Sino al confine/Parte I/Capitolo II

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II.


I giorni si seguivano e si rassomigliavano. La signora Zoseppa e Paska si alzavano all’alba; accudivano assieme alle faccende domestiche, pregando o chiacchierando, e più che padrona e serva parevano amiche intime. Forse una volta la serva aveva avuto una personalità sua, forse era stata allegra, giovane, egoista: ciò si perdeva nella notte dei tempi. Entrata al servizio dei Sulis lo stesso giorno delle nozze dell’impresario, era diventata una creatura della signora Zoseppa; ne aveva assunto i modi, la pronunzia, la severità, era diventata austeramente religiosa come la sua padrona; l’aveva assistita nei parti, nelle malattie, l’aveva aiutata ad allevare i figli, ed ora l’accompagnava nel lento declino d’una vita che era esclusivamente di lavoro e di virtù.

— Fino ai trent’anni sono stata incerta se prender marito o no, — raccontava la padrona alla serva, mentre pulivano il grano o impastavano la farina. — I partiti non mancavano: ma io avevo paura del matrimonio. Mia madre era una santa; mio padre, tu lo hai conosciuto, Dio lo abbia in gloria, abusava [p. 32 modifica]della pazienza e della bontà di lei; e lei era contenta di soffrire, come i santi martiri. Io, non per vantarmi, tu lo sai, anch’io sono prudente e paziente, ma non fino al punto di farmi bastonare! Sì, una volta, ora te lo posso dire, scopersi una cosa. Mia madre portava il cilizio! Provai anch’io, quand’ero giovane, ma non potei resistere. Poi rimasi sola, senza padre, senza madre, sola come una fiera nella foresta. Ed allora venne in mente al canonico Sulis, allora semplice prete, di farmi sposare suo fratello. Luigi aveva già quarantotto anni; io ne aveva quasi trenta: il nostro matrimonio quindi non poteva dirsi una ragazzata; uno di quei matrimoni di passione che per lo più finiscono male. E perchè finiscono male? Perchè quasi sempre la donna e l’uomo si uniscono spinti da un desiderio peccaminoso, senza saper bene quello che si fanno. E quando sono stanchi del loro peccato diventano due nemici. Io e mio marito, invece, abbiamo formato una famiglia secondo i voleri del Signore, e finora, tu lo sai, l’accordo più perfetto è regnato fra noi.

Spesso Gavina aiutava le due donne e ascoltava i racconti e i precetti materni. Intelligente e fantastica ella sapeva, per istinto, quali sono i divini piaceri della vita: l’amore, la libertà, la gloria: ma aveva un rispetto immenso per sua madre, che era la virtù in persona e che dava forza ai suoi precetti con [p. 33 modifica]le sue azioni. Dall’esempio materno l’anima di Gavina riceveva un’impronta indelebile, come il pane manipolato da Paska e dalla signora Zoseppa conservava le impronte dei bottoni filigranati e delle «forme» con cui le due donne lo decoravano.

Da qualche giorno dunque ella credeva di commettere quello che sua madre chiamava il più grave dei peccati. Pensava ad un uomo; e per di più quest’uomo era quasi consacrato a Dio. Il sabato, dopo la visita del canonico Felix, ella dovette alzarsi prestissimo per aiutare la madre e la serva a fare il pane, nella cucina calda e silenziosa dal cui forno usciva il fumo odoroso del legno di ginepro. Stanca di gramolare la pasta, di tanto in tanto ella coglieva un pretesto per uscire nell’orto. Vide la stella del mattino tramontare dietro le montagne azzurre, e l’oriente, fra i rami dell’elce, colorarsi di un rosa violaceo; poi tutto l’orizzonte si fece d’oro, gli uccelli cantarono, ed ella provò un impeto di gioia, un desiderio di partire, di andare in una città fantastica, circondata di palme, non lontana dal mare! Invece dovette rientrare e riprendere a gramolare la pasta, e quando il pane fu cotto dovette pulirlo e raschiarlo con una spazzola ed un coltello. Ad un tratto avvicinò il coltello caldo alle labbra e senti un brivido, sembrandole che Priamo la baciasse: chiuse gli occhi ed ebbe desiderio di ritentare [p. 34 modifica]la prova, ma subito s’accorse che peccava, e per punirsi lasciò a lungo il coltello sul pane caldo poi se lo fissò così scottante sulle labbra.

