Saggio critico sul Petrarca/V. Forma petrarchesca

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V. Forma petrarchesca

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IV. Laura e Petrarca VI. Situazioni petrarchesche
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V

FORMA PETRARCHESCA


Possiamo ora aprire il Canzoniere, aprirlo anche a caso. Come i pensieri e i sentimenti stanno ciascuno di per sé, non come parti svolgentisi da intrinseco processo, cosí ciascuna poesia è un tutto intelligibile in sé stesso. Potete leggerlo, come leggereste i pensieri di Pascal, pensiero per pensiero, sonetto per sonetto. E vi sarebbe difficile a leggerlo in altro modo, e, come si dice, d’un fiato; perché, non ci essendo né varietá di soggetti, che desti la curiositá, né una vera successione storica, che vi tenga in una gradevole sospensione, lascereste ben presto il libro per stanchezza. Soprattutto è bene non fermarsi alle prime poesie, e subito buttar fuori il proprio giudizio; essendo quelle le pessime della raccolta, composte probabilmente piú tardi a introduzione. La porta è cattiva, ma l’edifizio è bello; e, se, o lettori, vi dá l’animo d’entrare, io voglio accompagnarvi e fare il cicerone.

Troveremo sonetti, canzoni, ballate, madrigali, sestine. Ne’ poeti antecedenti ci è maggior varietá di versi e di metri, cosí alla confusa, senza determinazioni; nei seguenti sono comparse nuove forme liriche, alcune recate a perfezione. Il sonetto e la canzone si possono considerare come il nocciolo di tutte queste forme, ed in Dante ed in Petrarca hanno una compiuta espressione.

Il sonetto è la forma elementare della poesia moderna. Dopo d’essere stato per lungo tempo una specie di malattia [p. 88 modifica]poetica, un mestiere da sfaccendati, oggi comincia ad andar giú, divenuto una rara e pura forma d’imitazione: il che non toglie che gli stranieri, per un buon secolo almeno, non seguitino a chiamarci i sonettisti. Come il pittore, il quale in una serie di fatti non vi può cogliere che un fatto solo, ed in quel fatto un solo momento; il sonetto s’accosta alle arti dello spazio, può come in un quadro raccogliere gli accessorii di un pensiero o d’una immagine unica, può meglio rappresentare il simultaneo che il successivo. Ci è nella vita impressioni ed apparizioni fuggevoli, che durano un istante e passano; passano per sempre, se il poeta non le coglie a volo e non le fissa. Tali sono i temi de’ sonetti petrarcheschi: il pallore, il cantare, il piangere, l’arrossire, questa o quella attitudine di Laura, un pensiero acuto, una’ rapida emozione. Nel flutto delle immagini che gli si attraversano ce n’è qualcuna che fa sul poeta piú viva impressione; ed ecco te la incastona ne’ suoi quattordici versi. Il sonetto è una forma accomodatissima al suo genio. Le sue impressioni volubili, senza premesse e senza conseguenze, hanno la loro adeguata espressione in quella totalitá chiusa in sé stessa, che chiamasi sonetto, il poema d’un quarto d’ora.

In questa forma elementare il pensiero è come ancora inviluppato nel suo guscio; ma talora il cuore è troppo pieno e vuol traboccare; quel pensiero vuol uscire, uscir tutto intero. Allora l’angustia del sonetto non è sufficiente; ed il poeta pone mano alla canzone, forma nobile e larga, di cui son degni solo quelli che hanno l’anima eloquente. Questa è la forma epica della lirica, ne’ suoi misurati intervalli liberissima, pieghevole a molte specie di argomenti, procedente per una lunga scala di toni, dal maestoso fino al tenue ed al grazioso, trasformabile secondo i tempi. Ed il Petrarca, che ha fatto i piú bei sonetti che si leggano nella poesia italiana, non è meno eccellente nel maneggio della canzone. Ma non con pari felicitá ha usato la ballata, il madrigale e la sestina. Delle due prime forme non c’era avanti alcun concetto chiaro, né presso di lui hanno ancora una ragione d’essere. La ballata è come l’embrione della [p. 89 modifica]canzone, con avviamento alla canzonetta, nei suoi rimpiccioliti contorni piena di grazia. II Petrarca ce ne ha lasciate sei, di cui due1 sono leggiadre, e tutte hanno una forma fissa, ma arbitraria. Neppure del madrigale si è formata un’idea chiara, forma presso di lui vagante, che talora s’accosta alla ballata, talora al sonetto: quello che incomincia «Nova angeletta» non è senza grazia. E si è voluto provare ancora nella sestina, che è nella storia delle forme poetiche quello che i concetti e le acutezze sono nella storia del pensiero. Non ci è niente che possa meglio testificare il raffinamento a cui era giunta la poesia amorosa, che questa forma sgraziatissima, in tanta povertá e servilitá cosí affettata e pretensiosa. Questo è in tuffi poeti: questo è nel Petrarca.

