece di riscuoterne laude ed applauso, biasimo e dispregio e dimenticanza riportato ne hanno, comeché alcuni abbiano fatto qualche buona o tragedia o commedia, e secondo tutte le buone regole di messere Aristotile. Di questa cosa gli è vano che io vi rechi esempio, imperciocché e voi e tutto il mondo sa che questa è cosa vera verissima. Dunque, torno a dire, il teatro vuole assolutamente poesia, non prosa.

Ciò posto, io la discorro cosi. I gravinisti e i due inglesi da voi citatimi, che per oggi io considererò come due gravinisti belli e buoni: i gravinisti, dico, pretendono non solo che la rima rechi alterazione alla natura, ma che anzi la tolga affatto affatto dalle poesie teatrali, perché, dicono essi, gli uomini non parlano comunemente in rima; onde conchiudono, senza piú, che la rima viene ad essere contro natura. Questa è la sustanza, e questo in poche parole è tutto quello che contiene il vostro sopra riferito paragrafo di lettera. Al che io rispondo che questa parola di «natura» è male da’ gravinisti intesa, imperciocché eglino confondono due nature in una. Altro è, com’io penso, natura di parole, altro è natura di poesia. La natura delle parole è vero che consiste nell ’esser quelle senza rima; ma la natura poi della poesia (io parlo adesso della poesia italiana) [p. 60 modifica]

consiste nelle parole rimate, cioè in versi rimati ; e poiché detto abbiamo che il teatro non vuol prosa ma poesia, ne viene in conseguenza che la rima ne’ componimenti teatrali non toglie la natura, perch’ella è naturale alla poesia e non mica contraria, come inavvedutamente i gravinisti affermano.

Non so se io mi abbia espressa bene questa distinzione che io faccio di queste due differenti nature; ma basta, supplite voi col vostro ingegno, ed intendetemi, a un bisogno, per discrezione.

Facilissima cosa è il mostrarvi che la rima è naturale alla nostra poesia. Basta esaminare i nostri poeti i piú antichi, í quali, nel nascere della lingua nostra, lasciandosi portare dalla natura, scrissero tutti le poesie loro con la rima. Dante da Maiano, Guitton di Arezzo, Gino da Pistoia, l’altro divino Dante, tutti tutti insomma i nostri antichi poeti, lasciandosi, come io dissi, portare dalla natura della lor lingua che facea loro forza, senza ch’eglino né anco se ne avvedessero, scrissero colle rime i lor versi, malgrado l’esempio de* greci e de’ latini, da molti di essi intesi benissimo ed imitati. Dunque lo scrivere in poesia con la rima è secondo la natura e non contro la natura. Dietro gli antichi nostri poeti sono andati tutti i loro successori : dico quelli che hanno acquistato fama maggiore, e lirici e satirici e epici e gravi e burleschi, senza badare, come i loro antecessori fatto avevano, ai greci ed ai latini. Un’altra prova fortissima ne viene somministrata dagl’ improvvisatori di Toscana, che la natura della nostra poesia vuole la rima. Nessuno di quelli si è mai sognato, ch’io sappia, di cantare all’improvviso de’ versi senza rima; e non potendosi in alcun modo negare che la natura non sia quella che fa gl’improvvisatori, ne viene in conseguenza che i versi senza rima sono contrari alla natura della nostra poesia, e non giá i versi con la rima, i quali anzi sono quelli che essa natura richiede; e ridicolo si renderebbe uno improvvisatore cantando de’ versi sciolti, perché ridicolo è tutto quello che è contro la natura, come lo sono i versi senza rima. Eccovi dunque provato, pare a me, sufficientemente che le cose teatrali italiane sogliono essere rimate, quando voi concedete che il teatro richiegga poesia e non prosa. [p. 61 modifica]

I nostri piú antichi poeti toscani conobbero tanto bene questa veritá, o vogliam dire, furono cosi violentemente rapiti dalla natura della loro lingua, che ogni loro cosa teatrale in terza o in ottava rima dettarono; e potrei nominarne alcuni de’ quali ho viste a questi passati di alcune commedie e rappresentazioni tutte in rima. E queste operette, che sono molto antiche e molto rare e difficili a trovarsi, me le fece vedere un mio gentile amico, il quale, essendo della mia opinione su questa cosa della rima, mi volle suggerire quest’altra ragione; e voi medesimo, signor conte, che contro il mio dogma comprate i libri piú rari e di piú caro prezzo, massimamente toscani, quando ve ne vengono alle mani : voi, dico, forse avrete queste antiche teatrali cose, delle quali io qui vi faccio motto, e fra le altre forse avrete quelle de’ Rozzi da Siena, i di cui nomi e frontispizi io qui non trascrivo, perché sarebbe cosa da pedante il mostrar erudizione fuor del bisogno.

E invano gli ostinati gravinisti vanno schiamazzando che assolutamente il teatro vuole, per cosi dire, la natura nuda nata, cioè a dire prosa schietta schietta, che anzi ella vuole assolutamente che le cose sue sieno dette con parole poeticamente disposte; e se i greci e i latini hanno scritto senza rime le cose loro, ciò è avvenuto perché la rima era contraria alla natura della lor lingua, la qual cosa non è nella poesia nostra, la di cui natura, siccome io ho dimostrato, richiede la rima, senza la quale diventa una poesia contro natura piuttosto che naturale.

