Rivista di Scienza - Vol. II/La natura del processo di soluzione e la influenza del mezzo solvente

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Paul Walden

La natura del processo di soluzione e la influenza del mezzo solvente ../Il momento scientifico presente ../Le origini del celibato religioso IncludiIntestazione 28 dicembre 2017 100% Scienze

La natura del processo di soluzione e la influenza del mezzo solvente
Il momento scientifico presente Le origini del celibato religioso
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LA NATURA DEL PROCESSO DI SOLUZIONE

E LA FUNZIONE DEL MEZZO SOLVENTE


Il problema che riguarda il processo di soluzione e la ricerca del solvente, si è trascinato senza tregua attraverso i tempi, accompagnando la chimica in tutte le sue fasi evolutive. Il noto aforisma degli Alchimisti: «corpora non agunt nisi soluta» sta a dimostrare quanta importanza si annettesse da tempo al processo di soluzione. La teoria dell’Alkahest, quel «menstruum universale», che — secondo van Helmont — doveva disciogliere e mutare in liquido ogni corpo, ebbe origine appunto in quei tempi in cui la chimica tentava la trasformazione degli elementi gli uni negli altri e si affannava in vani tentativi di preparazione sintetica dell’oro. Venne Paracelso a proclamare còmpito solo e vero della Chimica la preparazione di medicamenti e sùbito l’Alkahest diventava la panacea universale; ma non basta; si giunse più in là, quando si volle a dirittura credere alla possibilità di produrre artificialmente, con l’aiuto dei processi di soluzione, l’«homunculus» e la pianticella. Quando poi alla chimica vennero attribuiti scopi ben diversi, allorchè verso la fine del XVII secolo Lémery disse che il còmpito di questa scienza era quello di indicare la via alla «separazione delle diverse sostanze che costituiscono una mescolanza», allora ecco presentarsi di nuovo, per questi processi della «Scheidekunst»1, [p. 257 modifica] la necessità del solvente. Non a torto osservava Boerhave (1732) che il chimico pone il solvente in prima linea tra i sussidi della sua arte e «vanta di produrre col suo aiuto le reazioni più sorprendenti»; era lui stesso che nella sua classica pubblicazione Elementa Chemiae dedicava la massima considerazione teorica al processo di soluzione ed ai solventi, in un capitolo che forma la quarta parte nel primo libro dell’opera voluminosa. Che i mezzi solventi godessero infatti della massima considerazione così dal punto di vista teorico, come nelle pratiche applicazioni della chimica, è dimostrato da una dichiarazione del noto metallurgico svedese Brandt, il quale fioriva verso la metà del secolo XVIII: egli disse che «la conoscenza dei solventi forma una parte importante e forse la più importante di tutta la chimica».

Da che Arrhenius espose la sua teoria della dissociazione elettrolitica, nel suo classico lavoro: Sulla dissociazione dei corpi disciolti in acqua (1887), la chimica rimase sotto il dominio della teoria degli ioni ed oggi si può anzi a dirittura affermare con lui «che solamente dove si trovano ioni, sono possibili reazioni chimiche».

Ecco adunque un’altra volta il processo di soluzione ed il mezzo solvente in genere, riprendere la posizione di massimo interesse per tutti i processi chimici. E noi chimici dell’oggi ripetiamo l’aforisma degli Alchimisti ormai giustificato: «corpora non agunt nisi soluta»! Noi ricordiamo inoltre, che in tempi lontani un Paracelso tentava di riprodurre la vita dal seme maschile con l’aiuto di chimiche reazioni; oggi il problema della fecondazione artificiale (partenogenesi), risolto in parte da J. Loeb col mezzo di soluzioni, è passato «dal campo della morfologia in quello della chimica fisica».


I.


Vediamo ora quali aspetti à assunto nel corso dei secoli la teoria dei processi di soluzione, col progredire della scienza chimica in generale.

Quando, per le innumerevoli ricerche degli alchimisti, si trovò raccolta alla rinfusa una grande quantità di materiale sperimentale, si fece sentire finalmente il bisogno di una interpretazione nuova dei fatti, e circa il 1600 la filosofia aristotelica, ormai soppiantata, cedeva il posto alla teoria [p. 258 modifica] corpuscolare. Uno dei sostenitori più validi di questa teoria fu il Gassendi (1592-1655); secondo lui tutti i corpi, siano essi liquidi o solidi, avrebbero in sè degli intervalli vuoti, dei pori, e tanto questi, quanto i corpuscoli, sarebbero dotati di una data forma. Se i corpuscoli del mezzo solvente corrispondono agli spazi vuoti del corpo da disciogliere, allora à luogo la soluzione. Si tratterebbe adunque di un fenomeno puramente meccanico. Niente à servito meglio a divulgare questa teoria, che la pubblicazione di N. Lémery intitolata Court de Chymie (1675), nel quale si trovano queste precise parole: «Les dissolvents agissent selon les pores qu’ils rencontrent». Le idee di Newton invasero anche il campo chimico recandovi nuove vedute. Nella sua classica opera egli prese a considerare la questione: se la soluzione di un sale nell’acqua, come in generale ogni reazione chimica, fosse causata dall’attrazione reciproca delle infime particelle dei diversi corpi; se cioè, la soluzione di una certa quantità di sale nell’acqua avviene perchè le ultime particelle del sale «attraggono l’acqua con forza maggiore, che non si attraggano tra di loro?» Questo nuovo modo di interpretare i fenomeni chimici ed il processo di soluzione, messo innanzi da Newton in forma interrogativa, convenientemente modificato trovò la più estesa applicazione nel celebre trattato di Boerhave Elementa Chemiae (1732). Quest’opera à goduto nel XVIII secolo la massima diffusione e la massima autorità ed à certamente esercitato un’influenza sul posteriore sviluppo delle teorie intorno al processo di soluzione. Non sarà adunque fuor di luogo considerare un po’ più da vicino le vedute di questo scienziato dal pensiero lucido e critico.