Ma sotto queste diverse forme vi è facile riconoscere lo stesso uomo, soprattutto all’elocuzione, all’uso de’ colori. Se poeta fu mai atto a raggentilire una lingua ed una poesia, certo fu il Petrarca, dotato di una tanto squisita sensibilitá. Nella lingua italiana si sentivano ancora gli elementi diversi che vi entravano, il latino, il municipale, il provenzale. Il Petrarca sviluppò quell’elemento cantabile e musicabile che la costituisce, e ne fece la dolcissima delle lingue. Guidato da un orecchio delicatissimo, vince ciò che di aspro è ancora nella etimologia con lievi cambiamenti eufonici; e questo fa con tanta sicurezza e finezza di gusto, che dove delle parole di Dante molte sono rimase anticate, le sue sono ancor fresche e giovani, come coniate pur ieri. Rifiuta le parole e i pensieri comuni, cerca con accuratezza quelle che rinchiudono il più d’accessorii, esimio soprattutto nella scelta degli epiteti e de’ verbi. Mira a comprender molto in poco, a condensar pensieri ed immagini, che spesso ti vengono innanzi, non in virtú delle parole, ma per il solo effetto dello splendore e della grazia del tono. Come nella scelta e nel collocamento delle parole, cosí nella struttura del verso è artificiosissimo, maestro cosí dotto di melodie, che [p. 90 modifica]spesso, mentre la parola ti dá l’immagine, la melodia te ne dá il sentimento, quasi testo e musica. Non vuole solamente che la forma sia bella per rispetto alla materia, ma che la sia bella in sé stessa. Ha l’idolatria della parola, non pur come espressione dell’idea, ma staccata, presa in sé come suono, attentissimo a sceverare le parole nobili dalle plebee, le poetiche dalle prosaiche, ed esprimer tutto con forbitezza ed eleganza, come un nobil signore che, anche a dir cose volgari, non dimentica il frasario dei suoi pari. Mai non puoi coglierlo in veste da camera; mai non ti viene innanzi che in guanti gialli e in cravatta bianca. Le sue parole son tutte col blasone, tutte pietre preziose; i suoi versi, prima di giungere all’anima, si trattengono deliziosamente nell’orecchio. E poiché la forma operaimmediatamente sui lettori, non è maraviglia che tanta perfezion tecnica abbia da prima generato un culto superstizioso per il Petrarca, tenuto per lungo tempo il direttore del gusto pubblico. Quella bella forma fu staccata dal suo fondo, lavorata in sé stessa, insino a che, fatta indifferente al contenuto, si esalò in una vuota sonoritá. Ne nacque un gusto fattizio, fondato sopra quattro parole, che per lungo spazio hanno tiranneggiato in Italia: puritá, dignitá, eleganza e sonoritá. Qui è tutta l’arte poetica, qui è il succo dell’arte dello scrivere professata anche oggi da parecchi critici e scrittori sotto il nome di stile letterario.