Ma verso il crepuscolo si affacciò alla finestra e rivide Priamo, che tutte le sere andava dal canonico Sulis per prendere lezioni di latino, e quando egli la guardò, ella provò la stessa impressione di voluttà dolorosa che le aveva destato il contatto del coltello ardente sulle labbra.

Ella non usciva quasi mai di casa se non per andare in chiesa, e solo qualche volta accompagnava Paska ad una fontana che era fuor di paese. Quella sera, appunto, presa da una smania insolita, da un desiderio di moto e d’aria, s’attaccò al braccio della serva e la trascinò con sè.

Attraversarono la «piazzetta» senza por mente agli scherzi della solita brigata, e s’internarono nel vicinato dei poveri. La viuzza tortuosa era illuminata dalla luna; l’aria odorava di stoppie bruciate; e qua e là, accoccolate sulla polvere, s’intravvedevano figure nerastre, di donne stanche, di uomini reduci dalle campagne infuocate. Tutti discorrevano dei loro miseri affari; gli uomini parlavano dei loro buoi come di compagni di lavoro e di sventura, e le donne si lamentavano per la scarsità del raccolto. Esse non mangiavano mai frutta, tranne quelle che i loro uomini riuscivano a [p. 35 modifica]rubare, e ne parlavano come i malati che hanno una gran sete.

— Paska, signora Gavì, avete mangiate molte pere? — domandarono, vedendo Gavina e la serva attraversar la viuzza.

Gavina non amava tutta quella gente dal linguaggio libero, quelle donne sporche e golose, quegli uomini che non rispettavano la roba altrui, e quindi passò in fretta, stringendo il braccio a Paska: ma giunta allo svolto, tra la viuzza e lo stradale, si fermò davanti al portone spalancato di una casetta bianca, meno misera delle altre. La luna illuminava un grazioso quadretto, al quale serviva di cornice l’arco del portone: su uno sfondo scuro d’atrio si scorgevano, davanti a una rozza mangiatoja, due buoi neri macchiati di bianco e un asinello grigio; più in qua sedevano, su una panca di pietra, un uomo anziano, calvo, con una lunga barba grigia intorno ad un viso nobile e calmo, ed una fanciulla il cui piccolo viso cereo, circondato da una benda nera, sarebbe parso cadaverico senza l’ardore e lo splendore di due grandi occhi verdastri, lunghi e felini. Con una figura di bimbo il quadretto sarebbe parso quello d’un presepio.

Quando vide le due donne la fanciulla si alzò di scatto e i suoi occhi brillarono alla luna.

— Michela, vieni con noi? — disse Gavina. — La lasciate venire, zio Bustià? [p. 36 modifica]

— Figuriamoci, «sennoricca»! — disse l’uomo, che era un contadino benestante, al quale il signor Sulis chiedeva spesso consigli agricoli.

Michela prese il braccio di Gavina e le disse con voce bassa e appassionata!

— Ti aspettavo! Perchè ieri notte non sei venuta?

— E se volevi vedermi potevi venire a casa! — rispose Gavina con lieve tono di beffe.

— Ho avuto tanto da fare! mio padre è ritornato ed ha portato a casa il frumento. Poi abbiamo degli inquilini.

Paska, che non vedeva di buon occhio l’amicizia tra Gavina e la figlia d’un contadino, e quindi trattava Michela con disprezzo, s’interessò agli inquilini.

— E da quando li avete?

— Da ieri. Abbiamo loro affittato le due camerette lassù.

Paska si volse. E alla finestruola del primo ed unico piano della casetta, accanto a un vaso di sughero dal quale spioveva la chioma grigiastra d’una pianta di garofani, vide una testa di ragazzo coi capelli rasi, neri e lucidi e come di velluto, e il viso scuro e scarno rivolto alla luna. Egli fischiava e pareva non accorgersi affatto delle donne che attraversavano la strada.

