Rivista di Cavalleria - Volume IX/V/Il nuovo I Tomo del regolamento d'esercizi/III

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Federico Caprilli

Il nuovo I Tomo del regolamento d'esercizi
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Il nuovo I Tomo del regolamento d'esercizi
III. Una replica
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III.

Una replica.

Nella dispensa di Marzo, come premessa agli articoli del colonnello Sartirana e del capitano Filippini, intorno al provvisorio 1o tomo del regolamento d’esercizi, la Rivista invitava gli appassionati dell’arma a «scendere nel cortese agone ed a manifestare le loro idee sul tanto importante argomento». Sia dunque a me, che nell’agone era già sceso, permessa una breve replica per difendere quei principi, di cui ho cercato ripetutamente di dimostrare la verità, ma che, lo riconosco, possono essere resi inconfutabili soltanto dai fatti.

Io sostengo che seguendoli, e me ne appello ai colleghi dell’arma che me li videro applicare, si può ottenere che i soldati vadano bene in campagna e siano nel tempo stesso pugnaci, appunto come desiderano i miei egregi contradditori. L’essenziale sta nel volerli comprendere nel loro giusto significato senza talvolta sofisticare sulle parole.

Ed anzi tutto un dubbio da chiarire. Si legge nel primo degli articoli da me accennati «Un generale che faceva parte della commissione mi diceva: non si potrà asserire d’aver raggiunto la perfezione ma un passo avanti lo si sarà fatto certo». Ora io chiedo: come s’intende questo passo in avanti? In qual senso, secondo questi principi, se ne potrebbe fare un altro per raggiungere od avvicinarsi alla mèta? È questo che si vorrebbe sapere perchè in fatto di principî lo scrittore non manifesta convinzioni personali e non si schiera nè da una parte nè dall’altra.

Ma il dubbio è presto chiarito. Quel generale, e lo dico perchè credo di conoscere le sue idee, così affermava perchè il passo avanti fu fatto su una buona via, secondo sani principî, da me seguiti e propugnati altre volte, ed ai quali io ero stato dallo stesso generale, allora colonnello, precedentemente indirizzato. Si continui pure per questa via e non si tornerà certamente indietro, ma ci si avvicinerà alla mèta.

Quale sia questo principio (§ 241), quale la via, io non starò ora a ripetere; rimando i lettori di buona volontà alla mia prima pubblicazione sull’equitazione di campagna, dove il principio è spiegato, la via tracciata, e dove è detto perchè si debba seguire questo principio.

E al medesimo articolo rimando anche l’altro mio contraddittore perchè rettifichi una sua affermazione. Mi si è apposto che io miri soltanto a far andar bene il soldato in campagna, e non mi curi d’insegnargli a ben misurarsi con l’avversario.

Chi ha detto ciò? Non è forse l’uno e l’altro scopo che io intendo si consegua quando asserisco che usando il sistema di assecondare e non contrariare il cavallo nei suoi equilibri e nelle sue posizioni naturali si ottiene di andar bene in campagna e di avere i cavalli docili e volenterosi, e sopratutto ubbidienti ed alla mano? [p. 507 modifica]

I miei avversari questo principio lo ammettono ma non ne sono ben convinti, forse per non averlo mai completamente esperimentato; altrimenti non si accorderebbero nello scagionare il regolamento dal non aver detto come il soldato deve fare per assecondare e non disturbare il cavallo. Sancire un principio fondamentale, l’unico, badate bene, l’unico veramente importante, e non voler dire in due parole il solo modo di attuarlo, è indizio di non ferma convinzione.

Non è con lo stare inchiodato e fermo in sella che non si disturba il cavallo; è col cedere, avanzando i pugni, ogni qualvolta il cavallo abbia di ciò bisogno per cambiare equilibrio.

Su questo io insisto e credo che il regolamento non insisterà mai abbastanza. Mi pare d’aver detto nel mio precedente articolo che è utile insegnarlo nel salto, non tanto per il salto in sè, quanto perchè l’esercizio del salto fatto in questo modo abilita il soldato ad assecondare il cavallo con tutta facilità in qualunque altro spostamento di equilibrio, cominciando dalla partenza al passo, ed è l’unica strada e la più sicura, se l’istruttore sa il fatto suo, per insegnare al cavaliere ad attuare in ogni altro caso il principio ammesso dal regolamento.

