Scritti sulla storia della astronomia antica - Volume II/XIV. - Sui Parapegmi o Calendari astro-meteorologici degli antichi/VI. - Metone, Eutemone, Eudosso, Filippo e Callippo

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VI. - Metone, Eutemone, Eudosso, Filippo e Callippo

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XIV. - Sui Parapegmi o Calendari astro-meteorologici degli antichi - V. - Primi studi sul grande anno e sui cicli luni-solari; Cleostrato, Arpalo, Enopide, Filolao; Democrito e il suo Parapegma XIV. - Sui Parapegmi o Calendari astro-meteorologici degli antichi - VII. - Conone, Dositeo, Critone, Parmenisco, Ipparco, Giulio Cesare, Metrodoro, Osservatori Caldei ed Egiziani
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VI. Metone, Eutemone, Eudosso, Filippo e Callippo.


Nessuno dei sistemi proposti per il grande anno lunisolare ha raggiunto la fama di quello, che oggi ancora sotto la denominazione di Numero Aureo è usato nei calcoli del calendario ecclesiastico. Questo ciclo1, che ragguaglia con notabile precisione 19 anni solari con 235 lune, fu inventato in Atene e pubblicato ai tempi di Pericle dal celebre Metone (470-410) figlio di Pausania, nativo di Leuconoe borgo dell’Attica; onde talvolta è detto anche Ateniese. Dall’astronomo Faino, già più sopra nominato, aveva appreso il modo di determinare l’epoca dei solstizi, e si applicò egli stesso ad analoghe osservazioni; dalle quali, comparate con quelle del suo maestro, determinò in giorni 365 5/19 la durata dell’anno solare con esattezza notevolmente maggiore che quella dei suoi predecessori, benchè l’errore sia ancora di circa mezz’ora in più. Combinandola con quella della rivoluzione sinodica dalla Luna, trovò di poter rappresentare 19 di tali anni con 235 lunazioni, riconducendo [p. 259 modifica]così i due astri allo stesso punto dopo 6940 giorni2. Egli costituì pertanto un ciclo di questa durata, distribuendolo rispetto alla Luna in 110 mesi cavi e 125 pieni, in modo che ad ogni mese corrispondesse sempre con sufficiente esattezza una lunazione effettiva; e rispetto al Sole in 12 anni comuni (di 12 mesi) e in 7 anni intercalari (di 13 mesi) cosi avvicendati, da ottenere che il principio d’ogni anno si discostasse non più di tre settimane dal momento del solstizio estivo.

Metone fece conoscere questa sua scoperta l’anno 432 avanti Cristo; e non solo in Atene, ma anche in altri luoghi della Grecia furono esposti pubblicamente quadri comprendenti per tutta la durata di un intiero ciclo non soltanto la distribuzione degli anni comuni ed intercalari, dei mesi pieni e cavi: ma altresi per ogni anno del ciclo le date dei solstizi, il principio delle stagioni, e probabilmente le epoche religiose e civili più importanti. In una sezione o tabella complementare era il parapegma o calendario astrometeorologico propriamente detto; nel quale in correlazione alle epoche fondamentali dei due solstizi era esposta la successione e la distribuzione, per l’intervallo di 365 giorni, dei fenomeni, il cui ritorno è strettamente legato al Sole; cioè il levare e l’occaso delle principali stelle, e le episemasie o pronostici meteorologici. Di questa parte del calendario Metonico sono giunti sino a noi alcuni pochi frammenti, insufficienti a dir vero per soddisfare la nostra curiosità; non comprendendo che le indicazioni per 8 o 10 giorni al più. Tuttavia da esse si può rilevare che il contenuto e la disposizione era identica a quella dei parapegmi di Democrito e degli osservatori più recenti. Perchè dopo i tempi di Metone e di Democrito, tali composizioni furono in grande favore, e non v’ebbe quasi astronomo di qualche nome per più secoli, che non si credesse in dovere di proporre il suo parapegma, dimostrante in compendio il risultato delle osservazioni da lui fatte sul levare e sull’occaso delle stelle, sui solstizi ed equinozi, e sulle mutazioni dell’atmosfera. E che il pubblico apprezzasse molto il valore delle predizioni ed [p. 260 modifica]avesse nelle medesime grande confidenza è attestato dal numero considerevole di parapegmi di cui si è conservata memoria. Quello di Metone fu ricevuto con plauso generale, e la fama se ne conservò lungo tempo non solo presso i Greci, ma anche presso i Romani. Scrive Diodoro Siculo: «Quest’uomo (Metone) sembra essere stato molto fortunato nell’annunziare i fenomeni delle stelle; esse infatti si muovono proprio secondo le sue indicazioni, e producono le variazioni di tempo da lui annunziate. Perciò fino ai nostri giorni quasi tutti i Greci si valgono del ciclo di 19 anni e non si sbagliano punto». Sembra tuttavia che l’introduzione del nuovo computo non si facesse in Atene senza qualche difficoltà, in mezzo ai trambusti politici della guerra del Peloponneso. Aristofane, che non dubitò di esporre in iscena alle pubbliche risa un uomo come Socrate, ha posto in burletta anche l’invenzione di Metone, senza però nominarne l’autore. Nove anni dopo la sua pubblicazione, fu data la prima rappresentazione delle Nuvole; nelle quali il poeta introduce la Luna a lamentarsi, che gli Ateniesi non sanno più ordinare a dovere il corso dei mesi; gli Dei immortali, disorientati col nuovo orario dei pubblici sacrifizi, sono talvolta costretti a tornare a casa senza cena. Ecco in qual modo Augusto Franchetti ha reso in italiano questo lepido pezzo, che termina la parte prima della commedia. Parlan le nuvole:

La luna, mentre a venir ci apprestavamo,
     Scontrata abbiamo; la quale ha voluto
     Darne incombenza che prima facessimo
     A quei d’Atene ed ai soci un saluto;

E poi v’avessimo a dir, ch’ella è in collera
     Per gravi offese da voi sconoscenti
     Recate a lei, che v’è tanto benefica,
     Non a parole, ma a fatti patenti.

Già vi risparmia una dramma di fiaccole
     (Non meno!) al mese; esce ognuno dicendo;
     = La torcia, bimbo, non stare a comprarmela,
     Stasera! è un lume di luna stupendo! =

E aggiunge pure, che ha molti altri meriti,
     Ma che, mentr’ella a giovarvi s’adopra,
     Mal voi serbate dei giorni la regola,
     Ed ogni cosa mettete sossopra;

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Sicchè dai Numi ha minacce e rimproveri,
     Che tornan su della cena frodati,
     E a’ di prefissi, una festa non trovano;
     Quand’è stagion d’offrir ostie ai Beati

Date i tormenti, o sedete da giudici;
     Spesso cadendo il digiuno divino,
     Mentre piangiamo Mennone o Sarpèdone,
     State libando a gioioso festino.

Però quest’anno sortito era Iperbolo
     Hieromnemòne; e gli abbiamo, noi Dive,
     Strappato il serto; avrà appreso che l’ordine
     S’ha da tener che fa lama prescrive!


Ma nella commedia degli Uccelli, recitata alcuni anni più tardi, vi è anche di peggio: Metone è rappresentato in persona come un visionario ed un ciurmatore; almeno per tale crede di descriverlo Aristofane, dicendo che egli misura l’aria, e si offre a disporre le strade della nuova città secondo i principi di geometria! Tutto questo non ha impedito che il nome di Metone giungesse alla fama, che giustamente gli era dovuta. Ancora assai tempo dopo si mostrava l’eliotropio, eretto da lui nel luogo delle pubbliche assemblee, detto Pnyx; col quale apparato aveva determinato il suo solstizio fondamentale, o l’epoca principale del suo calendario. Ed in Colono, sobborgo d’Atene si mostrava un monumento astronomico3, consacrato da lui per tramandare ai posteri la sua importante scoperta.

Al nome di Metone si trova talvolta associato presso gli scrittori quello di Eutemone (460-390), il quale pare fosse suo coadiutore nelle osservazioni astronomiche e di lui alquanto più giovane. Non solo egli proseguì con zelo lo osservazioni dei solstizi, alle quali seppe dare un notevole grado di precisione; ma pare che sia stato il primo a determinare con esattezza altresì le epoche degli equinozi. Come è ben noto, gli equinozi servono a determinare la durata dell’anno solare con molto maggior precisione, che i solstizi, ma il metodo per la loro osservazione non è altrettanto ovvio, e richiede già certe nozioni geometriche sulla natura del moto apparente del Sole. Già Democrito aveva diviso l’anno in quattro parti per mezzo degli equinozi e dei solstizi, ma egli supponeva che tali parti [p. 262 modifica]fossero Fra loro eguali. Invece Eutemone dalle sue osservazioni fu condotto ad una scoperta capitale, che dovette allora sembrare molto imbarazzante. Egli trovò che il Sole impiega intervalli diversi di tempo a percorrere i quattro quadranti del circolo zodiacale, compresi fra i punti equinoziali e solstiziali4. Tali intervalli, a partir dal solstizio estivo, risultavano di 91, 89, 92 e 93 giorni. Eutemone li assunse come punti fondamentali del parapegma astrometeorologico, nel quale compendiò le molte osservazioni da lui fatte in Atene, in Macedonia, ed in Tracia. Di questo parapegma sono giunte sino a noi circa 70 indicazioni.