Non ci è poesia del Petrarca di si poco momento, che per la parte tecnica non sia lavorata con l’ultima finitezza; fino le sue trivialitá e le assurditá hanno addosso un manto di porpora. Il quale in un fondo povero si stacca con tanto piú di pretensione: sicché i critici, ponendo non nella persona, ma nel vestito l’eccellenza dell’arte, hanno giudicate ottime alcune delle sue poesie manifestamente insipide o assurde. Nella canzone delle metamorfosi, di cui v’ho toccato innanzi, un tessuto d’allegorie senza succo e senza sale, sentite con tanto piú di forza all’orecchio il rimbombo del verso, ed i critici allo strepito batton le mani. Vuol dire che, trasformato in eco, andò errando e piangendo: [p. 91 modifica]

                                         Spirto doglioso, errante (mi rimembra),
Per spelunche deserte e pellegrine,
Piansi molt’anni il mio sfrenato ardire.
     

S’incomincia con un Arma virumque cano; il secondo verso ha la stessa armonia del «Canto l’arme pietose e il capitano»; e il verso successivo «Che il gran sepolcro liberò di Cristo» è fratello germano dell’ultimo petrarchesco, con meno ancora di maestá e di solennitá. Che è questo? £ una forma lustra, soprapposta; è il rossetto e il bianchetto, non quel sano e buon color naturale, che viene dal sangue, dal di dentro dell’organismo. Diciamo: — La vernice è ottima — ; e non ci accorgiamo che, appunto perché guardiamo tanto alla vernice, il fondo non dee esser poi una cosí gran cosa. Tale è l’effetto che producono le poesie del Petrarca insignificanti: rimangono in mente come puri motivi o melodie, versi e frasi sciolte, e il contenuto si perde. Questa è la forma de’ parolai, de’ frasajuoli, degli inverniciatori, che si sfiatano a ripetere che in poesia il contenuto è nulla e la forma è tutto. E, come l’un estremo tira l’altro, n’è venuta poi l’altra dottrina, che anzi il contenuto è tutto. Dividono contenuto e forma, come se fosse una combinazione chimica. La veritá è che in poesia non ci è propriamente né contenuto, né forma, ma che, come in natura, l’uno è l’altro. Il gran poeta è colui che uccide la forma, di modo che questa sia esso medesimo il contenuto. La forma è specchio che ti faccia passare immediatamente all’immagine, si che tu non t’accorga che di mezzo ci sia il vetro. A quest’altezza sono giunti Omero e l’Ariosto; Dante vi si accosta, e spesso vi attinge; il Petrarca se ne allontana, quando liscia ed orna troppo. Volete dunque ben giudicare il Petrarca? È certo che in tutte le sue poesie c’è il medesimo lustro, ma che non tutte producono la stessa dilettazione estetica. La qual differenza nasce tutta dal contenuto, nel punto e nel modo che si affaccia nel suo animo. Quivi la forma prende sua origine, suo colore e sua ragione; sicché, in luogo di guardare alla superficie o nel fondo, guardiamo nell’animo del poeta, il centro vivificatore di tutt’e due. [p. 92 modifica]

Chi ha un po’ di pratica del Petrarca, penserá: — Questa bella forma non è un puro artificio tecnico, una costruzione meccanica fatta a freddo ed a priori; ma è il prodotto della sua anima. Checché gli si offre, egli ha una tendenza inconsapevole a trasformarlo in un sensibile, o, per dir meglio, gli si offre sensibilmente; e quel sensato egli ha una tendenza inconsapevole ad abbellirlo e raggentilire. Ha l’istinto della bellezza; quella melodia che sentite nei suoi versi, risonava giá nell’anima; quei lumi, quello splendore, quella grazia, quella magnificenza d’elocuzione è un riflesso della luce interiore. Se medita, i pensieri sono illuminati dall’immaginazione; se si duole o s’allegra, l’emozione è trasformata in immagine. L’intimitá e la profonditá de’ sentimenti non è il carattere de’ popoli primitivi, come non è de’ fanciulli; non è il carattere del Petrarca, che pure in questa via è il piú vicino a’ popoli adulti. L’emozione e la meditazione passano presso di lui nella contemplazione. Come quel pittore che s’inginocchiò innanzi ad un san Girolamo, pinto da lui stesso, il Petrarca rimane rapito e immemore innanzi alla bella faccia immaginata da lui, e dice: — Quanto è bella! — . Né sai se ami piú Laura reale, o il bel fantasma che sotto il suo nome gli scintilla innanzi; disposto a consolarsi, se in luogo della donna amata possa aver sempre innanzi il suo fantasma:

                                    In tante parti e si bella la veggio,
Che se l’error durasse, altro non cheggio.
     

