Ricordi delle Alpi/Parte Seconda/VIII

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La lettera di Riccardo

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VIII.

La lettera di Riccardo.

— Oh, mio buon padrone, perchè vi costernate così?
— Caro Giacomo, non lo vedi? Cotesto sigillo nero mi rivela, che l’amico diletto mi ha abbandonato per sempre....

L’ombra d’annosi castagni, la bella distesa di cielo, la moltiforme scena, la quiete del luogo e dell’ora, quel tutto di armonia e di vaghezza, che ci si parava dinanzi, ci aveano raccolti per modo nelle nostre idee, che [p. 98 modifica]amendue, mia sorella ed io, taciti ci sedemmo senza profferire parola.

Si stette poco tempo così, paghi di discorrere e, volgendo lo sguardo a destra ed a manca, frugatomi quasi meccanicamente nella tasca laterale dell’abito, ne trassi fuori il portafoglio.

Allora mi rivennero le idee, sebben d'altro colore, e pagai col cuore un tributo di santa amicizia. E che mai vennemi in mente in quella dolce quiete? — Pensai a te, Enrico, a te che dividesti meco giorni sì belli, lusinghieri e soavi. Pensai a’ confidenti parlari, alle splendide e vive speranze, agli onesti proponimenti, ai moti d’un amore puro e gentile, alle fallite promesse; e mi rammentai della natìa tua Mantova, che tanto affettuosamente sospiravi. Chi me lo avrebbe detto, Enrico, che io t’avrei rammentato con tanta pietà in questa valle?

Mi diedi a sfogliare, e ne trassi una lettera listata di nero: pur troppo erano i suoi carissimi caratteri!

— Che hai? chiesemi la sorella, sei commosso e tutto rannuvolato.

— Memorie, risposi, che non possono, certo, farmi stare allegro.

— Nè si potrebbero sapere? ripigliò; se non è indiscrezione.... [p. 99 modifica]

— Tutt’altro, sai che non amo misteri, nè qui occorre; vuoi tu udire questa lunga lettera?..

— Passeremo più presto l'ora....

— Quand’è così...; e lessi quanto segue:

«Mio caro amico,

Nessuno quaggiù ha diritto alla felicità, perchè essa non è di questa terra. Sovente le illusioni, che sono il balsamo della esistenza, bastano a sostenerci contro i mali estremi, sì che, sempre inteso al tuo fine, procedi ilare di speranza e di piaceri. Ma basta un istante a rompere quell’incantesimo: — credevi essere lì presso la vittoria, e sei prossimo alla fossa. Così la vita: — un’ombra, un fulgor d’un momento!

Mi hai sempre detto, carissimo amico, l’uomo non doversi affidare al piacere; mi insegnasti che i disinganni sono così inevitabili, che è necessaria di molta virtù per trionfarne; e non parlasti invano. — Eccoti oggi la spiegazione di questo proemio a tinte nere, che, se è prova della giustezza del tuo modo di vedere e di giudicare, è pure testimonianza del turbamento del mio spirito e delle amarezze del mio cuore.

Che vale piangere? bisogna opporre la [p. 100 modifica] fortezza dei proponimenti e il vivo desìo del bene alle persecuzioni della fortuna. Chi ci avrebbe detto, che avremmo pianto sì presto un tanto amico? Non è egli vero, che la morte è più dolorosa e più cruda, quando miete le vittime nel campo della gioventù? Ma ecco, mi hai già compreso, e certo indovinasti per chi sono queste lagrime: sollévati, sollévati! s’egli è morto, rimane la memoria delle sue virtù, la religione dei comuni affetti.

Povero Enrico, com’è passato avanti tempo! Ma se è duro morire tra i sogni della giovinezza e l’energia della virilità, allora che l’avvenire sorride in faccia con tutti i suoi smaglianti colori; se è duro morire quando, vinte le lotte del cuore, resta la speranza della quiete e il diritto di onesti piaceri; se è amaro trapassare senza intieramente veder libera, indipendente e una la patria; la coscienza di avere adempito il proprio dovere è pure nobile e singolare soddisfazione.