Celeberrimo tra tutti i parapegmi fu quello pubblicato da Eudosso di Cnido (406-350). Il suo nome, quando si discorre di geometria, è dagli antichi accoppiato con quello d’Archimede, e quando si tratta di astronomia è messo al pari con quello d’Ipparco. Ad Eudosso si deve la prima notizia sicura dell’anno di 365 ¼ giorni, che divenne poi di tanta importanza nella cronologia. Forse durante il suo soggiorno in Egitto ne apprese la cognizione da quei sacerdoti, i quali si crede generalmente che da molti secoli ne fossero in possesso, e lo deducessero dall’osservazione assidua del levare eliaco di Sirio, il cui periodo per tutta la durata dell’impero Faraonico fu veramente di 365 ¼ giorni quasi esatti. Non è impossibile tuttavia, che Eudosso la deducesse dal confronto dei solstizi e degli equinozi determinati da Faino, Metone, ed Eutemone, con quelli che ancora al suo tempo si potevano osservare in Atene all’eliotropio dello Pnyx. E può essere ancora, che il consenso delle osservazioni greche e delle tradizioni egiziane lo abbia condotto a stabilir l’anno di 365 ¼ giorni come base del suo calendario. Comunque ciò sia stato, dobbiamo ad Eudosso la prima idea (chè fra gli Egiziani anteriori non se ne trova traccia) di un ciclo quadriennale di 1461 giorni solari, analogo a quello che oggi adoperiamo per l’intercalazione del bisesto. Già altri cicli quadriennali erano in uso presso i Greci assai prima, ma il loro principio era diverso, siccome sopra si è detto delle Olimpiadi; eran regolati sulla lunazione di 29 ½ giorni, e solo in modo secondario e poco esatto vi si teneva conto del moto del Sole. [p. 263 modifica]

Considerando dunque che ogni 1461 giorni il Sole ritorna a prendere il medesimo luogo nell’eclittica alla medesima ora del giorno, Eudosso adottò questa durata come rappresentante il vero periodo degli influssi solari, dei quali l’anno di 365 o 366 giorni offriva il ritorno soltanto approssimato. Tale idea è esposta da Plinio nei seguenti termini: Omnium quidem (si libeat observare minimos ambitus) redire easdem vices quadriennio exacto Eudoxus putat, non ventorum modo, verum et reliquarum tempestatum magna ex parte. Et est principium lustri ejus semper intercalario anno, caniculae ortu (Hist. Nat. II, 17). E Columella, discorrendo del numero d’anni necessario per esperimentare tutte le qualità di un fondo: Sed ubi plurimis velut emeritis annorum stipendiis fides surculo constitit, nihil dubitandum est de foecunditate. Nec tamen ultra quadriennium talis extenditur inquisitio; id enim tempus fere virentium generositatem declarat, quo Sol in eandem partem signiferi per eosdem numeros redit, per quos cursus sui principium coeperat. Quem circuitum meatus dierum integrorum mille quadringentorum sexaginta unius ἀποκατάστασιν vocant studiosi rerum caelestium. (De re rustica, lib. III, cap. VI). Questo ciclo essendo puramente solare, non corrisponde al ritorno della Luna: epperò gli effetti sull’atmosfera e sulla vegetazione si restituiscono soltanto magna ex parte, siccome dice Plinio. Per tener conto degli influssi lunari Eudosso ritornò all’antica ottaeteride; duplicando il ciclo precedente formò così il suo anno grande di 2922 giorni solari, ai quali corrispondevano approssimativamente 99 lunazioni di giorni 2923 ½. La differenza di un giorno e mezzo sarebbe stata intollerabile in un ciclo destinato a regolare la cronologia, nè certo poteva quel grande astronomo ignorare il ciclo tanto più esatto di Metone5. Ma trattandosi semplicemente del [p. 264 modifica]rinnovarsi delle identiche combinazioni d’influssi solari e lunari, la differenza di un giorno e mezzo in capo ad otto anni non era tale da influire grandemente sul ritorno delle stagioni e degli effetti solari; dei quali la variazione in tale intervallo, ed anche durante un intervallo doppio o triplo poteva considerarsi come poco sensibile. Il significato meteorologico dell’ottaeteride è indicato chiaramente nel seguente passo di Plinio (Hist. Nat. lib. XVIII, cap. 25): Indicandum est et illud, tempestatetes ipsas cardines suos habere quadrinis annis, et easdem non magna differentia reverti ratione Solis; octonis vero augeri easdem, centesima revolvente se Luna.