Potete dunque rendervi ragione dell’impressione che la lettura di questo poeta produrrá su di voi. Di rado vi spunta la lacrima, di rado chinate il capo pensosi, assorti negli abissi del vostro cuore. Per entro a questi lamenti amorosi penetra costante serenitá, elegante, pulita, abbagliante d’immagini, che vi tiene sempre al di fuori, e vi commuove sf, ma dolcemente, senza turbazione. Prendiamo qualche esempio. Il poeta vuol dire che talora sente de’ desideri! sensuali. Un poeta moderno scende subito nella profonditá del suo cuore, e vi descrive i [p. 93 modifica]diversi fenomeni che accompagnano questo sentimento. Il Petrarca corre subito all’immagine, fa di questo sentimento un sensibile. I desiderii carnali gli si presentano come un mare tempestoso, e paragona sé al povero nocchiero che faticoso e stanco ripara alfine nel porto:

                                         Non d’atra e tempestosa onda marina
Fuggi’o in porto giammai stanco nocchiero,
Com’io dal fosco e torbido pensiero
Fuggo ove ’l gran desio mi sprona e ’nchina.
     

Sono quattro versi ammirabili. Il primo, con quegli accenti urtantisi sulla sesta e settima sillaba, ti dá come l’accavallare delle onde; il secondo, censurato a torto dal Muratori, con quelle vocali intoppate le une nelle altre ti da il travaglio e l’affanno dello scampo; quel «fosco e torbido», quel «mi sprona e ’nchina» sono da soli tutta una descrizione. Certo, è questo un gioco d’immagini: l’emozione è rintuzzata, oltrepassata; non è una forza misteriosa che ti scuote l’anima, ma una bella faccia che diletta l’immaginazione. Di che un esempio ancora piú scolpito ci dá la canzone quarta:

                                    Nella stagion che ’l ciel rapido inchina.      

Il concetto è che il dolore dell’innamorato poeta non ha mai riposo. In luogo di riflettere lo sguardo in sé ed esprimere tutte le gradazioni ed apparenze del suo dolore, il poeta guarda al di fuori, e fa vari paragoni tra il suo stato e quello degli altri mortali. La vecchiarella, che di lontano paese ritorna in patria, dopo le fatiche della giornata trova riposo la sera, dov’io, — dic’egli — allora appunto sento crescere il mio dolore. E seguita a questo modo a compararsi col zappadore, col pastore, co’ naviganti, co’ buoi. Ciascuna strofa contiene uno di questi paragoni. Il contrasto fra la calma della natura ed il proprio affanno, tra il finito di tutte le cose e l’infinitá del proprio sentimento, è certo straziante. Ma il paragonato è affatto secondario, ed il [p. 94 modifica]sostanziale della canzone è il paragone. Il poeta è attirato fuori verso la natura, come ape verso il fiore, vi si indugia, vi si diletta; diresti che il suo dolore è un pretesto per descrivere ciò che si passa intorno a lui. Invano gitta le alte grida:

                                    Perché di e notte gli occhi miei son molli?      
Sentite che quegli occhi debbono pure in qualche momento essere asciutti, proprio in quel momento che li dice molli, poiché, a veder con quanta compiacenza vi pone innanzi la bellezza di quegli spettacoli, ha ben l’aria di un uomo che, abbattutosi a una bella vista, si asciuga gli occhi e guarda. Il suo dolore è sincero, ma è distratto e raddolcito. Ond’è che questa canzone è rimasta celebre, non come effusione di dolore, ma come tessuto di vaghissime descrizioni. Quella soprattutto della vecchiarella pellegrina, e l’altra del pastore sono per grazia e semplicitá ciò che di meglio si trova nella poesia italiana:
                                         Nella stagion che ’l ciel rapido inchina
Verso occidente, e che ’l di nostro vola
A gente che di lá forse l’aspetta;
Veggendosi in lontan paese sola,
La stanca vecchierella pellegrina
Raddoppia i passi, e più e piú s’affretta;
E poi cosí soletta,
Al fin di sua giornata
Talora è consolata
D’alcun breve riposo, ov’ella obblia
La noia e ’l mal della passata via.
     