Povero Enrico!

Gli estremi suoi sospiri furono per la patria; le ultime sue parole furono per l’amicizia; e l’ultima ispirazione dell’animo, figlia dell’amore.

— Muoio lieto e tranquillo, mi diceva in quei supremi momenti, con la coscienza d’italiano; pure, vedi, mi pesa — ed accennava [p. 101 modifica] il cuore — una grave cura — Sono dieci anni, che più non vidi la nativa mia Mantova; dieci anni che non m’è dato stampare un bacio sul volto della povera madre, e dell’amata e gentile sorella!... Quando le lasciai per varcare il Ticino, cercando asilo in Piemonte, ero baldo e fidente nelle mie forze di venti anni; mia sorella tutta gioconda della prima adolescenza, già bella e serena come un angelo. La madre, poverina! gemeva di vedovanza immatura, non essendo ancora passati tre mesi, che mio padre aveva lasciato la vita fra’ ceppi nelle segrete di Josephstadt: quant'amarezza in queste rimembranze! — Ci siamo desti, ma non abbiamo compita l'opera: chi ce lo avrebbe detto? Pazienza.... or mi sento mancare; ma in questo momento ho anche un’ultima preghiera a Dio per la liberazione di Venezia e di Roma....

— Una volta sotto le mura di questa ho dimenticato i lutti della famiglia e del paese: era giusta ragione d’orgoglio; astergemmo due macchie, Custoza e Novara,... e di più si sconfiggevano i Francesi, repubblicani contro Roma repubblicana.

— A San Pancrazio li ho visti fuggire cotesti guerrieri del medio evo, consolazione ineffabile della vita, soldato di Garibaldi, primo dei valorosi; e a Velletri il Borbone [p. 102 modifica] cercare uno scampo nella viltà della fuga. Ma Roma e Venezia furono le ultime a tenere alta la bandiera italiana, e ora eccole sole a piangere, l’una fra le catene dell’Austria, l’altra sotto il mal governo papale.

— Mi duole il morire senza aver soddisfatto tutto il debito mio per si degna causa; e mi si rompe il cuore al pensiero de’ miei.... lontani, e alla necessità di abbandonare te e l’amico. Del resto, sieno grazie a Dio, che si compiace togliermi ai tanti mali di questa terra....

Io gli porsi parole di coraggio e di speranza; ma e' crollava il capo con quel suo fine ed amaro sorriso, e mi diceva:

— Che? temo io forse di passare al di là, dove il libro del bene e del male aprirammi le pagine di sua immortale scienza? spesso, mentre taceva il labbro, il cuore si compiaceva altamente di rivolgersi a Dio, e di vivere in lui gli arcani momenti dell’ispirazione sincera e feconda.

— Te lo confesso, non ho mai creduto a un Dio che fosse un inflessibile punitore, vendicatore tremendo di nostre colpe finite; non ho negato fede al castigo, ma adorai un padre misericordioso, un giudice mite, un Salvatore: egli è amore e bontà.

A che temere? Fui uomo: abborrii dalla [p. 103 modifica] menzogna, non mi sono mai rôso d’invidia; la mia mano non s’è stesa sullo altrui; alla fama del prossimo non recai offesa, e l’amore dell’umanità mi parve il più bello, dopo quello di Dio, o mi parve bello come il suo: per tutto il resto, lo dissi, fui uomo. Perchè spaventarci dell’avvenire?

— Il passato non esiste, il presente sta per finire: che resta? il frutto delle opere. Sono poche le mie, e potevano essere migliori; ma ho fede nella bontà di Lui, ch’è il tutto, che soffrì e operò per la umana famiglia: per questo mi avvolgo tranquillo nel lenzuolo della morte. Dio ha creato l’uomo per farlo felice!

Io gli giaceva seduto accanto alla proda del letto; pareano lontani da lui i segni precursori della dipartita finale.