Egli diceva: «Data la natura del solvente, ne segue che quando esso agisce sopra un corpo, si discioglie nella stessa guisa, come il corpo che esso vuol disciogliere».... «così che i cambiamenti che i solventi provocano nei corpi, pare abbiano origine sopratutto da una intima unione tra le infime particelle del solvente e del corpo disciolto».... «Le particelle del solvente e quelle del soluto si uniscono insieme tutte, quando è avvenuta la soluzione, per formare un corpo nuovo omogeneo».... «La causa di questo fenomeno, qualunque essa sia, deve cercarsi così nel solvente, come nel corpo disciolto. Essa è comune ad entrambi ed agisce reciprocamente sull’uno e sull’altro».... «Se ora si pensa che i corpuscoli disciolti [p. 259 modifica] rimangano gli uni appresso agli altri ed uniformemente mescolati tra di loro, anche se di peso diverso», si deve credere ad una speciale proprietà, da concepirsi come affinità (che egli chiama anche vis attractrix, amicitia, amor, «se questi nomi possono indicare la tendenza alla combinazione»). Inoltre egli mette in evidenza il fatto che di ogni sale può venir disciolta solo una certa quantità; che una soluzione che sia saturata con un dato sale, non può più disciogliere «un altro sale di natura (habitus) diversa», e che nel processo di soluzione mutano tanto le proprietà del solvente, come quelle del corpo disciolto; e spesso ciò avviene con accompagnamento di fenomeni termici. Se noi seguiamo le considerazioni di Boerhave, dobbiamo ammettere che, nella massima parte dei casi, soluzione è un fenomeno chimico: «Solventi, i quali agiscano come tali, solo in virtù di una forza meccanica, sono assai più rari che non si creda. Questa categoria è formata dalle soluzioni di ghiaccio nell’acqua, di acqua nell’acqua, di alcool nell’alcool ecc., in una parola, da liquidi che si disciolgono in liquidi della stessa natura». Riassumendo adunque, si deve ammettere «che tutte le soluzioni chimiche, (lasciata da parte adunque le poche, che sono puramente meccaniche), sono esclusivamente dovute a forze di attrazione e di repulsione, che agiscono tra le particelle del solvente e quelle del corpo disciolto».

Le vedute di Boerhave, che io qui ò tracciate, ànno resistito tenacemente non solo nel decimottavo secolo: noi le incontriamo infatti — ed in forma poco diversa — nel decimonono ed anche nel ventesimo.

Nel secolo XVIII scienziati della forza di un Torbern Bergmann (1786), di un Guyton de Morveau (1786), di un Ger. Ben. Richter (1794) consideravano le soluzioni come conseguenza di affinità chimiche (attractio solutionis, affinité de dissolution) ed i più noti trattati diffondevano questa teoria come quella che si poteva più generalmente applicare; così fecero p. es. Hermbstaedt nel suo libro Experimentalpharmacie (1792) e Wallerius nella sua opera intitolata Physische Chemie (1780). Nei primordi del secolo XIX lo stesso Cl. L. Berthollet nel suo Essai de statique chimique (1803) accettava un tal modo di vedere dicendo: «poichè è conseguenza immediata di ogni processo chimico la formazione di composti, anche il processo di soluzione, considerato dal punto di vista delle forze di coesione (reciproca affinità delle particelle), appartiene [p. 260 modifica] a quest’ordine di fatti». Non voglio omettere di ricordare che il suo predecessore C. F. Wenzel nella sua Teoria dell’affinità chimica (1777) definisce il processo di soluzione come «una conseguenza naturale della configurazione e della mobilità, che da essa dipende, delle sue ultime particelle (del solvente)», rimettendo in campo così la teoria corpuscolare e le vedute di Rob. Boyle.

La teoria di Berthollet considera il processo di soluzione come un processo chimico e le soluzioni come vere combinazioni chimiche, benchè esse non obediscano alla legge di Dalton delle proporzioni definite. Nonostante si siano sollevate obiezioni di ogni fatta contro questa teoria, pure essa è riuscita a farsi strada sempre più; Gay-Lussac la accolse e la protesse in tutta la sua integrità (1808), mentre Klaproth (1810), contrariamente al parere di Lavoisier, non faceva differenza tra soluzione in senso fisico e soluzione in senso chimico (solution e dissolution, Lösung e Auflösung) e considerava ogni soluzione come conseguenza di un’azione chimica; — egli si esprimeva, come già aveva fatto Boerhave, letteralmente così: «L’azione tra il mezzo solvente ed il corpo solido è reciproca; essi si disciolgono reciprocamente» È vero che Berzelius (1823) crede che la soluzione sia «piuttosto un fenomeno meccanico» e distingue la causa del processo di soluzione da quella forza che provoca la formazione dei composti chimici; è vero che anche E. Mitscherlich (1831) intravede una differenza tra l’affinità chimica e la forza che presiede al processo di soluzione ed ammette per questo e per il fenomeno di capillarità una medesima causa: ciò non ostante son sempre le vecchie idee di Boerhave che ritornano a galla e riprendono dominio. Inoltre Biot, lo scopritore del potere rotatorio ottico nelle sostanze organiche amorfe, cerca di spiegare le variazioni della rotazione, a seconda della concentrazione e della natura del solvente otticamente inattivo, ammettendo la formazione di composti molecolari tra sostanza disciolta e solvente. Poggendorff (1837) non accetta la distinzione fatta tra «solution» e «dissolution»; egli crede che la stessa forza, che entra in azione allorchè si formano i composti chimici secondo la legge delle proporzioni definite (affinità chimica), presieda anche al processo di soluzione; e ciò lo dimostrerebbe specialmente il fatto «che i diversi corpi si disciolgono nei differenti liquidi in maniera diversa»; d’altra parte le soluzioni sono affatto [p. 261 modifica] omogenee, possiedono una densità che di solito è maggiore della media aritmetica delle sostanze che le formano, ànno spesso un punto di ebollizione costante (p. es. l’acido nitrico, l’acido cloridrico, l’alcool ad un certo grado di idratazione), insomma non è possibile porre un limite preciso tra composti formatisi da componenti in proporzione fissa e soluzioni, così che «non si può a meno di caratterizzare queste (le soluzioni) come ultimi termini nella serie delle combinazioni chimiche».

Lo stesso Hess, il fondatore della termochimica, parla delle soluzioni come di composti chimici; e Gmelin nel suo classico trattato (1852), le definisce come derivate dall’azione di affinità chimiche e pone vicino ai «composti a proporzione fissa» i «composti a proporzione variabili, soluzioni acquose, sostanze acquose».