E stanza terza:
                                         Quando vede ’l pastor calare i raggi
Del gran pianeta al nido ov’egli alberga,
E ’mbrunir le contrade d’oriente.
Drizzasi in piedi, e con l’usata verga,
Lassando l’erba e le fontane e i faggi,
     
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                                    Move la schiera sua soavemente;
Poi lontan dalla gente,
O casetta o spelunca
Di verdi frondi ingiunca:
Ivi senza pensier s’adagia e dorme.
     

Questa specie di dolore estetico, che si riposa dall’emozione nell’immagine, è manifesto soprattutto dove il poeta si rappresenta Laura che piange, non certo di gioia. Laura piange ed amaramente; cosa pensa il poeta? Il poeta pensa: — Quanto son belle quelle lacrime! il suo volto è smorto e pallido; ma in quel pallore quanta grazia! è una «gentile pietá», un dolore accompagnato con grazia. I suoi lamenti sono amari: ma quanta dolcezza in quelle querele! — . Nel suo entusiasmo per la nova bellezza di Laura, il poeta invita la natura a contemplarla. Il cielo, innamorato di quella vista, si fa sereno; l’aria, stemprata di dolcezza, iesta immobile, intenta allo spettacolo: non si vede pure una foglia muoversi in ramo:

                                         L’atto d’ogni gentil pietate adorno,
E ’l dolce amaro lamentar ch’i’ udiva,
Facean dubbiar se mortai donna o diva
Fosse che ’l ciel rasserenava intorno...

     Ed era ’l cielo all’armonia si ’ntento,
Che non si vedea ’n ramo mover foglia;
Tanta dolcezza avea pien l’aere e ’l vento...

     Né si pietose e si dolci parole
S’udiron mai, né lagrime si belle
Di si begli occhi uscir mai vide il sole.
     

È evidente che il poeta, in luogo di concentrarsi, guarda attorno; in luogo d’alzar la natura a sentimento, condensa il sentimento in natura. Il sole, testimonio taciturno della storia umana, il sole che non aveva ancora veduto da si begli occhi uscir lacrime si belle, ti presenta un’immagine pomposa, che dá a quelle lacrime magnifiche proporzioni; il poeta obblia i [p. 96 modifica]moti del cuore, le discordie della coscienza, e come farfalla gira intorno alla luce dell’immagine. Questa è la sua tendenza; qui è la sua sinceritá e il suo genio. Il dolore è bello, la lacrima è bella, anche la morte è bella, anche la morte l’innamora, non la morte di un chicchessia: la morte di Laura. Giá in Dante appariscono i primi segni della bellezza della morte concepita cristianamente. Beatrice muore:

                                    Ed avea seco un’umiltá verace,
Che parea che dicesse: Io sono in pace.
     

Il poeta non s’indugia sulla faccia della morta, ma ne coglie a volo l’espressione. E questo è accompagnato con vera e viva commozione. L’amante, poiché l’amata è morta, ha giá il colore della morte, e la morte si figura come cosa gentile e pietosa, e la chiama a grandi grida:

                                    Tu dei ornai esser cosa gentile,
Poiché tu sei nella mia donna stata,
E dèi aver pietate e non disdegno.
Vedi che si desideroso vegno
D’esser dei tuoi, ch’io ti somiglio in fede:
Vieni, ché ’l cor ti chiede...
     
Quello che in Dante è sentimento, in Petrarca divien plastico. I tratti della morte son trasfigurati. Gli occhi son chiusi, ma in atto di chi dorme placidamente; «e par che dorma!»; sono chiusi da un dolce dormire. L’abbandono del cadavere è qui piuttosto l’attitudine languida d’una bella persona stanca in riposo; il pallore risplende su quella faccia, con un candore simile a’ larghi fiocchi di neve senza vento su di una bella collina:
                                         Pallida no, ma piú che neve bianca,
Che senza vento in un bel colle fiocchi,
Parea posar come persona stanca.
     Quasi un dolce dormir ne’ suoi begli occhi,
Sendo lo spirto giá da lei diviso,
Era quel che morir chiaman gli sciocchi.
     Morte bella parea nel suo bel viso.
     