E questo movimento di cedere è ben lungi dall’essere difficile, tanto è vero che tutti i soldati ai quali l’ho insegnato l’hanno tutti bene appreso, ed ha altresì il vantaggio di non impedire al cavallo di vedere dove mette i piedi, o di obbligarlo a tirare fuori di sella con la bocca il cavaliere che non cede.

In ultima analisi è quel movimento che ben appreso in qualunque circostanza fa artificialmente la così detta mano buona. Questo io dico e sostengo poichè è spesse volte, lo ripeto, il cavallo che tira sul collo il cavaliere che non cede, e non questi che va con le mani avanti, come vorrebbe far credere uno dei miei contraddittori.

Del resto che il cedere, cioè il non recar dolore al cavallo, sia indispensabile, lo si rileva pure dalle parole di uno di essi quando asserisce che «reggimenti lanciati a distesa andarono al di là di ostacoli difficili quando essi erano inaspettati da non dar tempo a frenare l’andatura, mentre invece ostacoli di poco conto, preveduti, ostacolarono davvero le truppe.»

Questa affermazione conforta la mia tesi. Il cavallo quando non si aspetta e non vede l’ostacolo va perchè non aspetta, non teme e non vede l’imminente dolore: si rifiuta quando ha tempo di vedere. Ora di qui non si esce, o impedire al cavallo di vedere (e ciò non consiglio a nessuno), o evitare il dolore, il che vuol dire cedere a tempo: ceduta che, ripeto, è facile e che, dando modo di non contrariare il cavallo, fa sì che prima e dopo l’ostacolo esso sia arrendevole e docile alla mano.

Ma non è di saltare o superare grossi ostacoli nè piccoli ch’io mi interesso, spieghiamoci bene: il soldato deve apprendere ad attuare il principio. Una volta che l’abbia appreso saprà servirsi del cavallo in qualunque modo: potrà passare dappertutto ed anche, se volete, saltare!!! [p. 508 modifica]

Se io gli faccio saltare o passare ripeiutamente ostacoli di 50 cm. anche al trotto, io faccio per esercitarlo, ed è ciò appunto che mi dà il mezzo migliore per insegnargli a cedere quando il cavallo ne abbisogna. Distruggendo queste prescrizioni, e obbligandolo a tenere le mani ferme, si distrugge la strada per arrivarvi: l’esercizio del salto per il soldato non è un fine, lo ripeto, è semplicemente un mezzo, mezzo che si ha a disposizione sempre e dappertutto.

Dunque è per il principio e per la sua applicazione totale che insistiamo; per quel principio che completamente e logicamente applicato ed inteso fa degli ottimi combattenti in campagna.

Ciò detto mi sia permesso entrare in qualche altro particolare sulla applicazione del principio stesso. Anzitutto si afferma che un soldato per essere un abile combattente a cavallo deve sapere servirsi solo di una mano ed essere padrone di dirigere dove e come vuole il proprio cavallo. Io sarei lietissimo di poter condividere questa opinione, se con una mano sola nel momento in cui si combatte, in cui perciò il cavallo non è nelle migliori condizioni di tranquillità ed arrendevolezza, fosse possibile esserne realmente padrone. Sostengo invece che con una mano sola non si può guidare bene un cavallo in nessun caso, mai — perchè non si possono dare delle efficaci chiamate giuste — tanto meno poi combattendo.

Queste chiamate giuste, secondo il nostro principio (il cavallo gira naturalmente seguendo la direzione della testa, artificialmente trasportandosi lateralmente) consistono nel tirare una redine e nel cedere di altrettanto l’altra: ora come è possibile eseguire questi atti con una mano sola?

Insistendo a voler fare apprendere al soldato una cosa che non potrà mai fare efficacemente, si otterrà che con azioni false ed incomplete i cavalli diventino indecisi e fuori mano e che i soldati non acquistino mai il giusto tatto delle azioni che si debbono fare sulla bocca per guidare il cavallo. Quindi il soldato sempre che gli sia possibile (per gli armati di sciabola quando hanno la lama nel fodero) dovrebbe, a mio parere, guidare il cavallo con le redini nella mano sinistra e la destra sopra le redini destre oppure con le redini a due per mano: quando invece ha le armi, e qualche volta per istruzione, dovrebbe guidare colle redini nella mano sinistra, aiutandosi sempre a tempo debito con la destra.