La teoria chimica delle soluzioni trovò poi nel secolo scorso, verso il ’60, un sostenitore di molta autorità nella persona di H. Kopp. Nel suo Trattato di chimica fisica e teorica (1863) egli dice che la formazione e la persistenza dei composti chimici, siano essi a proporzioni fìsse o variabili di componenti, à la sua causa nell’affinità chimica, — «nè vi à ragione per supporre l’esistenza di forze differenti, per ispiegare l’esistenza delle due specie di composti». Le soluzioni sono tali composti a proporzioni variabili....: «Noi possiamo considerare una soluzione acquosa concentrata come una combinazione chimica fluida dell’acqua col corpo solido,.... così che le soluzioni diluite sarebbero miscele di acqua con le soluzioni concentrate».

Appresso a Kopp, viene D. Mendelejeff, il quale, durante mezzo secolo, dal 1855 fino alla sua morte avvenuta di recente, s’è mostrato fautore di una teoria chimica delle soluzioni, senza che mai gli accadesse di allontanarsene; che anzi la mise sempre in evidenza e l’appoggiò con numerosi lavori sperimentali e con l’autorità del suo nome.

L’insieme dei fenomeni che presentano le soluzioni lo condussero, nella sua prima importante ricerca Sui volumi specifici (1855), alla conclusione che «le soluzioni sono assai prossime alle combinazioni chimiche»; nel 1865 pubblicò un esauriente lavoro sperimentale Sulla combinazione dello spirito di vino con l’acqua, nel quale egli cercava di dimostrare per primo l’esistenza di determinati idrati dell’alcool, fondandosi sull’osservazione della contrazione massima che si ottiene quando l’alcool si mescoli con l’acqua. Infine egli pubblicò [p. 262 modifica] nel 1887 una completa monografia: Lo studio sperimentalo delle soluzioni acquose in base al peso specifico, nella quale fondandosi sull’aumentare della densità s col crescere del contenuto percentuale p, cioè , dedusse sperimentalmente la esistenza di certi composti molecolari tra l’acqua e la sostanza disciolta. Questi idrati possono corrispondere talora a composti già conosciuti ed isolati, ma in parte sono da considerarsi come esistenti solo in soluzione acquosa. Mendelejeff à esposto e sostenuto questa sua teoria degli idrati, anche nel suo ben noto libro: Principî di Chimica, apparso già in otto edizioni dal 1869 ad oggi: il processo di soluzione mette in evidenza che esistono forze chimiche, le quali però sono così poco sviluppate, che quei determinati composti formatisi in questo processo (tra l’acqua ed il corpo disciolto) si dissociano già a temperatura ordinaria; le soluzioni sono adunque costituite da determinati prodotti di combinazione tra il solvente e la sostanza disciolta. S’intende poi senz’altro che ciò che qui si dice per l’acqua, vale anche per altri solventi (p. es. alcool, acetone ecc. ecc.).

E si consideri ancora questa interessante circostanza: che proprio i più fervidi fautori della dottrina dell’affinità chimica ànno difeso la teoria chimica delle soluzioni, nè ciò può attribuirsi a mero caso. E vicino a un Newton, a un Berthollet, si schierano anche Guldberg e Waage (1867), i quali nel confrontare i composti a proporzioni fisse con quelli a proporzioni variabili ad arbitrio, dicono: «che tra di esse non si può porre una barriera naturale e ben definita. Nell’osservare il comportamento delle soluzioni, il calore che si sviluppa quand’esse si formano, il loro punto di ebullizione, ecc. si propende a credere che la differenza deva essere piuttosto graduale che fondamentale. Secondo noi l’azione che si manifesta tra due sostanze, che si uniscono in rapporti variabili, è un’addizione sul tipo di quella che provoca l’unione di acido cloridrico ed ammoniaca e noi ammettiamo di conseguenza, che le forze che agiscono nei due casi siano della stessa natura».

E non meno chiaramente si esprime Berthelot nella sua ben nota pubblicazione: Essai de mécanique chimique fondée sur la thermochimie (1879), là dov’egli dice: «È lecito ammettere che a base della formazione di una soluzione stia la [p. 263 modifica] formazione di certi composti tra solventi e corpo disciolto».... «Ogni soluzione ci rappresenta una mescolanza, che risulta dall’unione del solvente con il corpo disciolto combinato al solvente stesso in determinato rapporto».

E questo, a grandi tratti, lo svolgimento cronologico della teoria del processo di soluzione, dal 1600 circa fino al 1887.


II.


Questo sguardo retrospettivo nella storia delle teorie che concernono il fenomeno di soluzione, mette in evidenza come, per ben due secoli durante lo sviluppo della Chimica, — che da semplice «arte di separare i corpi» era assurta a dignità di scienza qual’è ‚ oggi reputata in seguito ai suoi brillanti risultati, — la concezione di processo di soluzione, come di fenomeno subordinato ad una affinità chimica, si mantenne vittoriosa. Questo trionfare di una rappresentazione puramente ipotetica è per se stesso degno di nota, — ma esso ci apparirà ancor più significativo se noi prendiamo in considerazione i profondi mutamenti che in così lungo periodo di tempo subirono gli scopi, i metodi, le teorie e le applicazioni della Chimica. Noi non andremo errati, se ne ricaveremo come conseguenza: che la teoria chimica delle soluzioni si adatta perfettamente alle esigenze del pensiero e del concetto chimico, e costituisce quindi una parte organica della ricerca chimica. Il punto di partenza per questa teoria chimica delle soluzioni è nella dottrina dell’affinità. Questo nome designa la causa che genera i composti chimici e che li disfa. E non è forse ovvio ridurre ogni specie di reazioni delle sostanze chimiche ad una causa unica e far dipendere da una unica forza — l’affinità chimica — , così la combinazione di elementi chimici in nuovi composti, come le azioni reciproche che tra di essi anno luogo e quindi anche l’azione del solvente sulla sostanza che in esso si discioglie? E come nessun elemento può reagire incondizionatamente con gli altri, o con essi unirsi in quantità scelte ad arbitrio, così non ogni solvente può disciogliere qualsiasi corpo ed in qualsiasi rapporto, — nell’uno e nell’altro caso si manifesta una «affinità», che risponde anche a dei valori numerici. E perchè non dovrebbero unirsi chimicamente tra di loro solvente e soluto, formando per es. nell’acqua degli idrati? Tali composti molecolari più o meno [p. 264 modifica] stabili tra solvente e corpo disciolto si possono bene immaginare e non urtano affatto il concetto chimico. W. Ostwald dice: «Tutte le sostanze capaci di esistere in date circostanze, sono anche da considerarsi come veramente esistenti».