— È uno studente. Deve studiare anche nelle vacanze; ed ha fatto venire la madre dal suo paese. [p. 37 modifica]

— Son ricchi?

— Figurati quanto son ricchi se vengono a stare in casa nostra! Vivono con cinquanta centesimi al giorno! La madre è una filatrice. Senti che storia! A dodici anni la fidanzarono ad un uomo di quaranta: dovevano sposarsi quando lei compiva i sedici anni; ma poco tempo prima ella s’innamorò di un giovane corriere, sai, uno di quelli che portano la posta da un paesetto all’altro sulle montagne, viaggiando a cavallo. Un giorno i due innamorati fuggirono: egli la portò con sè, sul cavallo, come una lettera! Poi riuscirono a sposarsi; ma un giorno il cavallo del corriere arrivò solo davanti alla Posta del paesetto. E il corriere fu trovato ucciso in mezzo alle macchie della ginestra fiorita, e mai si seppe chi l’aveva ucciso. La vedova dice che è stato l’altro: essa non si è mai consolata, e racconta che durante gli ultimi mesi della sua gravidanza — perchè ella era incinta, quando le uccisero il marito — pregava la creatura che aveva in seno di trasformarsi in maschio, se era femmina, per poter vendicare il padre! E nacque un maschio.

— E lui cosa pensa, ora?

— Chi, Francesco Fais? egli ride e canta tutto il giorno, mentre sua madre è selvatica come una lepre. La vedrai!

Gavina alzò le spalle. Ella non amava i poveri, e quindi non le premeva affatto di [p. 38 modifica]conoscere la vedova Fais. E siccome neppur Paska dava molta importanza alle sue chiacchiere, Michela cambiò discorso.

Ella capiva l’ostilità di Paska, e sentiva che anche Gavina, pur cercando la sua compagnia, non l’amava; ma appunto questa freddezza talvolta sprezzante dell’amica aumentava la sua sete d’affetto.

Finchè la serva rimase con loro ella parlò vagamente di sè e raccontò ciò che aveva fatto durante la giornata. S’era alzata all’alba, era stata in chiesa, s’era confessata e comunicata; aveva digiunato a pane ed acqua, come faceva ogni sabato; aveva lavorato e pregato tutto il giorno.

Arrivate alla fontana, che era un po’ al disotto dello stradale, Paska scese, e le due ragazze rimasero appoggiate al paracarri, davanti alla grande vallata grigia e nera alla luna. In fondo, sulle falde azzurrognole delle montagne lontane, ardevano grandi fuochi e pareva scaturissero dalla montagna stessa: i contadini per dissodare i terreni selvaggi incendiavano le macchie e talvolta erano intere brughiere che bruciavano e nelle sere scure il chiarore fantastico di questi fuochi illuminava la valle con un barlume rossastro come di luna al tramonto.

— Senti, Gavina! Devo dirti una cosa! — disse Michela, sottovoce e ansando. — Giura però che mi crederai! [p. 39 modifica]

— Ti crederò! Non occorre giurare! — rispose Gavina, con fierezza, credendo che Michela volesse rivelarle un segreto dolce e tormentoso come quello che ella stessa possedeva: ma ciò che l’amica le disse la riempì di meraviglia e di invidia.

— Ascolta! Ho «veduto» San Luigi! Ah tu non credi? Sì, sì, tu credi! Questa volta è davvero, non come quando mi è parso di veder la Madonna della Neve, nel nostro quadretto, aprire e chiudere gli occhi. Questa volta è vero!

— Dio! Dio! — sospirò Gavina, stringendole il braccio; ed entrambi vibravano, come se da un momento all’altro, davanti a loro, nelle ombre della valle, dovesse riapparire la santa visione.

— Come? Come? Racconta!

— Sì, oggi, al crepuscolo. Ero stanca. Sedetti un momento sulla scaletta esterna che dal cortile mena su al piano superiore. Era quasi buio, perchè la luna non arrivava al cortile. A un tratto sento come un suono di campane e vedo come la luce d’un lampo. E San Luigi attraversò il cortile. Non mi guardò: teneva gli occhi bassi, una crocetta in mano.