Nondimeno si può domandare, perchè all’intento di formare un grande anno meteorologico Eudosso non abbia preso per base il ciclo di Metone. Due motivi potevano indurlo a questo. Primo, un ciclo di 19 anni eguali ciascuno a 365 ¼ giorni non dà un numero intiero di giorni. Secondo, un tal periodo è troppo lungo perchè un solo osservatore possa studiare con esso il rinnovamento degli influssi meteorici. Fra tutti i cicli possibili l’ottaeteride è il più breve, che riconduca approssimativamente i periodi del Sole e della Luna; e perciò fu adottato da Eudosso. Posta dunque da banda ogni supposizione concernente il ritorno ad una forma di calendario antiquata e già reietta, noi dobbiamo considerare l’ottaeteride presso Eudosso come un modo di ordinare periodicamente le osservazioni delle meteore secondo gli influssi combinati del Sole e della Luna. E dobbiamo supporre, che egli, o solo, o con aiuto d’altri osservatori abbia continuato le annotazioni almeno per otto anni, onde esaurire tutte le possibili combinazioni dei due astri. E di questa serie d’osservazioni o del parapegma ottennale su di esse composto parlano gli antichi scrittori quando dicono che l’ottaeteride fu inventata da Eudosso e nominano il libro da lui pubblicato con questo nome. L’idea di studiare le variazioni del tempo per tutta questa durata fu seguita anche da altri osservatori, e così si citano Dositeo e Critone come autori di una ottaeteride eudossiana: espressione

[p. 265 modifica]che non avrebbe alcun senso, se si volesse intendere di un semplice ciclo astronomico. Sventuratamente di questi grandi lavori non sono restati che pochi ed oscuri cenni, dai quali appena è possibile riconoscerne la vera natura. Numerose indicazioni però ci restano del parapegma solare di Eudosso, cioè delle apparizioni stellari e dei pronostici in quanto si riferiscono unicamente alla posizione del Sole nell’eclittica. Del come fossero utilizzate le osservazioni dell’ottaeteride per studiare la parte d’influsso dovuta alla Luna, non sappiamo nulla.

Le episemasie citate col suo nome ascendono al numero di circa 120, ma ben altre molte sono passate negli antichi calendari romani senza indicazione particalare del loro autore6.

Filippo Locrese (390-320), detto anche Filippo di Mednia o Filippo d’Opunte dalle città dove nacque o fu cittadino, è annoverato fra i più illustri ornamenti dell’Accademia, ed ebbe l’incarico di pubblicare e completare le opere postume di Platone. Fu il primo, di cui si riferiscano i tentativi per determinare la grandezza del globo terrestre. Egli fece anzi di più; geometra valente qual era, ebbe l’ardire d’investigare anche le distanze e le grandezze del Sole e della Luna. Osservò lungamente i fenomeni del cielo e dell’atmosfera nella Locride, nella Focide, e nel Peloponneso; restano del suo parapegma circa 20 episemasie. Scrisse anche un trattato Sui venti; nel che era già stato preceduto un secolo prima da Acrone, medico di Agrigento (450).