Noi vogliamo ora cercare le origini di queste forze di affinità che agiscono nel processo di soluzione, e mettere in chiaro la costituzione chimica dei «composti molecolari» che qui si formano. Allorché nello scorso secolo, e più precisamente verso il ’60 ferveva la disputa intorno al dogma della valenza chimica costante, Kekulé attribuiva ad ogni atomo elementare una data valenza fissa (p. es. quattro per il carbonio, tre per l’azoto, per l’ossigeno due e per l’idrogeno una); egli fece distinzione tra composti atomistici e composti molecolari (contenenti acqua di cristallizzazione, sali doppi ecc.): mentre ammetteva che i primi si formassero conformemente al principio della valenza costante degli atomi, così spiegava gli altri: «L’attrazione deve manifestarsi anche tra questi atomi, i quali appartengono a molecole differenti. Questa attrazione à per risultato che le molecole si avvicinano tra di loro e si collocano una appresso all’altra, fenomeno questo che precede costantemente la decomposizione vera e propria». Würtz invece (1864) vedeva le cose in altra guisa; egli partiva dal concetto che «la atomicità (valenza) degli elementi varia a seconda dei composti» in cui essi entrano, negava qualunque differenza sostanziale tra composti molecolari ed atomistici e credeva che a formare questi ultimi entrasse in gioco «un’affinità di secondo grado» così che «sostanze composte, che a noi sembrano sature, come se le loro forze di combinazione fossero esaurite, contengono invece ancora, in qualcuno degli atomi che le compongono, una certa riserva di energia, che permette loro di combinarsi chimicamente con altri corpi»: per es. l’atomo di ossigeno bivalente tende, con l’aiuto di valenze supplementari, a diventare tetravalente. — Frankland, il fondatore della teoria di valenza, distingue tuttavia una valenza assoluta degli atomi, appartenente a quelle che sono sempre impegnate (attive), e la contrappone alla valenza latente, o ancora disponibile. Un atomo già legato può adunque, mediante le sue valenze latenti, o forze di affinità, reagire con le valenze latenti di altre molecole e formare delle combinazioni molecolari. Chiuderemo finalmente citando il parere di van’t Hoff (Vedute intorno alla chimica organica, 1881); [p. 265 modifica] questo illustre maestro della chimica moderna interpreta in due guise la esistenza di combinazioni molecolari: «In primo luogo essa può essere giustificata dalla presenza di valenze non ancora prese in considerazione ed appartenenti ad uno od a più atomi entrati in combinazione; in secondo luogo può essere anche l’edificio molecolare stesso, che porta con sè nuove direzioni nelle forze attrattive principali, o valenze».

Se noi riassumiamo quanto finora abbiamo esposto, possiamo trarne le conclusioni che 1) in atomi e molecole apparentemente saturati, possono ancora essere disponibili, o allo stato latente, energie di valenza (valenze atomiche o molecolari) e che 2) queste danno luogo alla formazione di combinazioni molecolari, p. es. tra sali diversi, tra essi e l’acqua, gli alcooli, le basi, i chetoni, ecc.; che 3) i mezzi solventi come l’acqua, gli alcooli, i chetoni, ecc. sono chimicamente attivi, vale a dire: durante il processo di soluzione mettono fuori le valenze latenti, che possono reagire con quelle del corpo che entra in soluzione; e che 4) il prodotto di queste azioni reciproche, vale a dire la soluzione stessa, può considerarsi come una combinazione molecolare più o meno stabile e parzialmente dissociata nei componenti. — Queste ipotetiche vedute intorno al fenomeno di soluzione ed alle soluzioni rimasero in voga fino a circa vent’anni fa; Horstmann Kopp nella sua pubblicazione intitolata Chimica teorica (1885) scrisse: «Per composto chimico s’intende ogni prodotto omogeneo dell’accoppiamento di sostanze diverse, nel quale non è più possibile riconoscere le proprietà dei componenti.... la soluzione di un sale nell’acqua è una combinazione a proporzione variabile di componenti».


III.


Ma rivolgiamo ora la nostra attenzione ad un altro problema. Posto che la soluzione sia una combinazione chimica, ne segue che il mezzo solvente dev’essere per sè stesso capace di agire chimicamente. Ma come mai sarà sorta l’idea di solventi o mezzi indifferenti? Vediamo se è possibile rispondere brevemente a questa domanda. Per tutto un secolo l’acqua fu il solvente per eccellenza; i sali inorganici fornirono il materiale per mezzo del quale sopratutto fu studiato più a fondo il fenomeno della soluzione. Le ricerche classiche, che fornirono il materiale alla costruzione dell’edificio della chimica [p. 266 modifica] fisica e della chimica generale del secolo XIX, compiute da fisici, da chimici, da fisiologi, o da medici, riguardano le soluzioni acquose; così: misure di solubilità, dilatazioni termiche, calori di soluzione, di neutralizzazione, di diluizione, misure di densità, tensione di vapore, punti di congelamento, problemi elettrochimici, fenomeni di diffusione e di osmosi, ecc. ecc., furono da prima quasi sempre ed esclusivamente studiati nelle soluzioni acquose. Ed è anche l’acqua che si unisce con molti sali per dare composti cristallizzabili; ed essa pure serve nelle reazioni analitiche, e decompone alcuni sali in soluzione, o gli idrolizza. Insomma quasi tutte le ricerche fisiche sui corpi in soluzione si fanno nel mezzo solvente, acqua, ed i chimici per parte loro constatano che l’acqua come solvente non è affatto inerte, ma agisce chimicamente. Tutto questo edificio si scompaginò in un attimo, allorché nel 1882 Fr. Raoult promosse lo studio di un gran numero di solventi diversi dall’acqua ed eseguì ricerche sulle soluzioni non acquose: ne risultò una serie di regolarità, che s’erano ricercate in vano nelle soluzioni acquose e poterono venir utilizzate praticamente nella determinazione di pesi molecolari, dei composti organici in particolare. Allora lo studio e l’utilizzazione dei solventi (organici) diversi dall’acqua ebbero il massimo favore presso gli studiosi: dal punto di vista chimico essi parvero scostarsi moltissimo dal solvente acqua. Questa specie di antagonismo si rese ancor più evidente quando J. H. van’t Hoff (1887) e Svante Arrhenius dotarono la scienza delle loro teorie della pressione osmotica e della dissociazione elettrolitica. Ed ecco infatti ancora le soluzioni acquose distinguersi nettamente da quelle non acquose, per un maggior numero di deviazioni dalle leggi che riguardano la pressione osmotica, mentre invece si rivelavano spesso ottimi conduttori della corrente elettrica. Ancora nel 1890 Ciamician poteva affermare che «la dissociazione elettrolitica à luogo principalmente in soluzione acquosa». E tre anni dopo Etard: «L’acqua per le sue proprietà fisiche e chimiche singolarissime è un solvente eccezionale. A nessun’altra sostanza può venir paragonata, perchè essa si combina con la maggior parte dei sali, allorché agisce su di essi come solvente.... I liquidi organici assai raramente formano dei composti con i sali, e qui è certamente la ragione per cui è così difficile di trovare tra questi ultimi dei corpi che siano contemporaneamente solubili in più solventi».