— Tu sei fortunata! Tu sei in grazia di Dio, Michela! Io non sono mai riuscita a «vedere!» — disse Gavina; e lagrime di umiliazione e d’invidia le velarono gli occhi, poichè ella si credeva degna della grazia almeno quanto la figlia del contadino! [p. 40 modifica]



Dopo il racconto dell’apparizione di San Luigi Gavina s’impressionò talmente che volle tentare anche lei una prova decisiva. Digiunò e cominciò un merletto per un camice di suo zio; e lavorando pregava e invocava San Luigi, poichè era il giovine santo dai grandi occhi puri che ella desiderava vedere.

Ma il primo giorno la prova fallì. Troppe cose la distraevano; udiva le chiacchiere di Paska, le domande che suo padre, seduto fuor della porta, rivolgeva ai passanti: e doveva spesso stizzirsi perchè Luca ogni tanto, cauto come un ladro, andava a bere in cantina. Sul tardi, poi, ella vide Priamo che si volse a guardarla.

Il secondo giorno stette a lavorare nella sua camera, accanto alla finestra che dava sull’orto; ma nell’ora in cui il seminarista si recava dal canonico Sulis fu tentata di correre alla finestra verso strada. Respinse questo desiderio che in quel giorno le sembrava oltre ogni dire peccaminoso, ma pensando al Santo lo vedeva pallido in viso, con gli occhi languidi fissi nei suoi, la fronte corrugata e cinta da una fascia di capelli neri. Non era San Luigi, era Priamo! Il tramonto tinse di [p. 41 modifica]rosso le montagne, il crepuscolo scese sull’orto solitario; l’apparizione non venne! Il terzo giorno, vigilia della Madonna della Neve, ella digiunò a pane ed acqua e lavorò sino a tarda sera, finché sul cielo color malva serpeggiarono le strisce d’oro dei razzi lanciati dalla piazza della cattedrale. Ma l’apparizione non venne. Ella pianse d’angoscia e di desiderio. L’indomani era festa solenne: fin dalla mattina presto giunsero alcuni ospiti amici del signor Sulis, e fra gli altri una dama di un villaggio delle montagne, una donna alta e imponente, vestita di nero e di giallo, con la gonna ampia e il corsetto a punta come una dama del Seicento. Gavina l’accompagnò in chiesa, e assieme con lei s’inginocchiò fra due vecchi pastori che esalavano uno sgradevole odore d’ovile.

La chiesa era gremita di popolo; a un tratto la porta «maggiore» della cattedrale venne spalancata, e in mezzo a un torrente di luce s’avanzò il vescovo, tutto vestito d’oro, fra i canonici in mantellina di seta rossa e i seminaristi in camice di merletto e con nastri azzurri al collo. Due di essi reggevano lo strascico scintillante del vescovo: e uno era pallido e bello, simile ad un angelo triste, con le larghe maniche del camice ripiegate come ali stanche. Quando il corteo passò rasente alle panche, gli occhi torbidi dell’angelo triste s'incontrarono con quelli di Gavina; indi i [p. 42 modifica]seminaristi presero posto intorno al coro, e Priamo, abbandonato lo strascico del vescovo, non pensò ad altro che a cercare la fanciulla con lo sguardo. Pareva che egli non vedesse altro che lei, nella chiesa sfolgorante di luce e di colori, ed ella si sentiva mancare, sotto quello sguardo, ma le pareva d’essere la più corrotta fra le donne, causa di peccati, di ribellione a Dio, e avrebbe voluto piangere d’amore e di rimorso.

Nel pomeriggio ella accompagnò la dama a far visita al canonico Bellìa, compaesano dell’ospite dei Sulis.

Il confessore di Gavina viveva in una casetta quasi fuor del paese, con una sua vecchia parente ancora ingenua e semplice come una bimba. Gavina, che fuori e dentro del confessionale aveva una viva soggezione e quasi una misteriosa paura del suo austero confessore, sedette in un angolo della saletta che pareva una cappella, e stette silenziosa, rigida come una delle cento statuette sacre che la circondavano. Le donne chiacchieravano, ingenue ed amabili; il canonico Bellìa, alto e curvo, col viso olivastro solcato da rughe profonde, ascoltava senza mai sollevare le palpebre livide, e ogni tanto aggrottava le folte sopracciglia grigie, come disapprovando i discorsi, pur tanto innocenti, delle due donne. Solo una volta sorrise, quando la sua parente disse: [p. 43 modifica]

— Non facciamo come Bellìa: egli si lamenta che nessuno lo saluta, ed è invece lui che non guarda in viso la gente che incontra!