Questa cosa della rima nella poesia io la ho per tanto naturale, che sarei quasi per affermare che tutte le lingfue colte di Europa moderne vogliono necessariamente la rima nelle lor poesie, né piú né meno che la italiana e la francese, le quali richieggonla assolutamente; e principalmente la francese, che non può far senza in nessuna sorte di componimento poetico; e se l’italiana può soffrire alcun verso o sciolto o sdrucciolo, non lo soffrirá mai che in componimenti brevi. E se alcuna volta si è veduto qualche tragedia o qualche commedia in verso non rimato aver qualche fortuna in teatro, si dee piuttosto attribuire agl’interrompimenti degl’interlocutori, alla loro bravura nel [p. 62 modifica]

recitare, alle decorazioni e ad altre somiglianti cagioni, che alla loro non rimata poesia, la quale secca necessariamente ognuno che pizzichi un tantino di poeta, che non potrá mai leggere con non interrotto piacere qualunque piú celebrata nostra tragedia o commedia, checché ne dicano i gravinisti, niuno de’ quali, per mio avviso, è stato neppur mediocre poeta; né di questo bel nome saranno mai degni coloro i quali vorranno preferire il magro verso sciolto o il magrissimo sdrucciolo ai versi rimati. Torniamo a bottega, cioè torniamo a dire che forse nessuna colta lingua vivente può stare senza rime nelle sue poesie; ed io vi so dire, signor conte, che da piú di quattro inglesi ho sentito pensare del Paradiso perduto di Milton quello che io penso della Italia del Trissino, cioè che ha molte bellezze ma che noia e secca infinitamente. Parrá troppa arditezza la mia in dire che tutte le colte lingue viventi voglion la rima nelle lor poesie, non intendendone io che tre, l’ultima delle quali, cioè la spagnuola, non molto perfettamente; ma dicami pure ardito e peggio chicchesia, che forse v’avrá chi sará della mia e che le mie conietture avrá per belle e per buone e per ben fondate; e quello che mi ha mosso a pensar cosi gli è il sentire che oltre agli inglesi, anche i tedeschi, gli olandesi, i polacchi e gli schiavoni e i moderni greci e i moscoviti e i turchi medesimi rimano le loro canzoni ; la qual cosa io posso affermar con sicurezza, poiché di alcuni son testimonio di udito e degli altri l’ ho sentito assicurare da piú e piú persone degne di fede. Il che prova esser falsa falsissima quella cosa che si è detta da alcuni gravinisti, che la rima sia stata una invenzione monacale ne’ secoli barbari; e forse questo sarebbe un campo vasto da far pompa di molta erudizione: dico il mostrare che la rima anche dalle piú antiche non che dalle moderne nazioni era usata; e non mi ricordo bene se io m’abbia letto o sentito dire che sino gli antichi ebrei la usavano nelle poesie loro. Ma l’entrare in questo ampio mare non lo posso giá far io, che mai non mi sono addomesticato con que’ lontanissimi morti, essendomi anzi sempre piú dilettato di stare in brigata coi vivi, comeché riputati meno pregni di dottrine. Or questa mia coniettura vaglia per quello ch’ella può valere, e noi tiriamo avanti. [p. 63 modifica]

E qui, signor conte, permettetemi che io torni a replicare quello che in altre mie scritture ho giá detto, cioè che il»Trissino non è tanto gradito né tanto letto quanto gli altri nostri eccellenti poeti epici, per questa ragione della poca natura che si trova ne’ versi della sua Italia, i quali, non essendo né rima né prosa, vengono a riuscire un certo imbroglio che non ha natura né di prosa né di poesia. E per questa stessa ragione i nostri poeti teatrali non sono a mille miglia tanto riputati nella nostra Italia, quanto lo sono i francesi nella lor Francia, perché nei nostri non si trova la natura che si trova pure nei poeti francesi teatrali, i quali hanno la rima, di cui sono privi i nostri. Né malaccorti sono stati i poeti francesi come i nostri, avveg^naché senz’andar tanto studiando di trovare de’ versi corrispondenti ai giambi, seguendo il genio ed il carattere della loro lingua, hanno trovati que’ loro versi di dodici sillabe e di tredici alternativamente, i quali fanno un bellissimo suono con quelle loro rime masculine e femminine, come essi le chiamano. Gli è vero che alcun italiano non trova in essi quell’armonia che veramente hanno, e dice che togliendo la rima ai versi francesi rimarrebbono prosa schietta; ma chi cosi dice dee per certo o pronunziare molto male la lingua francese o avere il timpano dell’orecchio molto male organizzato.