[p. 267 modifica]Pure, anche qui à ragione il vecchio aforisma: «Natura non facit saltus!» Non solamente l’acqua; essa non è niente affatto «un solvente eccezionale»; non è neppure vero che la dissociazione elettrolitica abbia luogo principalmente in soluzione acquosa; lo diceva Faraday nel 1883: «L’acqua è, in questo rapporto, solo una fra una serie molto numerosa di sostanze, e non l’unica, o la più caratteristica». Quegli altri solventi (organici) non sono poi assolutamente indifferenti verso i sali che essi possono disciogliere, noi anzi possiamo oggi sostenere che non c’è forse uno tra essi che non dia composti molecolari! Pensiamo un po’ ai composti dei sali con alcool, etere, esteri, chetoni e nitrili, ai prodotti di addizione con l’ammoniaca ed i suoi derivati; ai composti doppi del biossido di solfo», ecc. — Il potere che i mezzi non acquosi possiedono di scindere in ioni i sali disciolti fu studiato con particolar cura nell’ultimo decennio; e siano ricordati qui almeno i più noti ricercatori: Carrara, Dutoit, Kahlenberg e Lincoln, Cady e Franklin, Centnerszwer, e siano pure ricordate le estese ricerche da me fatte su numerosi mezzi di ionizzazione diversi dall’acqua. Se n’è potuto ricavare che la dipendenza annunciata da Thomson e Nernst, tra il potere dissociante dei medii e la loro costante dielettrica è applicabile nel senso più lato. Reciprocamente ci è dato quindi di prevedere dal valore della costante dielettrica, la tendenza a ionizzare che è propria ad un solvente; così per es. ciano- e nitrocomposti organici sono tra le sostanze dotate di elevata costante dielettrica e sono anche buoni ionizzatori per sali binari; solventi poi come l’acido cianidrico anidro, che à la costante dielettrica , l’acido solforico anidro con , la formamide con , devono oltrepassare anche l’acqua come solventi, — per quanto riguarda il potere dissociante verso gli elettroliti, — devono cioè provocare con maggior facilità la loro scissione in ioni.


IV.


La esistenza di un’azione chimica nei solventi che furono designati come mezzi indifferenti, si rende evidente anche per un’altra serie di fatti, e precisamente nella determinazione delle grandezze molecolari di sostanze disciolte mediarne i metodi osmotici. Ad illustrare l’asserto prendiamo il caso di [p. 268 modifica] due composti, che, in base alle loro formole chimiche, noi sappiamo avere press’a poco lo stesso peso molecolare M, ma sono però essenzialmente diversi per la natura stessa degli atomi che li compongono: la naftalina C10H18=128 e l’acido benzoico C6H5COOH = 122. Beckmann ottenne col metodo ebullioscopico e per soluzioni di 1 % nei solventi sotto elencati i seguenti pesi molecolari:

M teorico Pesi molecolari trovati in
Benzolo Cloro- formio Solfuro di Carbon. Acido acetico Etere Acetone Alcool etilico
Naftalina 128 141 131 131 121 130
Ac. benzoico 122 210 200 231 123 120 116 115

Risulta in questi dati, molto evidente, la influenza del mezzo; contemporaneamente però si vede che anche la natura del corpo disciolto à un’influenza; — per un peso molecolare teorico quasi eguale, noi vediamo infatti che: a) i valori ottenuti per la naftalina sono, in sette solventi, poco diversi; b) per l’acido benzoico invece oscillano tra 115 e 231 e precisamente i solventi si possono in questo caso riunire in due gruppi, in quantochè un gruppo dà col metodo osmotico un peso molecolare M = 115 a 123, l’altro invece: M = 200 a 231. Concorrono adunque in ciò tanto la natura chimica del corpo disciolto, come quella del cosidetto mezzo indifferente. E se vogliamo indagare quali speciali caratteristiche accompagnano le due sostanze disciolte ed i solventi, scorgiamo tosto che la causa di un comportamento osmotico così diverso può ricercarsi nella presenza di certi elementi chimici, o di certi radicali: l’acido benzoico è caratterizzato dal gruppo carbossilico e quei solventi che danno per l’acido benzoico un peso molecolare normale portano anch’essi un carbossile, oppure un gruppo chetonico, o un ossidrile, o dell’ossigeno in funzione di etere; insomma c’è sempre l’atomo di ossigeno il quale, come già si disse, può agire tanto come bivalente quanto [p. 269 modifica] come tetravalente e può quindi mettere in azione delle valenze latenti. I solventi privi di ossigeno (C6H6 CHCl3, e CS2) danno invece dei pesi molecolari anormali. Si può quindi parlare di un «potere anomalizzante» (Anomalisierungsvermogen) dei solventi, il quale dipende dalla presenza in essi di certi sostituenti. Le estese ricerche di Auwers, sui pesi molecolari determinati col metodo crioscopico, permettono di ordinare i diversi sostituenti (radicali) in una serie, «nella quale ogni membro che segue fa aumentare più dei precedenti la anomalia crioscopica della sostanza disciolta, mentre per contro fa diminuire il potere anomalizzante dei solventi; questi radicali sono: CH3, gli Alogeni, NO2, CN, CHO, NH2, COOH, OH;» — si ànno però talora delle deviazioni dalla regola.

Tra i solventi più attivi troviamo adunque: quelli che contengono l’ossigeno (come ossidrile OH, carbossile COOH e residuo aldeidico CHO), poi quelli che contengono azoto, sia come gruppo amidico NH2, o nel radicale cianico CN, o nel gruppo nitrico NO2. Come l’atomo di ossigeno, anche l’atomo di azoto si comporta come un elemento polivalente, il quale può mostrare vicino alle tre solite valenze, altre valenze latenti; così che mentre negli idrocarburi e nei loro alogenoderivati, i corpi contenenti ossigeno, come per es. l’ac. benzoico, si trovano disciolti in molecole doppie, i solventi che contengono ossigeno, o gruppi nitrici, o nitrilici, agiscono invece depolimerizzando queste molecole disciolte, o vuoi, provocando in esse una dissociazione in molecole semplici: (M)n → nM. Secondo Abegg (1904) il fenomeno si può interpretare in questo modo: «Se appartiene tanto alle molecole disciolte come a quelle del solvente la facoltà di sviluppare valenze libere, avviene che, per l’azione di massa, l’attrazione tra le molecole disciolte ne va di mezzo, per causa di quella che il solvente esercita sulla sostanza disciolta, o, in altre parole, un tale solvente si oppone alla associazione».

