Rime (Andreini)/In morte di Damone

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In morte di Damone

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Sonetto CXCVI Hielle piange la madre
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IN MORTE DI DAMONE.


C
Hi viver può sotto l’immenso peso

Del grave duol de la tua morte acerba,
     Securo può del Mauritano Atlante
     Lo ’ncarco sostener di tante stelle.
     Forman questi occhi un pelago di pianto
     Pensando (ohime) che più veder non ponno
     Damon terror de’ Lupi, honor de’ boschi.
     Deh sì mi fosse il bel Castalio amico,
     Ch’io potessi ne’ tronchi, e ne le foglie
     Con le sue lodi i miei martìri atroci
     Andar segnando in questa parte, e ’n quella;
     Forse, che non saria sì alpestre core,
     Che non donasse a’ miei dolenti versi
     Una pietosa lagrimetta, ò almeno
     Un sospir breve, od un’amico à Dio.
     Mà se non lece à me volger la penna
     A tanta gloria; voi pudiche Suore
     Habitatrici de le nobil’onde
     Del famoso Hippocrene à Febo grato;
     Voi sole per li sassi, e per li tronchi
     Incidete Damon, ch’à sì gran nome
     E tuoni, e lampi, e folgori, e tempeste
     Lunge staranno. ò Dive hoggi non niega
     Il Cielo à voi degna materia, ed alta.
     Date principio al lagrimoso carme.
     E mentre al vostro dir Echo infelice
     Ripiglierà Damone, onde Damone
     Risuonerà la Valle; io col mio pianto
     Bagnerò quell’amata, e gelid’urna,
     Che ’l cener freddo asconde, sì che i marmi

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     Inteneriti, e per pietade aperti
     Non mi saran de la sua vista avari;
     E forse il Ciel mosso per tante, e tante
     Pene farà, che lagrimando io spenga
     Quelle fiamme, che spiran le fredd’ossa
     Accendendo d’amor gli stessi marmi.
     Ahi pur è ver, che non sì ratta corre
     A gran soffiar de’ più rabbiosi venti
     Nube, nè per lo Mar concavo Pino
     A piene vele sì veloce fugge;
     Nè con prestezza tale impetuoso
     Torrente unquà sparìo, nè giamai Serpe
     Strisciò ratto così trà l’herbe, e i fiori
     Come tosto sparisti ò buon Damone.
     Almen sì come cresce il duolo interno
     Crescessse ancor di queste luci il pianto.
     Ma (lassa) ch’io tant’hò versato humore,
     Che solo il sangue con lo spirto infermo
     Da versar mi riman per gli occhi fuore.
     Ecco s’apre la Terra, e si riveste
     Di fior, d’herbe, e di frondi. ecco à la Vite
     Impor sue leggi il Villanello industre,
     Eccolo d’aurea messe alhor, che vibra
     Ne la calda stagion suo’ raggi il Sole
     Lieto raccoglitor col ferro adunco;
     Onde le tante sue fatiche acqueta.
     Ecco la Vite del suo parto grave
     Già fatta, ond’egli l’Asinello carca;
     E mentre il dolce, e nutritivo succo
     Preme da l’uve, il rubicondo Bacco,
     L’ebbro Sileno, i Semicapri Numi,
     E i Silvani lascivi allegri stanno

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     Ridendo intorno a’ fortunati vasi,
     Che ’l soàve liquor tengono in seno;
     Ed ecco è da le nevi, e da le brine
     Già vinto il Sole; onde ’l Bifolco riede
     Da’ venti spinto al suo Tugurio humile.
     Quivi securo posa ardendo il bosco,
     Onde ne tempra il verno. Così vanno
     Ne le forze del Tempo ad una, ad una
     Le fugaci stagioni; & io dolente
     I miei noiosi affanni nel suo grembo
     Giamai non poso. dunque afflitta, e mesta
     Sarò non meno alhor, che Filomena
     Torna piangendo, e le Campagne, e i Prati
     Ridon; ma quando ancor le Valli assorda
     La noiosa Cicala; e quando i rami
     Pendono carchi à terra; e quando stanco
     Il vigile Arator depon l’aratro.
     O Damon prendi in grado i miei sospiri,
     E prega il Ciel, che mentre in questa Valle
     Di miserie vivrò, l’amaro pianto
     Non m’abbandoni, acciò che s’io non posso
     D’altro honorarti, almen t’honori (ahi lassa)
     Distillando per gli occhi il cor dolente.