Non so se io lo potrei giurare, ma credo di si, che quei versi sciolti, tanto cari a’ gravinisti, non sono stati trovati prima del Cinquecento, che vale a dire piú d’uno e piú di due secoli dopo il nascimento della lingua nostra. Ma come va questo, che tanti valorosi poeti nati prima del verso sciolto sieno stati tutti di cosi poco ingegno di non trovar neppure una maniera di fare de’ versi nella loro lingua, molto piú facile (e piú naturale, soggiungerebbe un gravinista) che non la usata sino allora? come va questo? Eh, gravinisti gravinisti, non mancava ingegno a quei nostri antichi poeti, che anzi e’ n’avevano piú di voi; ma e’ sentivano bene internamente la forza della natura della rima, che voi pure sentireste se le muse vi fossero un po’ piú amiche che non vi sono, comeché voi crediate risolutamente averle per compagne e per comari. [p. 64 modifica]

E per fare ancora due parole dell’inglese Dryden, voi avete a sapere, signor conte, che da un certo gentiluomo scozzese, detto il signor Guglielmo Canvane, uomo di molto senno e dottrina e intendente della lingua nostra e della francese, mi fu detto che quel Dryden ha nelle sue opere teatrali fatto un miscuglio di prosa e di poesia, cioè ch’egli fa parlare i principali personaggi delle sue tragedie e commedie in rima e gli altri in prosa; la qual cosa, se vi riflettete su bene, non è una prova mediocre in favor della rima e che conferma sempre piú il mio nuovo sistema, se nuovo si ha pure a chiamare; quantunque la lingua inglese, per quanto mi soggiunge lo stesso signor Guglielmo, piú assai amica sia del verso sciolto che non la italiana, la quale, come dissi, non lo soffrirá mai volentieri che in componimenti brevi.

Voglio ancora dirvi un altro pensiero mio; ed è, che tanta natura in sul teatro non so se la si stia tanto bene quanto i gravinisti pretendono, che vanno sempre schiamazzando: — Oh la vuol essere natura, natura la vuol essere, — Un poco di arte, o di cosa che non sia natura pura e schietta, pare a me che faccia molto bene alle tragedie specialmente, nelle quali io non credo indispensabil cosa e sempre necessaria il mostrare tanta natura d’espressione; anzi tengo per fermo che i versi, veramente versi, nobili, pomposi, alti e pieni de’ piú sublimi quantunque talvolta un po’ ricercati pensieri, e per dirla in una parola, un po’ del lirico nel poeta tragico, io tengo per fermo, dissi, che non che far male a una tragedia, le faccia un bene grandissimo; e per questa ragione ho sempre creduti poco accorti que’ francesi che biasimano la descrizione della morte di Ippolito fatta da Teramene nella Fedra di Racine, perché, dicono costoro, quel racconto è lirico e fuor di luogo. Ma che importa? Gli è un poco contro la natura quel racconto, ma piace a’ poeti e a’ non poeti e a tutti e a’ critici stessi suoi; onde perché rompersi il capo a biasimarlo? Supponendo dunque che la tragedia, quando si sappia fare con giudizio, possa soffrire qualche coserella non tanto in natura, io dico che i versi sciolti forse potranno un di mostrarsi anche con buon viso in sul teatro tragico, quando [p. 65 modifica]

verrá poeta tragico in Italia che sia veramente un gran poeta, e potrá forse usare i versi sciolti in tragedia anche per questa ragione, che sono men naturali in poesia che la rima; comeché poi io pensi sempre che la buona tragedia rimata fará sempre in teatro miglior effetto che la egualmente buona non rimata.

Ma per oggi io sono stanco di piú favellare su questo proposito, onde faccio pensiero di venire stringendo il sacco e di accostarmi al fine di questa ormai troppo lunga lettera.

Diciamo solamente ancora che se alle da me recate ragioni avesse posto mente il Dryden, facilmente gli sarebbe passato il dispiacere che provava in dover pure scrivere le sue cose in rima; e il vostro amico Spence anch’egli si sarebbe rimosso dalla sua opinione, e piú di questi due inglesi averebbono schifato i versi senza rima tanti nostri italiani e non gli avrebbero tanto a sproposito lodati. Ma il male è che quasi tutta quella buona gente che sa o che crede di sapere di greco a’ tempi nostri, non vuol gustare alcun cibo il quale non abbia la sua buona salza di greco; e con le loro grecherie benedette vanno fuori di strada e, quel che è peggio, vi tirano anco grecheggiando que’ che non ne sanno, e camminano con quella benda greca sugli occhi che loro non lascia scorgere il buono e naturai cammino; e sono cosi briachi delle loro anticaglie greche, che credono una bene accesa lanterna, che loro faccia un bellissimo lume per via, quell’aristotelico candelotto di cera gialla che sempre portano in mano. Invece di studiare la natura della lor lingua vogliono arrabbiatamente modellarsi sugli antichi, e poi le scritture loro grechissime se ne vanno dal pizzicagnolo o se ne stanno a far la muffa nelle librerie; e poi gridano e si scatenano come spiritati addosso al secolo, e gli dicono ogni villania, e vogliono a marcia forza che il comune degli uomini sia senza un’oncia di discernimento e di gusto, perché non discerne e non gusta le loro stupendissime pretese bellezze.

G. Baretti, Prefazioni e polemiche.