Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1890)/II

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II
I TOSCANI

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I III


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II.


I TOSCANI.


Mentre la coltura siciliana si spiegava con tanto splendore e lusso d’immaginazione, e attirava a sè i più chiari ingegni d’Italia, ne’ comuni dell’Italia centrale oscuramente, ma con assiduo lavoro, si formava e puliva il volgare. Centri principali erano Bologna e Firenze, intorno ai quali trovi Lucca, Pistoja, Pisa, Arezzo, Siena, Faenza, Ravenna, Todi, Sarzana, Pavia, Reggio.

Gittando uno sguardo su quelle antichissime rime, non ritrovi la vivacità e la tenerezza meridionale, ma uno stile sano e semplice, lontano da ogni gonfiezza e pretensione, e un volgare già assai più fino, per la proprietà de’ vocaboli ed una grazia non scevra di eleganza.

Trovo una tenzone di Ciacco dall’Anguillara, fiorentino, sullo stesso tema trattato da Ciullo. Nella cantilena di costui hai più varietà e più impeto, e concetti ingegnosi in forma rozza. Nella tenzone di Ciacco tutto è su [p. 20 modifica]uno stampo, in andamento piano, uguale e tranquillo, e in una lingua così propria e sicura, che non ne hai esempio ne’ più tersi e puliti siciliani. Comincia così:

Amante — O gemma leziosa,

Adorna villanella,

Che sei più virtudiosa
Che non se ne favella:
Per la virtude che hai,
Per grazia del Signore,
Ajutami, che sai,

Ch’io son tuo servo, amore1.


Donna — Assai son gemme in terra

Ed in fiume ed in mare,

Che fanno virtude in guerra,
E fanno altrui allegrare:
Amico, io non son dessa
Di quelle tre2 nessuna:
Altrove va per essa,
E cerca altra persona.

Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase, che ti annunzia un volgare già formato e parlato, si accompagna una misura e una grazia ignota alla nudità molle e voluttuosa della vita meridionale. E vaglia per prova la fine di questa tenzone, di una decenza amabile, così lontana dal plebeo, allo letto ne gimo, di Ciullo.

Donna — Tanto m’hai predicata,

E sì saputo dire,

Ch’io mi sono accordata:

Dimmi: che t’è in piacere?


Amante — Madonna, a me non piace

Castella, nè monete:
Fatemi far la pace
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Con l’amor che sapete.

Questo addimando a vui,
E facciovi finita.
Donna, siete di lui,

Ed egli è la mia vita.

Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua parlata, e sono i più acconci a mostrare a qual grado di finezza e di grazia era giunto il volgare in Toscana, massime in Firenze. Ecco alcuni brani di un altro dialogo di Ciacco:

— Mentr’io mi cavalcava,

Audivi una donzella:

Forte si lamentava,
E diceva: - ahi madre bella,
Lungo tempo è passato,
Che deggio aver marito,
E tu non lo mi hai dato.
La vita d’esto mondo

Nulla cosa mi pare.

— Figlia mia benedetta,

Se l’amor ti confonde

De la dolce saetta,

Ben te ne puoi sofferere.

— Per parole mi teni,

Tuttor così dicendo;

Questo patto non fina3,
Ed io tutta ardo e incendo;.
La voglia mi domanda
Cosa che non suole,
Una luce più chiara che il sole,

Per ella vo languendo.

In queste rappresentazioni schiette dell’animo, e non astratte e pensate, ma in casi ben determinati e [p. 22 modifica]scritti il poeta è sincero, vede con chiarezza istintiva quello s’ha a fare, e dire, come fa il popolo, e non esprime i suoi sentimenti, perchè non ne ha coscienza, tutto dietro alle cose che gli si presentano, dette però in modo che ti suscitano anche le impressioni provate dal poeta. A lui basta dire il fatto e la sua immediata impressione, senza dimorarvi sopra, parendogli, che la cosa in sè stessa dica tutto: semplicità rara ne’ meridionali, dov’è maggiore espansione, ma che è qualità principale del parlare fiorentino. Uno stupendo esempio trovi in questo sonetto della Compiuta donzella fiorentina, la divina Sibilla, come la chiama Maestro Torrigiano:

Alla stagion che il mondo foglia e fiora,
   Accresce gioja a tutt’i fini amanti:
   Vanno insieme alli giardini allora
   Che gli augelletti fanno nuovi canti,
La franca gente tutta s’innamora,
   Ed in servir ciascun traggesi innanti,
   Ed ogni damigella in gioi’ dimora,
   E a me ne abbondan smarrimenti e pianti.
Chè lo mio padre m’ha messo in errore4,
   E tienemi sovente in forte doglia:
   Donar mi vuole a mia forza Signore.
Ed io di ciò non ho desio, nè voglia,
   E in gran tormento vivo a tutte l’ore:
   Però non mi rallegra fior, nè foglia.