È degno di nota, che gli stessi solventi, i quali si distinguono per la loro azione depolimerizzante, emergono anche per il loro potere ionizzante. Ricerche eseguite da me sopra un sale binario (ioduro di tetraetilammonio) nei più disparati solventi organici, diedero la seguente serie di radicali, in cui ogni termine successivo fa aumentare il potere dissociante del medio (risp. la scissione in ioni del sale) più del precedente: CH3, alogeni, COOH (carbossile), CHO (gruppo aldeidico), [p. 270 modifica] OH (ossidrile), SCN (radicale solfocianico), CN (radic. cianico) NO2 (gruppo nitrico).

La natura chimica del solvente à qui una importanza grandissima; negli idrocarburi e nei loro alogenoderivati il sale disciolto presenta il minimo di dissociazione elettrolitica, la quale invece è massima in quei solventi, che anno ossigeno e azoto, per es. negli alcooli, nei rodanati, nei nitrili e nei nitroderivati.

E qui è opportuno accennare ad un altro fatto che è in relazione coi precedenti. Noi vogliamo perciò considerare il potere solvente di questi solventi, e rispettivamente la parte che i suddetti radicali ànno su di esso. Se noi per apprezzare il valore di questo potere rivolgiamo ancora la nostra attenzione all’ioduro di tetraetilammonio, osserveremo che in generale i diversi radicali esaltano il potere solvente del mezzo nella stessa successione come ne aumentano il potere ionizzante (dissociante); anche qui la solubilità del sale è minima negli idrocarburi e loro alogenoderivati, e raggiunge il massimo valore nei solventi con ossidrile, radicale cianico, o nitrico (alcool, nitrile, nitroderivati di idrocarburi).

Tra il potere solvente di differenti mezzi verso un dato sale (elettrolita) ed il loro potere dissociante esiste adunque uno stretto rapporto, e precisamente tale, che il potere solvente di essi cresce, col crescere del loro potere dissociante rispetto allo stesso sale. Ciamician ed Ostwald emisero l’opinione (1890) che il potere dissociante (o ionizzante) dei solventi sia di natura chimica e consista molto verosimilmente in un’attrazione p. es. delle particelle d’acqua sul catione e rispettivamente sull’anione delle molecole saline disciolte. D’altra parte possiamo ammettere con Kohlrausch che l’ione migrante in soluzione acquosa si unisca con un certo numero di molecole d’acqua (associazione). Ma se è vero che esiste una relazione tra il potere dissociante dei mezzi ed il loro potere solvente, non dobbiamo noi ammettere anche per questo una natura chimica?


V.


La natura chimica e l’azione dei cosidetti mezzi «indifferenti» può infine essere specialmente messa in evidenza anche su un terreno di osservazione molto più vasto, vale a dire nello [p. 271 modifica] studio delle velocità di reazione. Se noi moviamo dal presupposto: che tanto le molecole del solvente come quelle del corpo disciolto posseggano ancora delle valenze latenti, le quali possono entrare in azione con maggiore o minore intensità ed in numero variabile, a seconda delle condizioni esterne (pressione-temperatura) e della natura delle sostanze, che nella soluzione si trovano insieme, noi dovremo ammettere che, p. es., due corpi, i quali reagiscono tra loro e possono unirsi in un nuovo composto, vale a dire mettono in azione nuove valenze e sviluppano valenze latenti, possano entrare in combinazione tra di loro in diversi modi, ed in diverse quantità, come anche con velocità differenti, a seconda della natura delle molecole del cosidetto mezzo indifferente, tra le quali si trovano. In altre parole: ogni singolo solvente eserciterà un’influenza sulla capacità delle valenze dei due corpi reagenti, sia in rapporto al numero, come alla intensità di esse, poiché anche il solvente dispone di valenze latenti, le quali sono pure (a seconda della natura dei gruppi che nel solvente si trovano) diverse di numero e di intensità. Esaminiamo il caso più semplice, di una reazione che rimane sempre la stessa in ogni solvente ed è completa: è evidente che la velocità di reazione potrà avere i più disparati valori. Ed è appunto con la misurazione della velocità di una data reazione in diversi mezzi «indifferenti», che possiamo sperare di mettere in chiaro nel miglior modo il valore della attività di questi mezzi, e di dimostrare che in realtà questa indifferenza non esiste.

Non si può negare a Berthelot il merito di avere studiato, e per primo sottoposto a misurazioni, l’influenza dei solventi sulle velocità di reazione. Nel classico lavoro intrapreso da lui in collaborazione con Péan de St. Gilles: Recherches sur les affinités (1862) studiò anche il fenomeno di eterificazione da acido acetico ed alcool etilico: a) senza alcun solvente estraneo, b) in soluzione di benzolo e c) in soluzione di etere. Ne risultava che in soluzione eterea — rimanendo eguali: temperatura, tempo e concentrazione — la velocità di reazione era estremamente piccola, la quantità eterificata a mala pena svelabile e in ogni caso esigua, mentre in soluzione di benzolo la quantità di sale etereo formatasi era notevole; la massima velocità si raggiungeva però in assenza di qualsiasi solvente estraneo. I due sperimentatori soggiungono: «Ciò dimostra che ogni solvente modifica in un modo speciale la reazione [p. 272 modifica] che à luogo in esso ed alla quale non concorre con i suoi elementi; si tratta di un’azione di presenza nella sua massima semplicità».

Questa constatazione importante di Berthelot e di Pean de St. Gilles, pare che sia stata dimenticata. Infatti nel 1887 Menschutkin inizio le sue famose ricerche, ponendo la quistione: «Non mostrano i cosidetti solventi indifferenti, un’influenza sulla velocità di trasformazione che noi vogliamo studiare?»