Io sono convinto che qualunque armato di sciabola o lancia che a cavallo si serva d’una mano sola per guidare soccomberà in duello ad un armato di bastone che si serva di entrambe. Per combattere a cavallo l’essenziale sta nel dirigere bene, e girare a tempo, prontamente ed energicamente il cavallo; ora ciò non si può fare che con l’aiuto della mano destra per tirare efficacemente, ed obbligare, se occorre, il cavallo con le redini dovute: la mano destra al momento buono vibra il colpo e ritorna alle redini. [p. 509 modifica]

L’arma migliore del cavaliere è il cavallo. Chi è padrone del cavallo trionfa perchè può mettersi a tempo e prontamente fuori dei colpi dell’avversario, spiare il momento buono in cui l’avversario stesso è impacciato coi cavallo e vibrare il suo colpo.

Ed ora due parole riguardo alla partenza al galoppo dal passo ed all’istruire a trottare di scuola. Io non riesco veramente a comprendere quale utilità si trovi nel far apprendere al soldato «che equilibrando il suo corpo in un certo modo, movendo i pugni ecc. si ottiene che il cavallo galoppi» ciò non solo, a mio avviso, è inutile ma è dannoso perchè insegna al soldato a fare delle azioni contrarie a quelle che servono per far avanzare il cavallo, secondo il principio ormai sancito dal regolamento: aiutare con le gambe, cedere con le mani, assecondare col busto gli spostamenti d’equilibrio del cavallo. E perchè dunque per partire al galoppo dal passo si vuole insegnare a fare il contrario: aiutare con le gambe, senza cedere con le mani, portare il busto indietro e il peso sopra una natica? Quale è l’utilità pratica di un tale precetto? Nessuna, anzi si ingenererà un po’ di confusione nella mente della recluta che non saprà capire come mai gli si insegni a fare la stessa cosa con due metodi opposti. Non solo, ma io sostengo pure che il precetto è dannoso perchè insegna un’azione artificiale e contraria alla meccanica naturale del cavallo.

Riguardo al trotto di scuola sapevo già che il Rosenberg era d’avviso che nella cavallerizza e specialmente nell’addestramento delle giovani rimonte si dovesse usare il trotto di scuola, ma il Rosenberg basava il suo metodo sopra un principio allora prevalente e diametralmente opposto a quello che il nuovo regolamento adotta in equitazione; principio che, dove si parla dell’addestramento del cavallo giovane, trova nell’attuale regolamento l’applicazione più completa (§ 241).

Io, ripeto, sono anche contrario al far trottare di scuola le reclute. Sono contrario perchè ho provato praticamente che è una fatica inutile per il soldato e che ne danneggia i progressi, perchè lo irrigidisce di soverchio. Ad ogni modo qui siamo in un campo in cui le esperienze pratiche hanno più valore delle parole. Provino i miei egregi contraddittori ad istruire delle reclute senza apprender loro, o meglio, mi correggo, senza farle trottare di scuola, e vedranno in ultimo che s’accosteranno alla mia opinione, perchè in un terzo di tempo otterranno gli stessi risultati.

La medesima cosa dicasi riguardo al far montare prima le reclute sopra un cavallo tenuto alla corda. Il regolamento austriaco lo prescrive, ma non è questa una buona ragione perchè lo dobbiamo fare anche noi. Anche il regolamento francese prescrive il così detto far [p. 510 modifica]filare le redini, che è il nostro cedere con le mani avanti, ma questo invece non fu ritenuto utile, e così non fu ancora accettato il nostro modo di cedere1.

Facendo montare solo due o tre volte alle reclute cavalli tenuti sottomano da anziani con sella e staffe, si ottiene in tempo assai più breve lo scopo di dare ai soldati un pò di confidenza col cavallo quando sin dal primo momento cominceranno a cercare d’imitare il loro compagno nel trotto leggero. Seguendo questa via, senza esagerazione, il periodo d’istruzione delle reclute potrebbe esser benissimo abbreviato d’un mese ottenendo risultati anche migliori.

L’abolizione del morso è conseguenza del principio accettato dal regolamento; quando questo principio si voglia giustamente applicare non si può esitare a fare uso del solo filetto.

Se invece si ammette l’uso del filetto soltanto in parte, dicendo che non tutti i cavalli si arrendono docilmente alla volontà dell’uomo senza che questi usi verso di loro delle torture, risponderò che l’indocilità del cavallo dipende appunto dai mezzi violenti e qualche volta troppo dolorosi che il cavaliere adopera per trasmettergli la propria volontà.