Ad un tratto l’uscio fu spinto e due figure nere apparvero: il canonico Felix e suo nipote.

Gavina arrossì; balzò in piedi, tornò a sedersi, vide Priamo e da quel momento non vide altro. Il canonico Felix disse con la sua voce placida:

— Fa fresco, oggi! È per questo che tutti i signori avevano il soprabito

— Fa caldo, in questa sala? — domandò premurosa la signora Bellìa. — Vogliamo un po’ uscire fuori? Vi faremo assaggiare le nostre albicocche.

Uscirono e assaggiarono le albicocche.

Priamo si slanciava in alto per afferrare i rami. Era agile e svelto, smanioso di moto; e parve dimenticare persino la presenza di Gavina per mettersi a correre nell’orto che era vasto e selvaggio e sparso di roccie come un lembo di montagna.

Gavina fu assalita da una vaga tristezza. Ella non prendeva parte alla conversazione dei canonici e delle donne, e senza la presenza di Priamo si sarebbe annojata. Mentre gli altri facevano il giro dell’orto, ella s’indugiò presso l’albicocco e sedette su una piccola roccia che aveva la forma d’un seggiolone ad alta spalliera. Il sole tramontava, rosso sul cielo [p. 44 modifica]d’oro, al di là della vallata del convento. S’udiva lo stridere d’un falco, si sentiva l’odore del verbasco: a un tratto, nel polviscolo roseo che le si stendeva davanti, Gavina vide come un’ombra sorgere e correre verso di lei, e si alzò, come assalita dalla paura di un pericolo inevitabile; ma prima ancora che si rendesse conto di quello che succedeva, si trovò stretta fra la roccia e il petto ansante di Priamo. Egli sembrava un altro: il suo viso era tragico e i suoi occhi avevano un’espressione di dolore selvaggio; le sue labbra tremavano e sfiorarono convulse quelle di Gavina. Ella provò un impeto di dolore e le parve di dover tutta la vita restare così, fra la roccia, una cui sporgenza le feriva la nuca, e il petto ansante di Priamo; ma non gridò, non si mosse, finchè un fruscìo, dietro gli alberi, non pose fine alla selvaggia dimostrazione amorosa del seminarista. Allora egli indietreggiò ed ella si guardò attorno smarrita.

— Io voglio vederti.... Dove? Dove? Io ti voglio bene, e tu pure.... a me.... Io non voglio farmi prete.... — egli disse, tentando di trattenerla; ma ella lo respinse, corse lontano, ebbra d’amore e di paura; e da quel momento fu presa da una ossessione di rimorso.

— Baciata! egli mi ha baciata! — pensava tremando. E le pareva di essere contaminata, e di aver già avute tutte le rivelazioni dell’amore. [p. 45 modifica]

Ma queste rivelazioni le parevano brutali. Era questo l’amore? Sì, era dolce, ma anche terribile: il bacio le aveva fatto male, l’aveva quasi ferita, come la roccia sulla nuca. Smaniosa di veder Michela per confidarle il suo struggente e triste segreto, quella sera andò con Paska alla fontana.

La notte era dolce e chiara come un crepuscolo; la luna saliva dietro una lievissima vaporosità violacea che copriva tutto il cielo pur lasciandone trasparire l’azzurro intenso, e in fondo alla valle i monti parevano nuvole d’argento. Michela aspettava ritta davanti al portone, scambiando qualche parola col suo giovine inquilino affacciato alla finestra. Egli rideva e diceva:

— .... ci son passato dieci volte, ma non l’ho veduta....

Quando vide Gavina ammutolì, e Michela disse, appena furono nello stradale:

— Francesco è innamorato di te, ma ha paura....

— Fa molto bene ad aver paura! — brontolò Paska.