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Quest’ultimo è un verso di effetto certo. Quando sembra che il ritratto sia finito, sei sopraggiunto da un’immagine inattesa, che è un tocca e basta, ma quelle ultime undici sillabe non puoi piú dimenticarle, perché sono le tue immagini e le tue impressioni anteriori felicemente condensate come un sol tutto in un’immagine unica, che è il concetto esso medesimo di questa poesia fatto sensibile.

Il Petrarca si può qui rassomigliare ad un innamorato, che dopo qualche anno va in un placido raccoglimento a visitare la tomba dell’amata, e si piace di ornar quella tomba di fiori, mentre l’immaginazione abbellisce quelle morte sembianze. Fu questa interna moderazione di passioni, che gli die abilita a rimaner quasi sempre in istato di pura contemplazione, in atto piú di spettatore che d’attore, certo di spettatore appassionato. C’era in lui non so che nobile e gentile, e, se volete, aristocratico, che lo tenea lontano dal vulgare, dal brutto, dal licenzioso, alto in una sua propria regione, in cui convivea familiarmente co’ piú eletti spiriti dell’antichitá. Onde nasce quella sua disposizione alla bellezza, che ne ha fatto il precursore di Raffaello, e quella tanta delicatezza e finezza di forma che è un miracolo in tempi ancor barbari. La qual forma, come vedete, non è giá un artificio tecnico, qualche cosa di soprapposto, ma è lo stesso fantasma come si presenta al suo spirito, armonia perfetta tra la parola, la frase, il verso, il giro del periodo e i movimenti interiori, le qualitá dell’ingegno, la disposizione dell’animo in questo o quel momento. Come far comprendere i misteri della forma, ciò che una lingua ha di piú inviolabile e inaccessibile al volgo? Prendiamo ad esempio un sonetto, in cui il Petrarca descrive un vecchio che peregrina in Roma per veder l’immagine di Cristo impressa nel sudario di una Veronica. Dante avea scritto [Par., c. XXXI):

                                         Quale è colui, che forse di Croazia
Viene a veder la Veronica nostra,
Che per l’antica fama non si sazia,
     Ma dice nel pensier, fin che si mostra:
Signor mio Gesú Cristo, Dio verace,
Or fu si fatta la sembianza vostra?
     
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Dante ha veduto del fatto un solo momento, ma l’essenziale. Nella sua impazienza il pellegrino si fa nell’immaginazione la faccia del Cristo, e non gli par vero che gli sia dato di vederla, proprio dessa. Nella sua esclamazione senti, insieme con una certa tenerezza di devozione, lo stupore e la maraviglia che si prova innanzi ad un miracolo. E un sol tratto sintetico, che ti gitta verso il maraviglioso; e l’unica circostanza, «forse di Croazia», con la lontananza del luogo ne accresce l’effetto. La natura gentile ed impressionabile del Petrarca gli fa trovare in questo fatto un gran numero di circostanze tenere e delicate. Analizza ciò che Dante raccoglie in un fascio. È una statua di bronzo a proporzioni severe, che, per non so qual miracolo, perde i suoi angoli e le sue punte, s’arrotondisce, s’intenerisce, si fa carne, attira il tuo occhio su tutte le sue bellezze, sul petto, sul fianco, sulla faccia. Nel sonetto ci dee senza dubbio entrar Laura; e come fare un sonetto senza Laura? Ma c’entra per cerimonia, e ci sta a pigione; il vecchio pellegrino ne costituisce il fondo:

                                         Movesi ’l vecchierei canuto e bianco
Del dolce loco ov’ha sua etá fornita,
E dalla famigliuola sbigottita.
Che vede il caro padre venir manco:
     Indi traendo poi l’antico fianco
Per l’estreme giornate di sua vita,
Quanto piú può col buon voler s’aita,
Rotto dagli anni e dal cammino stanco.
     E viene a Roma, seguendo ’l desio,
Per mirar la sembianza di colui
Ch’ancor lassú nel Ciel vedere spera.
     Cosi, lasso, talor vo cercand’io,
Donna, quant’è possibile, in altrui
La desiata vostra forma vera.
     