In generale il cavallo finisce di reagire quando cessa in lui il dolore che ha dato luogo alla rivolta. Se qualche cavallo, per vizio o per difetto, in seguito scappa od è solito non sottomettersi alla mano sarà dato ai migliori cavalieri, i quali riusciranno nel loro intento assai meglio con mano leggera ed accorta, con dolci imboccature, che non con ardenti morsi.

Del resto perchè non provare? Si può mettere qualche reparto in filetto (comandato ben inteso da ufficiali che siano persuasi della bontà e praticità del sistema) e si vedrà all’atto pratico se i cavalli non vanno meglio e se i cavalieri non li hanno alla mano. Dal canto mio ho sempre esperimentato che i cavalli vanno assai meglio in filetto, specialmente quando guidati dalla mano ruvida e pesante del soldato.

Mi rivolgo ora in particolar modo all’altro mio egregio contraddittore.

Io non inforcherò un focoso irlandese e non batterò la campagna a grande andatura; monterò invece un cavallo di squadrone, ad una modesta andatura, per poter vedere minutamente come procedono le [p. 511 modifica]cose, e per assicurarmi che il collega, che sostiene non essere necessario insegnar sempre ed essenzialmente a cedere avanzando i pugni, non corra il rischio d’essere levato di sella dal suo cavallo, se questi distenderà l’incollatura mentre lui starà fermo e resisterà colle mani. Partiamo pure e se per la strada egli s’accorgerà di dover cedere, senza dubbio il suo cavallo andrà bene e noi arriveremo d’accordo alla meta.

In primo luogo egli non è d’accordo con me nel volere, per semplicità, abolire i comandi di maneggio e sostituirli con quelli che si adoperano all’aperto. E un omaggio che egli vuol rendere alle abitudini, alle tradizioni — sta bene ― ma ciò sarà sempre un omaggio, non mai una ragione. È la ragione di questo omaggio, è la ragione di questo conservare che io gli chiedo. Egli dice che è difficile estirpare un’abitudine. Lo credo anch’io quando questa abitudine consiste nel chiamare barroccio la carretta, baracchino la gavetta. Qui il regolamento non ci ficca poi tanto il naso, ma per i comandi di maneggio basta che il regolamento li abolisca e li sostituisca con altri già cognitissimi perchè l’abitudine sia bell’e tolta.

I comandi di maneggio, come sono stati modificati dall’attuale regolamento, sono discretamente applicabili, è vero, all’istruzione individuale. Ma non lo sono pure quelli adottati per l’istruzione all’aperto, col vantaggio in questo caso che le reclute devono imparare questi soli e non altri? Davvero non so spiegarmi come l’adozione di essi possa aver per risultato nuove complicazioni. Le reclute e gli istruttori futuri impareranno questi soli — i soldati e gli istruttori attuali li metteranno da parte ed useranno solo i comandi di piazza d’armi — non so cosa ci sia di complicato e di difficile in ciò.

Senza dir poi che l’istruzione in cavallerizza con comandi deve ridursi ai minimi termini per dar luogo all’a volontà. È quindi inutile far tanta teoria ed empir la testa alle reclute con tanti comandi di volte — cambiamenti diagonali — traversali ecc. ecc. per farne così poco uso, quando ve ne sono degli altri che li sostituiscono e la cui applicazione è costante.

Ma questo è un piccolo fossetto, dove se anche il collega non cede, il suo cavallo passerà lo stesso e noi procederemo oltre ugualmente.

Devo però prima rettificare una inesatta affermazione. Io non ho mai pensato di richiedere al regolamento un più largo e particolareggiato corredo di nozioni sul modo come impartire l’istruzione per parte degli istruttori — ma bensì l’ho richiesto e lo richiedo sui mezzi che ha il cavaliere per attuare il principio fondamentale della nostra equitazione. È ben differente.