— Ha fatto presto ad innamorarsi: non ha altro da fare? — disse Gavina con disprezzo: poi tacque, come immersa in un sogno; ma quando Paska scese alla fontana, ella s’appoggiò al paracarri e mormorò:

— Michela! se tu sapessi!...

E le raccontò che Priamo, dopo averle [p. 46 modifica]dichiarato il suo amore, aveva anche tentato di baciarla.

— Tu hai permesso questo, tu? — disse Michela con voce sorda. — Tu non dovevi permetterlo. Dovevi gridare.... chiamare lo zio!... Che peccato avete commesso, che peccato, che peccato! Tu devi confessartene.... domani stesso; ti accompagnerò io!

— Sì, sì, ho peccato! — ammise Gavina; e mentre l’altra, nel silenzio della notte soave, continuava a pronunziare parole di sdegno e di gelosia, ella pianse di rimorso e di passione.



Il canonico Bellìa era un confessore molto ricercato dalle donne. Sebbene severissimo riusciva a convincere ed a confortare le sue penitenti; e si diceva che avesse persuaso una donna di malaffare ad allontanarsi dal paese ed a farsi monaca.

Quando Gavina e Michela si avvicinarono al confessionale, già dieci o dodici penitenti aspettavano ansiose il loro turno, pronte a litigare se qualcuna di loro cercava di precedere le altre.

Gavina dovette aspettare a lungo, estenuata dal digiuno e umiliata dalla vergogna del terribile peccato che doveva confessare. Intanto rifaceva l’esame degli altri peccati, [p. 47 modifica]accusandosi d’invidia, di vanità, di superbia: pensava a Luca e chiamava «peccato d’intolleranza» l’ostilità ch’ella nutriva per lui.

Finalmente il canonico Bellìa, in mantellina violacea, uscì dalla sagrestia e s’avvicinò al confessionale, camminando a capo basso, con le sopracciglia aggrottate, un po’ curvo, come oppresso dal peso dei peccati non suoi.

Quando Gavina s’inginocchiò davanti alla piccola grata sentì un lieve capogiro; vide innanzi a sè un tenebrore violaceo, come di cielo tempestoso, e udì un sospiro, una voce tetra.

— Dite! Quanto tempo è che non vi confessate?

— Quindici giorni.

Dopo una breve pausa la voce tetra riprese energicamente, in modo che la domanda pareva rivolta ad uno che da anni ed anni fosse vissuto nel peccato mortale:

— Che avete fatto durante questo tempo?

Ella cominciò, piena di terrore ma anche di speranza, a poco a poco esaltandosi come il malato che spera di guarire dopo una pericolosa operazione. Cominciò dai «peccati piccoli» vanità, disobbedienza, intolleranza, parole inutili, chiacchiere oziose, compiacenza nell’ascoltare le persone maldicenti, tedio nel fare il bene! Il canonico sospirava e insisteva:

— Altro?

Ella disse che aveva dubitato dell’esistenza [p. 48 modifica]di Dio! E questo non era vero: ella aveva soltanto avuto paura di dubitare.

Egli non parve molto sorpreso. Sospirò, parlò di Renan e di Voltaire e disse che solo i pazzi possono mettere in dubbio l’esistenza di Dio.

— Altro?

Gavina si sentiva battere angosciosamente il cuore; ma cercava di allontanare, per quanto era possibile, il calice amaro. Disse di aver creduto ai sogni, alle vane apparizioni, ai fantasmi, e di avere invocato e atteso una visione celeste. Il canonico rispose che questo era peccato di superbia. I Santi appaiono solo ai santi, alle anime innocenti.

— Altro?

Il terribile momento era giunto. Ella disse con un soffio:

— Ho peccato di disonestà....

Nuovo sospiro del confessore, ma sospiro lungo, lento, quasi di soddisfazione. Pareva significasse «finalmente ci siamo!».

— Figlia mia, dite pure....

— Mi sono lasciata baciare da un giovine....

— Che relazioni avete con questo giovine? Ha egli buone intenzioni? I vostri genitori sanno che voi.... e lui....

Ella non respirava più. Come, come confessare l’abominevole cosa?

— Egli.... egli avrebbe buone intenzioni, ma non può! Egli.... egli.... [p. 49 modifica]

— Ha altri vincoli? È ammogliato?