Per risolvere la questione, Menschutkin determinò la velocita di eterificazione in benzolo, xilolo ed esano; e trovò infatti che questa influenza è sensibile, per cui chiude così: «L’azione del mezzo, nel quale à luogo la reazione, anche se questo mezzo è, come suol dirsi, indifferente, non è insignificante; non è possibile, per così dire, rendere indipendente la reazione chimica, dal mezzo in cui essa si svolge. In ogni reazione chimica il mezzo, che nel nostro caso è il solvente, entra con un certo fattore».

Al riconoscimento dell’influenza del mezzo, Menschutkin à dedicato, fino alla sua morte, avvenuta di recente, una serie di ricerche tipiche; egli constatava che quest’influenza dipende «dalla composizione e costituzione chimica del mezzo», e, come Berthelot, ammetteva anch’egli che tra il corpo reagente ed il mezzo si abbia «una certa azione di contatto». Però nell’anno 1900 dovette riconoscere che «ancora tale influenza del solvente sulla velocità di reazione non è spiegata. Le proprietà fisiche dei mezzi liquidi presentano solo lontani rapporti con le velocità di reazione».

Ma lasciando da parte questi giudizi, vogliamo soffermarci un poco su quel problema. Se noi, in base alle misure eseguite da Menschutkin, ci domandiamo quali solventi esercitano la maggior influenza sulla velocità di reazione, sia ritardando di molto, o accelerando, troviamo che sono sempre gli idrocarburi (esano, benzolo, xilolo, ecc.) quelli che si trovano ad una estremità della serie, e precisamente si ànno in questi le più piccole velocità di reazione; l’altro estremo è rappresentato da alcooli e chetoni, nei quali la reazione va più rapidamente. Dunque anche per ciò che riguarda l’influenza sulla velocità di reazione per parte dei solventi si ripete la serie che noi abbiamo già incontrata parlando del «potere anomalizzante» in rapporto alle grandezze molecolari delle sostanze disciolte, come pure del potere dissociante e di quello solvente; [p. 273 modifica] là si è parlato dell’influenza speciale che esercitano gli elementi polivalenti, come l’atomo di ossigeno con le sue valenze latenti; qui si può dire la stessa cosa per quanto riguarda la velocità di reazione; e se potemmo allora dimostrare un parallelismo tra il potere ionizzante e la costante dielettrica, noi possiamo ora invocare per analogia una eguale dipendenza tra l’influenza dei solventi sulla velocità di reazione e la stessa loro costante fisica.

A W. Wislicenus (1896) spetta senz’altro il merito d’aver osservato per primo questa dipendenza, allorché potè constatare che, nel caso che riguarda la velocità di isomerizzazione di composti labili (p. es. l’etere formilfenilacetico), i «solventi si ordinano secondo la loro forza dissociante (costante dielettrica)». Lo stesso parallelismo fu trovato da Hantzsch e Schultze per la isomerizzazione degli isonitrocomposti in nitrocomposti propriamente detti, e da Dimroth per la trasformazione di sostanze enoliche in forme chetoniche. Voglio ora illustrare questa dipendenza con il sussidio di alcune cifre che io stesso ottenni studiando la velocità di reazione in diversi mezzi indifferenti. Noi sappiamo che la base trietilammina: N(C2H5)3 si combina con l’ioduro di etile per dare il sale quaternario: ioduro di tetraetilammonio; la velocità di formazione di questo sale è già stata misurata da Menschutkin ed io l’ò studiata in altri solventi ed in altre condizioni di sperimento. Nella tabella sotto riportata espongo i valori da me ottenuti; nella prima colonna si trovano i nomi dei solventi «indifferenti» da me adoperati, nella seconda le costanti K delle velocità di reazione (velocità di formazione del sale nel corrispondente mezzo), e poi le costanti dielettriche dei solventi puri. Seguono i fattori di associazione x dei solventi puri secondo Ramsay e Shield, e secondo Guye, e finalmente i valori da me trovati per le solubilità del prodotto di reazione N(C2H5)4J nei solventi stessi (espressi in mole del sale per 100 mole di soluzione ): [p. 274 modifica]

Solvente Costante di velocità K a 50° Costante dielettrica ε a 20° ca. Fattore di associazione x Solubilità in μ % a 25°
Esano 0,000 0021 1,88 0,90 pratic. = 0
Etere 0,000 0153 4,13 0,99 straordin. piccola
Acetale 0,000 046 4,9 1
Paraldeide 0,000 236 10,5 0,85 0,0189
Nitrato etil. 0,001 138 17,7 1 0,0198
Acetone 0,003 010 21,9-25 1,3 0,0915
Propionitrile 0,005 280 27,2 1,6 0,213
Benzonitrile 0,006 020 26,0 (1,0) 0,181
Nitrobenzolo 0,008 40 32,2-34 (1,13) 0,201
Acetonitrile 0,009 64 35,8-36,4 1,79 0,618
Nitrometano 0,020 67 40,4-56,4 >1,6 1,163

E s’intende per la reazione: N(C2H5)3+ C2H5J=N(C2H5)4J. Si ammette inoltre che i due corpi reagenti ed il prodotto finale si comportino come indifferenti verso i solventi elencati, vale a dire che nessuno di questi prenda parte alla formazione del sale. Dai numeri della seconda colonna noi vediamo pero che questi solventi esercitano una grandissima influenza sulla velocità di salificazione, dunque sono sommamente «attivi»: pero le costanti K, nei due liquidi estremi: Esano e Nitrometano, stanno tra di loro in rapporto di 1 a 10000! Se noi ora consideriamo i singoli solventi in riguardo alla loro costituzione chimica, avvertiamo subito che son quelli che contengono i gruppi cianico e nitrico, che accelerano al massimo grado la reazione: e per ambedue questi aggruppamenti CN ed NO2 noi abbiamo veduto poco fa che, insieme all’ossigeno ed all’azoto, sono quelli che esercitano in alto grado potere dissociante e potere solvente. La costante dielettrica ε può fornirci il valore del potere dissociante dei solventi. Se confrontiamo ora i dati della terza colonna dovremo ammettere che realmente un parallelismo evidente tra i valori K delle velocità di reazione ed i numeri delle costanti [p. 275 modifica] dielettriche dei solventi puri esiste; in una serie di solventi la costante di velocità cresce con la costante dielettrica. Lo stesso parallelismo si ritrova poi tra costanti di reazione e solubilità del sale N(C2H5)4J, che si forma nella reazione (v. colonna 5a), e possiamo affermare che: in una serie di solventi la velocità di reazione è maggiore, quanto maggiore è il potere solvente del mezzo per il prodotto della reazione. Inoltre per questi solventi esiste uno stretto parallelismo tra velocità di reazione, solubilità e costante dielettrica. — Diamo finalmente un’occhiata ai numeri della quarta colonna: i fattori di associazione x dànno la misura approssimativa della complessità delle molecole del solvente a circa 20°; le variazioni di questi valori x dimostrano che l’entrata dei gruppi «Cianico» CN e «Nitrico» NO2 fanno, in generale, aumentare la tendenza delle molecole ad unirsi in complessi maggiori, di molecole associate; le valenze disponibili in queste molecole cercano di entrare in attività e conducono a «formazioni di complessi atomici» nel solvente puro, però di fronte ad un corpo disciolto le stesse valenze provocano una scissione di molecole polimere in molecole semplici, nonché una scissione in ioni; le stesse valenze disponibili del solvente e del corpo disciolto favoriscono la formazione di nuove combinazioni molecolari cristallizzabili (idrati, alcoolati, ammoniati, ecc.) ed in queste stesse valenze di origine atomica, o molecolare noi possiamo credere di trovare anche la causa del fenomeno di soluzione.