Ciascuna stanza è destinata ad esprimere una parte del fatto. Nel primo quartetto è il vecchio nel punto che s’allontana, nel secondo è il vecchio nel cammino; e nel primo [p. 99 modifica]terzetto lo vedete giungere, nel secondo terzetto ci è l’applicazione posticcia e stiracchiata che fa del paragone a Laura. Il pellegrino s’allontana; è il «forse di Croazia» di Dante, che ha voluto attirar l’attenzione sulla lontananza; ma quello che impressiona il nostro tenero poeta non è tanto la lontananza quanto le angosce dell’ultimo addio, e ti fa una scena di famiglia. Il pellegrino è un «vecchierello», che vuol dire un vecchio infievolito e incurvo dagli anni, che pare con un fiato lo gittiate giú, pure simpatico a vedere, tutto bianco, la barba, i capelli e la faccia, «canuto e bianco». Lascia la patria e la famiglia. La patria è il luogo, da cui mai non si è mosso, da cui ora per la prima volta «si move»; il luogo dove «ha sua etá fornita», frase dubbia e molto poetica, che ti presenta insieme due idee, cioè che ha passato colá tutta la sua vita, e che questa vita si può dir giá finita, non restandogli che poco altro a vivere. E lascia la famiglia, anzi «la famigliuola», che è neppure un diminutivo, ma un vezzeggiativo, una famiglia di piccolini, e cosí cari, cosí graziosi! che fan cerchio intorno al «caro padre», e piangono che lo veggono partire. Il suo partire è espresso con la frase «venir manco», che è partire e morire, come se la casa dovesse restar sempre vota di lui, come se temessero di non vederlo piú. Eccolo in cammino. Il suo fianco è «antico», grave d’anni; il suo camminare è un trascinare, «trarre l’antico fianco»; alla fiacchezza dell’etá s’aggiugne la lunghezza del cammino, «rotto dagli anni e dal cammino stanco»: come v’intenerisce questo vecchio che passa cosí faticosamente le ultime, «le estreme giornate di sua vota»! Eppure c’è qui qualche cosa che vi rialza, che ci fa guardar questo vecchio con ammirazione, che ci fa dir: — Quanto è bello! — . Ne’ suoi sforzi sentite la forza della volontá che comanda al corpo e gli dice: — Avanti!— : «col buon voler s’aita»; nella sua faccia animata leggete ardire e gioia della speranza di veder Cristo in terra, Cristo che, giá pieno del pensiero d’una morte vicina, «spera di vedere in Cielo»; e giunge portato innanzi meno dal corpo che dal desiderio, «seguendo il desio». [p. 100 modifica]

Come questo vecchierello è per il Petrarca un modello, che egli con immaginazione concitata guarda e dipinge, cosí la sua emozione amorosa è poco piú che un concitamento dell’immaginativa. I suoi sentimenti, i suoi pensieri, la sua amata si trasformano in un modello ideale. Dove Dante mira per lo piú al grande ed al grandioso, il Petrarca mira al bello ed al grazioso! l’uno guarda in grosso, l’altro analizza; l’uno ha non so che selvaggio e rozzo, che annunzia una forza non ancora educata, l’altro è sempre elegante, misurato, gentile, e va fino al raffinamento ed alla ricercatezza. Nell’uno senti in mezzo alla visione poetica il tumulto e il bollore della vita reale; nell’altro ci è una tendenza a separarsene, o, per dir meglio, un desiderio di essa, privo di forza; il che lo conduce a poco a poco a quella tristezza filosofica, a quello stato solitario e contemplativo, il quale si manifesta solo in popoli passati per molte prove e per molte illusioni. L’uno nella sua austeritá è giovanissimo, di una giovinezza quasi ancor barbara e indisciplinata; l’altro nella sua eleganza sente di vecchio ed annunzia una civiltá piú raffinata.

  1.                                     Lassare il velo o per Sole o per ombra...
    Volgendo gli occhi al mio novo colore...