— Egli.... deve farsi prete!

Il confessore non sospirò, questa volta; tacque come sbalordito, poi si soffiò il naso.

— Dio, Dio, che accadrà di me? — si domandava Gavina; e le pareva di essere davanti a un giudice che avesse facoltà di castigarla coi più crudeli tormenti, e la sua piccola anima si piegava come l’erba al vento, investita dal soffio di terrore che usciva da quel nascondiglio di legno ove un uomo era chiuso come il Signore nel tabernacolo.

E l’uomo terribile parlò:

— Figlia mia, quello che voi venite a dirmi è molto grave. Forse voi non ne capite neppure tutto l’orrore. Parlate, ditemi in tutti i suoi particolari il vostro gravissimo peccato.

Ella parlò, quasi fuori di sè, invasa da un folle desiderio di soffrire, di espiare. Esagerò: disse che aveva incoraggiato il seminarista, guardandolo, aspettandolo alla finestra, corrispondendo ai suoi sguardi persino in chiesa!

L’altro ascoltava, cupo; e quando la grande peccatrice tacque, egli riprese:

— Il vostro peccato è più grave d’un delitto. Avete voluto rubare un’anima a Dio! Quando voi capirete tutta la bassezza della vostra colpa non avrete abbastanza lacrime per piangere. Il peccato carnale è già per sè stesso il più grave e schifoso dei peccati, e, all’infuori del santo matrimonio, il Signore [p. 50 modifica]condanna tutti gli atti amorosi che insozzano le anime caste e pure! Voi avete già contaminata l’anima vostra, senza pensare che la vostra colpa è doppiamente grave perchè commessa con un uomo destinato al servizio di Dio. Voi piangete, figlia mia? Sì, piangete pure; pentitevi, pensate che la nostra vita è breve e che il Signore può anche castigarci su questa terra....

Egli continuò così per un bel pezzo. Gavina piangeva, come una bambina castigata, proponendosi di far penitenza, di staccarsi dalle vanità di questo mondo; ma nonostante il suo desolato pentimento, il confessore non le diede l’assoluzione.

— Fra tre giorni ritornate, — le disse, dopo averle imposto di recitare una lunga serie di preghiere. — Andate in pace.

Nonostante questo augurio ella se ne andò col cuore in tumulto e il viso in fiamme. Non era stata assolta! Le pareva d’essere scomunicata, e per tre giorni visse come un delinquente che ha commesso un delitto inutile ed ha paura di essere scoperto. Digiunava, pregava, si nascondeva: china sul merletto che pareva uscir dalle sue piccole mani per un fenomeno naturale, come le foglie dalla tenera fronda, ella sudava, impallidiva e provava dei capogiri; e il desiderio di veder Priamo e il rimorso per questo desiderio la struggevano lentamente. La sera del terzo giorno ella scese [p. 51 modifica]nell’orto e dovette appoggiarsi all’elce, tanto si sentiva debole e sfinita.

Gli ultimi splendori del crepuscolo illuminavano il cielo, che verso occidente sembrava tutto di madreperla: una voce cantava in lontananza, ed al suo tremolìo pareva s’accompagnasse il tremolìo della stella della sera e quello delle fronde dell’elce. E tanto era dolce l’ora che per un momento Gavina dimenticò le sue pene; e all’improvviso le parve che l’elce, al cui tronco appoggiava la tempia, fosse vivo e palpitasse. Questa rivelazione la riempì di gioia: fu presa da una smania di tenerezza verso l’albero, poi le parve che tutte le altre cose intorno si animassero, ed ella s’accorse che le amava, che viveva e palpitava con loro.

Provò un languore di ebbrezza, le gambe le si piegarono; abbracciò l’elce e chiuse gli occhi; e nel suo momentaneo delirio le sembrò che l’albero fosse Priamo.



Fu un attimo. Si scosse, riaprì gli occhi e tutto le parve mutato. Ecco, ella aveva peccato ancora! Le tenebre la riavvolsero; si gettò sul muricciuolo accanto all’elce, morsicò le pietre, fu ripresa dal suo odio per tutto ciò che era vivo e palpitava!