VI.


In ciò che abbiamo fin qui sommariamente esposto noi cercammo di mostrare come sia venuto sviluppandosi nel corso di più che due secoli il concetto di soluzione. Questi due secoli rappresentano anche un periodo di straordinario sviluppo delle cognizioni e delle teorie chimiche. Ma, pari all’asse ideale di un sistema, la teoria delle soluzioni conserva la sua posizione iniziale, malgrado questo progresso: il processo di soluzione ripete la sua origine dalle forze di affinità agenti tra il solvente e il corpo disciolto; è in sostanza un processo chimico e la soluzione è una più o meno libera combinazione chimica. Questo modo di vedere ebbe favore quasi illimitato fino al 1887. Sopravviene allora un grande cambiamento: J. H. van’t Hoff emette la sua teoria della pressione [p. 276 modifica]osmotica; tra soluzione e gas si scopre «una profonda analogia, anzi quasi una identità» ed il processo di soluzione diventa paragonabile ad una diffusione reciproca, ad un’intima mescolanza di due gas indifferenti. Questa nuova teoria, messa a fianco della teoria della dissociazione elettrolitica di Arrhenius, diede uno dei più efficaci e generali mezzi di ricerca, che mai si siano potuti escogitare. Se però la vecchia teoria chimica delle soluzioni fu portata all’estremo, ciò accadde ancor più per la teoria moderna delle soluzioni, che fece considerare il processo di soluzione come puramente fisico. Invero van’t Hoff aveva dedotto le sue leggi e le analogie specialmente in riguardo alle «soluzioni ideali», tanto diluite cioè, che le azioni reciproche delle molecole disciolte, il loro volume, ecc., si potevano trascurare. Nella applicazione pratica della teoria osmotica delle soluzioni si trattava invece, sopratutto, di soluzioni di una certa concentrazione; d’altra parte le ricerche ognora crescenti intorno a soluzioni non acquose condussero alla conoscenza di una molteplicità di fenomeni, assai maggiore di quanto non si fosse potuto sospettare da principio. Le leggi osmotiche valevoli, con tutto rigore, per le soluzioni ideali, infinitamente diluite, potevano infatti trascurare l’azione reciproca delle molecole disciolte, il loro volume e la reazione tra esse e le molecole del solvente; ma nelle soluzioni più concentrate entrano in gioco, in grado maggiore o minore a seconda della natura dei componenti la soluzione, tutti questi fattori. I pesi molecolari determinati per via osmotica, risultarono spesso più grandi che non si dovesse aspettarsi dalla composizione chimica del soluto; è giocoforza quindi ammettere una attrazione reciproca tra le molecole disciolte, vale a dire la formazione di molecole associate. Talora invece si trova un peso molecolare normale il quale però diminuisce, coll’aumentare della concentrazione, anzichè rimanere costante, o crescere (per una associazione di molecole). In questo caso spieghiamo il fenomeno come una addizione (combinazione) delle molecole del soluto con quelle del solvente. C’è poi una serie di fatti nel campo delle conducibilità elettrolitiche, che ci spinge ad ammettere che nelle diverse soluzioni gli ioni degli elettroliti siano associati alle molecole del solvente, formando eventualmente con esso dei «composti molecolari». In poche parole: si compie in modo sempre più evidente un ritorno alla teoria chimica; la teoria fisica delle soluzioni [p. 277 modifica] diede le leggi per il caso limite di soluzioni «a diluizione infinita»; ci fornì di metodi e di apparecchi per uno studio profondo delle soluzioni ed ora essa mostra che in soluzioni più concentrate compaiono nuovi elementi perturbatori: noi ora per ispiegarli ricorriamo alle forze chimiche, le quali darebbero luogo a formazione di prodotti di associazione nelle soluzioni e di combinazioni molecolari più o meno stabili. Due secoli fa pareva che una teoria chimica non avrebbe mai potuto conciliarsi con una teoria fisica delle soluzioni; oggi invece la prima apparisce come un complemento alla seconda e questa come un valido appoggio della prima. E giusto i più eminenti sostenitori della moderna teoria delle soluzioni, si mostrano oggi propensi ad ammettere come possibile e molto verosimile una spiegazione chimica al fenomeno della soluzione, ed alla esistenza e formazione di combinazioni molecolari tra solvente e corpo disciolto; e tra questi sono: Abegg, Biltz, Bruni, Hantzsch, Jones, Lowry, Werner ed altri. E così si chiude questo ciclo di idee; ciò che Newton aveva indicato in forma interrogativa, ciò che Berthollet à sostenuto e Guldberg e Waage ànno posto a fondamento della loro teoria dell’affinità chimica, ritorna oggi a galla e costituisce in veste nuova la nota dominante: sono «forze» della stessa natura quelle che determinano l’esistenza di composti chimici a composizione definita, come quelle che presiedono alla formazione di composti a composizione variabile, quali sono le soluzioni.

Politecnico di Riga.

Note

  1. «Scheidekunst» letteralmente vuol dire «Arte di separare»; questa denominazione, che comprese più tardi tutte le manipolazioni di chimica, fu data originariamente a quelle che servivano per la separazione e purificazione dei metalli. Tale nome rimase a lungo nei paesi germanici e si ritrova ancor oggi, per es. in Olanda, dove la chimica conserva il nome di «Scheikunde».

    [N. d. t.].