Callippo Giziceno (380-310), amico e contemporaneo d’Aristotele, occupa nella storia dell’Astronomia un posto distinto per la sua riforma del sistema cosmico d’Eudosso, per diligenti osservazioni equinoziali e solstiziali, e per la precisione con cui il corso del Sole e della Luna sono rappresentati nel grande anno da lui proposto, che fu poi chiamato il periodo callippico. Esso abbraccia 76 anni solari di 365 ¼ giorni e contiene quindi in tutto 27759 giorni ripartiti in 940 mesi, di cui 499 pieni, e 451 cavi. Dei 76 anni del ciclo 28 sono intercalari o di 13 mesi, gli altri 48 sono comuni. Non è altro insomma che il ciclo di Metone quadruplicato, a cui sulla fine è stato detratto un giorno. Il periodo callippico, come notabilmente più esatto di quello di Metone tanto pel Sole quanto per la Luna, fu per [p. 266 modifica]vari secoli in uso presso gli astronomi greci; ma a cagione della sua eccessiva lunghezza non pare sia stato mai applicato al calendario civile, e certamente mai non lo fu agli studi di meteorologia. Nondimeno Callippo è da annoverarsi fra i più zelanti cultori di questi studi. Nel suo parapegma, del quale restano più di 60 indicazioni, i quattro intervalli disuguali in cui l’anno è diviso dagli istanti degli equinozi e dei solstizi sono assegnati con precisione assai maggiore che presso i suoi predecessori Democrito, Eutemone ed Eudosso. Le sue osservazioni diconsi fatte in luoghi vicini all’Ellesponto, da cui del resto Cizico sua patria non era molto lontana.

Quali frutti avessero dato alla scienza le osservazioni diligenti di tanti valenti uomini possiamo argomentarlo leggendo i quattro libri della Meteorologia d’Aristotele, dove per la prima volta questo ramo di studio si trova trattato separatamente dall’Astronomia e raccolto in un corpo di dottrina fondata sull’osservazione e sull’analogia. Certamente la fisica che ad esso serve di base lascia molto a desiderare; e delle proprietà occulte si fa un’applicazione troppo frequente. Tuttavia quando si tenga conto dell’epoca in cui fu scritta, si deve confessare che è sempre una cosa ammirabile e degna di quel grande intelletto.

In altre sue opere Aristotele fa continuo uso dei fenomeni del levare e del tramonto delle stelle per determinare le epoche di molti fatti periodici del regno animale e del regno vegetale; e si potrebbe da queste indicazioni insieme raccolte formare un calendario dei fenomeni della natura organica nello stile tenuto da Quételet per la fioritura delle piante.

Note

  1. Il ciclo di Metone è nominato anche da Arato (Arati Solensis Phaenomena etc. curavit I. T. Buhle. Lipsiae, 1793) vv. 752, 753:

    ....τὰ γὰρ συναείδεται ἤδη
    Ἐννεακαὶδεκα κύκλα φαεινοῦ ἡελίοιο

    ....concinunt enim iam
    Novem et decem circuli lucidi Solis.

    Il commentatore dà notizie su Metone, che non dovranno trascurarsi.

  2. Secondo i dati moderni 19 anni fanno giorni 6939,60 e 235 lunazioni danno giorni 6939,69; il ragguaglio di 19 anni con 235 lunazioni è dunque assai prossimo al vero; non altrettanto si può dire del numero 6940 dei giorni solari assegnati al ciclo, il quale è in eccedenza di quasi 10 ore rispetto al Sole e di 7 ½ ore rispetto alla Luna.
  3. De Metonis monumento vide Maass, Aratea, p. 13.
  4. De anno Eutemonis vide Maass, Aratea, p. 143.
  5. Quegli eruditi, i quali credono che Eudosso abbia risuscitata l’ottaeteride soltanto per uso del Calendario, non sapendo come spiegare questo regresso rispetto al computo di Metone, hanno supposto che il ciclo d’Eudosso non fosse di una ottaeteride sola, ma di venti ottaeteridi o 160 anni; in capo ai quali la differenza di 1 ½ giorni qui sopra accennata, accumulandosi, riesce a formare una lunazione intiera di 30 giorni. Questa, omessa in capo a 160 anni, ristabiliva, secondo loro, raccordo fra il computo lunare ed il solare. Noteremo a questo proposito, che l’uso di questo ciclo di 160 anni non è attestato che assai vagamente da un solo autore, il quale sembra piuttosto che l’abbia inventato per suo conto, e ad ogni modo non nomina affatto Eudosso. La celebrità di questo astronomo non avrebbe certamente lasciato in ombra così densa la memoria del ciclo di 160 anni, se egli ne fosse stato l’inventore. Gli scrittori concordemente attribuiscono ad Eudosso una ottaeteride composta di due lustri quadriennali, della quale il significato non può essere che principalmente meteorologico, siccome risulta chiaramente dalle ragioni addotte qui sopra. Inoltre si può riflettere che una intercalazione a così lunga scadenza (160 anni) era affatto fuori dell’uso e delle idee degli antichi.
  6. De Eudoxi et Eratosthenis octaeteride vide Maass, Aratea, pp. 14, 15 e 16.