Il viso smunto e bianco come lin di bucato, e vi si leggeva quella quiete e serenità, che non abbondano mai i forti spiriti nelle più difficili prove: gli spirava intiera dallo sguardo la sua bell’anima, come ne’ pochi momenti che passammo insieme fra i graditi conversari della più schietta amistà. Solo la voce cominciava a scemare e ad infrettersi rauca: tutta la vita si raccoglieva nel cuore, centro di tanta bontà ed affetti. — Povero Enrico!

Or, come descriverti la commozione di [p. 104 modifica] quel momento? Credo misurarla dall’affanno onde sarai preso alla lettura di queste pagine; e sento che sarebbe vano ufficio della penna mettersi a mitigarlo.

In quegl’istanti, Enrico pareva seguire un nuov’ordine d’idee: mi strinse con intenso affetto la mano e, guardandomi dolcemente: — Che fai? dissemi mezzo crucciato, piangi?

M’asciugai col dorso della sinistra le lagrime, e: — Lo vedi, sono qui, risposi sforzando un sorriso, ad ascoltarti.

Scrollò mestamente il capo, poi proseguiva: — Scaccia ogni debolezza dal cuore; questa separazione è penosa, ma dee mitigarsi ai pensiero ch’è breve e temporanea, anzi, che non è che apparente.

— Lo spirito, che si scioglie dal corpo, vola al Bene, nè rimane straniero e morto ai suoi cari: sopravvive nelle sue opre, nella virtù degli affetti, nelle influenze arcane della vita stessa; di venta messaggiero gentile tra un mondo che fugge e un mondo che si apre: aleggia farfalla d’un amore che si trasmuta e s’inciela, per confondersi nel supremo e più potente centro d’affetti, Dio.

— L’amore! eccoti una parola che mi passa sulle labbra come vampa di fuoco (e qui la sua voce infiochì, e tutto si commosse); [p. 105 modifica] amore! Sai chi rammento in questo solenne istante? Lei,... ancora lei.... Certo, il passato avrebbe potuto arridermi più amico; che importa? prossimo a deporre il fardello della vita, l’animo si spoglia delle debolezze umane, e risente la superior sua natura. Amai, potentemente amai...; fu dovere l’obblio, e non fu poco;... ora è religione il perdono....

— L’uomo e la donna, questi due nobilissimi atomi dell’universo, possono trovare tutta la loro felicità nelle pure gioie del cuore; vedi, non ho mai creduto tanto come quando amai: è giusto, perchè l’amore è una preghiera che insublima e consola. — Il dolore ha percosso lo spirito, ma la solitudine mi ha ridato la calma e la quiete, e infine la speranza.

È forse vero che le forme di una perfetta bellezza racchiudano sempre un'anima nobile e delicata? Lo dicono, sebben ne dubiti assai; ma è vero, che nell’ora della morte non dobbiamo avere un pensiero, che non sia obblio, amore e perdono!

— Come passa la vita!...

Io piangeva forte; ed Enrico, incapace a reggere a tanta piena, die’ pure in pianto.

Feci violenza a me stesso per trovare qualche buona e opportuna consolazione, ma [p. 106 modifica] la parola fallì; tacqui: che cosa dire? Allora ricorsi col pensiero a te, e desiderai che tu fossi a condividere l’addio solenne di chi stava per abbandonarci per sempre. E mi figurai poi il tuo dolore, si ch’e’ indovinò il mio pensiero, e disse: — Pensi al comune amico, non è vero?

— L’hai detto.

— Io pure. Oh, soave dolcezza lasciare la vita nelle braccia di veri amici! L’amicizia è profumo che dissipa e scioglie ogni nube di noia e d’affanno. Non vi è amaritudine che l’affetto d’amico non addolcisca; non difficoltà che non valga a mitigare. E noi ci amamrao più assai che non leghino i vincoli del sangue; ci amammo per arcane ragioni di mente e di cuore; stessi desi, identiche idee, aspirazioni comuni. Per questo i cuori vissero costanti nella fiducia dell’avvenire, piansero delle ignominie della patria, palpitarono e gioirono del suo risorgimento, e fecero i più bei sogni di sua futura grandezza.

— Ora la lontananza di lui apre gran vuoto nel mio cuore, e sento quanto sia amaro non averlo accanto. Porse meglio così: sarebbe stata troppo grave ferita il destino di questo giorno.