Procediamo oltre. La invocazione che ho fatto della prescrizione di spingere il tallone in basso nella posizione a cavallo ha scandalezzato il collega, che la chiama un gambero. Non lo ritengo punto tale [p. 512 modifica]e torno ad invocare questa essenzialissima ed importantissima prescrizione. Ch’io mi sappia la fermezza in sella è data dall’equilibrio e dalla resistenza che fanno le coscie e le ginocchia contro i quartieri e dall’appoggio sulle staffe; i polpacci ed i talloni non dovrebbero quasi mai toccare il cavallo senza che il cavaliere lo voglia fare di proposito. Ora lo spingere il tallone in basso appiattisce ed annerva i muscoli della coscia e del ginocchio, impedendo all’inforcatura di raccorciarsi, tiene a posto i polpacci ed impedisce al tallone di far sentire involontariamente lo sperone al cavallo. E questo a parer mio non è rigidezza ma fermezza in sella, e la fermezza in sella ci vuole. Del resto vuole una prova che questo non è un gambero? Domandi il parere dei colleghi più esperti ed autorevoli della scuola moderna e sentirà cosa gli dicono.

Ma probabilmente il mio contraddittore non ha ben compreso come avvenga questa azione — perchè certo non scriverebbe: «Dato il principio d’introdurre tutto il piede nella staffa come è mai possibile conciliarlo con lo spingere il tallone in basso?» E che cosa c’entra la staffa con lo spingere il tallone in basso? E più sotto scrive: «Eppoi non abbiamo tutti convenuto che l’equilibrio e la solidità del cavaliere in sella assai più che con la pressione della gamba è data dall’aderenza del ginocchio, delle coscie, e delle natiche?» Ma chi ne ha mai convenuto? Io no davvero e gli garantisco che non ne converrò mai. Le ginocchia e le coscie devono essere quasi ferme per permettere alle natiche di evitare gli urti ed i contraccolpi col cavallo. Le natiche possono appoggiare leggermente (comodamente per riposo) ma non è detto che debbano e sempre gravitare!. Questo sì che ha l’aria d’essere un gambero! Per fortuna i tempi, come diceva il regolamento2 d’allora, quando io fui promosso ufficiale, nei quali era buon cavaliere chi più era ben fornito di parti molli son passati e passati per sempre!

E siamo alle «due lacune lasciate dal regolamento con animo deliberato».

Riguardo a queste (avanzare dei pugni e tenuta delle redini) io prego il mio egregio contraddittore di voler leggere quanto ho scritto più indietro allo stesso proposito. Egli vedrà come la ceduta delle redini sia proprio quella che impedisce al cavaliere di uscire di sella, d’altra parte vedrà (e son sicuro che lo sa perchè ha letto, come mi risulta un mio precedente articolo) che io considero l’esercizio del saltare non come fine ma come mezzo, per insegnare a mettere in pratica l’ormai famoso principio fondamentale del nostro regolamento, principio di cui egli deve essere persuaso. [p. 513 modifica]

Spero che crederà infine che questo utile movimento di cedere non sia difficile (l’hanno imparato tutti i miei soldati!), e se ha trovato o trova che produce conseguenze diametralmente opposte alle vere mi fa supporre che non lo abbia bene applicato.

Egli è che per insegnar bene si richiede che gli istruttori sappiano e non credano soltanto di sapere.

I principii d’oggi sono molto facili a comprendersi e ad applicarsi specialmente per chi è nato con questi, ma ciò non toglie che non debbano essere compresi bene ed applicati meglio. Siccome il nostro orizzonte è molto più lontano di una volta, per raggiungerlo bisogna lavorare eppoi lavorare ancora, ma sempre andando dritti sulla solita via. Ecco il compito e lo studio di ogni ufficiale ed essenzialmente della scuola di cavalleria. E con tutto il rispetto che ho per il passato e per le glorie italiane nella equitazione di alta scuola, non credo affatto opportuno che a Pinerolo venga istituito un corso di alta scuola col solo scopo di rendere un omaggio al passato ed ai suoi vanti. A questo lodevolissimo fine possono bastare memorie storiche e nozioni teoriche scritte su di un libro che si potrebbe far leggere agli ufficiali; ai quali non si può ragionevolmente far perdere tempo e sopportare una fatica non indifferente, senza ottenere altro pratico risultato che quello di rendere un omaggio alle glorie passate.

Onorare ciò che hanno fatto gli altri è nobilissimo sentimento, ma è altrettanto doveroso far qualche cosa anche noi e farlo per un utile fine! Quindi invece del corso di equitazione d’alta scuola, sarebbe assai meglio reintegrare, informandolo a principii moderni, il vecchio utilissimo corso d’accertamento a capitano, ed istituire alla scuola di cavalleria stessa un corso speciale provvisorio, con modalità da studiarsi, dove gli ufficiali dell’arma, che in equitazione furono educati a principii diversi da quelli ora in vigore, fossero chiamati, magari per pochi giorni, e come si è fatto e si fa nelle altre armi, per cose di importanza simili a questa per noi, fossero chiamati ripeto per turno a studiare e ad applicare i nuovi principii del regolamento per toccarne con mano l’utilità e per abilitarsi a metterli in pratica.