— Gli scriverai la storia di questi momenti, [p. 107 modifica]e lo conforterai a fortezza: — gli darai il bacio della mia suprema dipartita, il finale addio; lo assicurerai, che la sua immagine non abbandonò mai il mio capezzale nell’ultimo sospiro.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Il dì volgeva a sera; i nostri parlari continuavano brevi, a intervalli, tranquilli sulle cose della patria e dell’amicizia; più di tutto giungevano meste alla mente di lui le vicende del passato.

Volle ch’ogni suo scritto fosse abbruciato pria di chiudere gli occhi: e così furono distrutte le sue lettere e molti schizzi letterari, ch’ei si compiaceva vergare nelle ore di solitudine. Morto, fu soltanto rinvenuto un piego al tuo indirizzo, ch’io mi faccio sacro debito d’unirti alla presente: la data appostavi lo mostra vecchio di alcuni anni; — con ciò penso d’avere religiosamente adempiuto l’ultime sue volontà, assicurando la spedizione di queste carte.

La prostrazione di sue forze facevasi ognor più evidente; le ultime tinte del crepuscolo avevano cessato di abbellire i contorni delle montagne.

Dacchè tu ci lasciasti, aveva mutato due volte dimora: ma l'ultima era stata affatto consona al suo gusto e alle sue idee; e credo [p. 108 modifica]prevenire affettuosamente il tuo desiderio con fartene qui un cenno.

Era sita al quarto piano d’una magnifica casa, nella salita degli Angioli: non sarebbe forse stato possibile trovare più bella postura di questa in tutta la città. Dall’una delle due finestre si gode lo spettacolo splendido del ligustico mare; a occhiata abbracci il porto e una selva infinita d’antenne, di pennoni, di vele, di bandiere e di fumaiuoli delle caldaie dei vapori. — La riviera di ponente mostra l’amabile varietà de’ suoi seni, delle sue valli, de’ suoi monti; e soprattutto quell’unico panorama, che da San Pier d’Arena si stende alla industriale città di Voltri. A manca, il levante ligure e i vaghi contorni delle coste toscane: di fronte la Corsica e la Sardegna, gemine elettissime sorelle di questo che un dì i padri dissero mare nostrum, divise ora da prepotenti destini. Sotto gli occhi l’anfiteatro dell’intiera città, tanto bella nella varietà delle sue costruzioni, nello splendor dei suoi monumenti, nella ricchezza dei suoi negozî, nella facilità dei suoi commerci.

La finestra che volge a tramontana, ha d’innanzi tutta la semicircolare catena di monti su cui torreggiano i forti a difesa di questi regina vaghissima delle Riviere.

Ampia e rettangolare la camera d’Enrico [p. 109 modifica]e l’eleganza de’ mobili risalta per la stessa loro semplicità: un canterano con uno specchio a bilico sul piano; da sei ad otto sedie di Chiavari; un piccolo armadio da allogarvi i libri; un tavolino di noce presso la finestra a tramontana, su cui scorgi tuttavia carte d’ogni ragione, e i suoi prediletti autori. Un letto di ferro e il tavolino da notte compiono la suppellettile; le pareti, nude di pittura e di fregi, ma bianchissime come latte. Appeso a capo il letto sta un bellissimo crocifisso dalla croce nera, memoria d’uno dei più valenti nostri artisti.

E’ s’era fatto collocare in modo da vedere il mare, la più bella delle maraviglie, dopo il cielo: tre giorni prima di morire, io era andato a visitarlo all’ora del tramonto. Il sole gittando ancora a fasci i suoi raggi sulla mobile superficie delle acque, offeriva uno spettacolo da svegliare un monde di sensazioni arcane e religiose: uno spiro d’amore diffondeva la calma e la fragranza di mille fiori nell’atmosfera, e solo alcune nuvolette dal colore di porpora sfumavano lente lente sui fini dell’orizzonte.