È appunto dopo aver fatto comprendere ai miei allievi, le ragioni che impongono il cedere ed il modo di farlo, che potei a Tor di Quinto fare, per primo, quella discesa che ha destata l’ammirazione universale, con cavalli giovani che da 10 giorni facevano l’istruzione, senza che uno si piantasse od accadesse la benchè minima disgrazia, e che nessuno esitasse il giorno dopo nel ripeterla. Ed a quelli che trovavano ciò imprudente, pericoloso, temerario, dicevo: provate a seguir questa via e vedrete che le vostre osservazioni sono fuori posto, difatti, se non sbaglio, il tempo che è galantuomo mi ha dato ragione. Non dico questo per farmene vanto ma per dare una prova, da tutti ormai conosciuta, che quanto asserisco è giusto.

Il regolamento ben fatto è una bellissima cosa, ma non riceverà mai la giusta applicazione sino a che non sarà stato ben compreso da tutti, e che ciò non si possa ottenere solo leggendolo me lo dimostra [p. 514 modifica]il fatto che con il provvisorio, moltissimi si perdono nelle opportunità più o meno della prescrizione di un mezzo, che spessissime volte è del tutto contrario alle vie tracciate dal regolamento.

Questa è pure l’opinione del mio contraddittore, da me completamente condivisa; il principio non ben compreso può generare confusione e produrre conseguenze dannose: è utile, quindi, necessario, indispensabile che prima sia ben assimilato da tutti.

Così nello spazio di pochi anni la scuola di cavalleria si disporrebbe ad emulare nella equitazione moderna le glorie che i nostri padri conquistarono nella equitazione antica.

Due parole, in ultimo, sull’uso della frotta. Io asserisco che la frotta deve essere molto adoperata nelle istruzioni ed anche in manovra perchè essa è una forma che anche in caso vero il terreno spesso ci impone: io la considero forma di manovra non per ragioni teoriche o tattiche, ma perchè le condizioni, inoppugnabili, del terreno (che non sia brughiera o piazza d’armi) non permettono, pur trovandosi in manovra, altra forma. E non capisco perchè si dica che la frotta ha per carattere il disordine. Ecco appunto ciò che non deve essere, ed affinchè il disordine non avvenga con tutte le sue funeste conseguenze è necessario che ne sia insegnato bene il meccanismo e sia resa famigliare ai soldati per ridurla essenzialmente ad una forma d’ordine nel disordine del terreno. E tanti maggiori allori potrà raccogliere la nostra arma quanto meno saranno i terreni che ci impediranno dì agire o sui quali non potremo agire bene.

Data la premessa (cioè nel giudizio fare astrazioni dal terreno, che sarebbe lo stesso che non considerare i venti per chi studia la dirigibilità dei palloni) è logico che si ritenga pericoloso l’uso della frotta anche in manovra, però io osservo che il terreno non si cambia e non si piega alle nostre teorie, ma bensì le nostre teorie si debbono piegare ai possibili terreni.

Insegniamo quindi, ripeto, a manovrare anche con i plotoni a frotte: esigiamo che in tal forma il cavaliere tenga la sua cadenza, osservi il terreno e nello stesso tempo tenga d’occhio la guida, cerchiamo di togliere a quella confusione l’orgasmo febbrile che regna nelle frotte considerate come un ripiego, come un’eccezione; diamole l’ordine e la calma. Solo a questo patto lo squadrone sarà sempre ordinato in qualunque terreno possibile!! ed in qualunque terreno possibile pronto per l’attacco.

Gallarate, 18 marzo 1902.

Capitano Caprilli



Note

  1. Io ritengo più vantaggioso il nostro sistema per molte ragioni, e questa mia antica convinzione si è in me radicata maggiormente quando ho saputo che gli ufficiali francesi andati ultimamente a Roma, prima facevano filar le redini e dopo cedevano portando le mani avanti.
  2. Le natiche costituiscono la base del cavaliere in sella e quanti più punti di contatto vi saranno fra queste e quella tanto più ampia perciò e sicura riuscirà la base.