Credendolo in braccio del sonno, spinsi con precauzione la porta, ed osservai: la finestra verso il mare era aperta, ed ei, seduto sul letto, stava fiso fiso in quello. Pettinati i [p. 110 modifica]capelli, rasa la barba, disciplinati ed acconci il barbettino alla Wandick e i mustacchi, infilato il suo camiciotto rosso, le mani conserte al seno, era di quelle attraenti figure, che rispondono alla più esatta manifestazione del tipo italiano.

L’artista innamorato del creato lo salutava per l’ultima volta.

Mi appressai dolcemente al letto senza far motto; e’ mi stese la mano, e mi si volse con riso tanto rassegnato, che non potrei descriverti con la penna.

— Che pensavi, gli chiesi, Enrico? Non rispose, e di nuovo spinse lo sguardo nella direzione di prima; distese il destro braccio e coll’indice indicava....

Io non comprendeva.

Ed egli: — A Caprera, ove giace il Leone ferito; a Nizza,... ghermita; a Roma...; e si tacque. Poi gli occhi gli si velarono.

Lo abbracciai e baciai ripetutamente, e per alcuni istanti il mio labbro non valse a profferire parola.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

È notte alta: da qualche ora il labbro d’Enrico rimane muto; il respiro gli esce dal petto affannoso, e spesse goccie di sudore gli bagnano la fronte. Tuttavia il pensiero trapela dal suo sguardo, ed ei non cessa di tenere [p. 111 modifica]la sua nella mia destra, manifestandomi con deboli compressioni gli amorosi moti del cuore.

Tutte le cure che l’arte può somministrare, gli vengono con cura studiosa apprestate dai famigli e dalla padrona di casa. — Io mi ritiro per poco.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Ritornai presso di lui, e vi rimasi sino all’ultimo respiro: la sua mente era sempre libera, il parlare difficile. Verso mezzanotte volle sedersi sul letto, e noi lo adagiammo con tutta cura: all’appressarsi del mattino parve gli fosse ritornato un po’ di forze; non era che l’ultimo brillare della fiamma vitale: poco dopo disse: — È l’ora, la sento: ricordati di me.... quando non sarò più. Scrivi per me all’amico.... e narragli questi addì.... Là, a Staglieno, mi si seppellisca in alto... lassù nella collina, a destra.... Nelle urne de’ corridoi, no: amo l’aria libera, il raggio benefico del sole, la rugiada, le pioggie, i venti.... È così bello riposare sotto l’aperto cielo!

— Lo sai, una croce sulla nuda terra mi basta; e ogni anno, nel dì dei morti, aspetterò una corona di semprevivo, simbolo di vita immortale. Non mi rifiuterete questo dono, non è vero? [p. 112 modifica]

Un forte singhiozzo fu la mia risposta; poi continuò fioco e solenne.

— Oh!... ecco l’altra vita.... Come sentomi leggiero!... Se di là i destini umani sono conosciuti, scenderò sul tuo capezzale per aprirti que’ della patria, e i miei....

Alcuni momenti dopo, Enrico era spirato.


Eccoti una storia ben dolorosa, amico; te l’ho narrata in tutta la sua integrità per debito di coscienza, per religione di affetti: la sventura accadde or sono otto giorni, ma io te ne differii l’annunzio perchè se ne mitigasse alquanto l’amarezza dello spirito.

Lo seppellimmo poveramente, con l’umiltà di chi crede e di chi spera. Un drappello di conoscenti e d’amici si raccolse sulla sua tomba e gli diede l’ultimo vale; poi vi piantammo la croce, che dice il suo nome e segna una data....

Sia pace alle sue ossa!

Amen!

Addio, carissimo, sta sano, e raccogli dal dolore alimento di forza e di perseveranza: rammentami, e sii certo che ho sempre la tua immagine nell’anima e nel cuore. Vale.

Genova, 1° settembre.

Riccardo.»

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Tacqui: diedi un’occhiata a mia sorella e vidi che, pallida e commossa, si asciugava le lagrime, che le cadevano copiose dalle guancie.

Io posai il capo fra le mani e, smemoriato, contemplavo la lettera spiegazzata sulle ginocchia: i tocchi della campana della parrocchia mi tolsero da quelle meste riflessioni.