Un sonetto di Bondie Dietaiuti è similissimo a questo di concetto e di condotta, con minor movimento e grazia e freschezza, ma superiore d’assai per arte e perfezione di forma.

Quando l’aria rischiara e rinserena,
   Il mondo torna in grande dilettanza,
   E l’acqua surge chiara dalla vena,
   E l’erba vien fiorita per sembianza,

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E gli augelletti riprendon lor lena,
   E fanno dolci versi in loro usanza,
   Ciascun amante gran gioi’ ne mena,
   Per lo soave tempo che s’avanza.
Ed io languisco ed ho vita dogliosa:
   Come altro amante non posso gioire,
   Chè la mia donna m’ è tanto orgogliosa.
E non mi vale amar, ne ben servire:
   Però l’altrui allegrezza m’è nojosa,
   E dogliomi ch’io veggio rinverdire.

In questi due sonetti è grande semplicità di pensiero e di andamento, e una perfetta misura. Si ha aria di narrare quello si vede o si sente, senza riflessioni ed emozioni, ma con una vivacità ed un colorito, che suscita le più vive impressioni. Il secondo sonetto è cosa perfetta, se guardi alla parte tecnica, ed accenna a maggior coltura; non solo la nuova lingua è pienamente formata, ma è già elegante, già la frase surroga i vocaboli proprii: a me piace più la perfetta semplicità del sonetto femminile, con movenza più vivace, più immediata e più naturale.

La proprietà, la grazia e la semplicità sono le tre veneri che si mostrano nel volgare, come si era ito formando in Toscana: qualità che trovi ancora dove è più difficile a serbarle, quando per una impazienza interna si rompe il freno e si dicono i secreti più delicati dell’animo con tanta più audacia, quanto maggiore è stata la compressione, e con la sicurezza di chi sente che non ha torto, ma ragione; è una violenza raddolcita da una grazia ineffabile, e che per una naturale misura rimane ipotetica nel seguente madrigale di Alesso di Guido Donati:

In pena vivo qui sola soletta
Giovin rinchiusa dalla madre mia,
La qual mi guarda con gran gelosia.
Ma io le giuro, alla croce di Dio,

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S’ella mi terrà più sola serrata,
Ch’io dirò: fa con Dio, vecchia arrabbiata.
E gitterò la rocca, il fuso e l’ago,
  Amor, fuggendo a te, di cui m’appago.

Questa bella forma, in tanto spirito e vivacità così castigata, propria e semplice e piena di grazia, si andò sviluppando non perchè il suo contenuto voleva così, ma in opposizione ad esso contenuto, vuoto ed astratto. Anzi che qualità del contenuto, o di questo e quel poeta, sembra il progresso naturale dello spirito toscano, dotato di un certo senso artistico, che lo tirava alla forma, nella piena indifferenza del contenuto. Perciò queste qualità spiccano più, dove il poeta non è impedito da un contenuto convenzionale, ma si abbandona a rappresentare i fatti e i moti dell’animo, come gli si affacciano in situazioni ben determinate, e come sono nella lealtà della vita. Allora contenuto e forma sono una cosa stessa ed hai ciò che di più perfetto ha prodotto a quel tempo lo spirito toscano: come è in parecchie poesie già citate. Potremmo desiderare che la lingua e la poesia italiana si fosse ita formando per un movimento ingenito, naturale e popolare, com’è stato presso altri popoli. Ma sono desiderii sterili. Il fatto è che mentre la lingua si formava, il contenuto era già formato e meccanizzato e convenzionale: la lingua si moveva, il contenuto rimaneva stazionario, lo stesso ne’ più puliti scrittori, tutti del pari dimenticati, perchè quello solo sopravvive, che ha una forma prodotta da un contenuto attivo e reale, vivente della vita comune.

Tale non è il contenuto in tanta moltitudine di rimatori a quei tempi. In Toscana, come in Sicilia, ci era già tutto un mondo poetico, non formato a poco a poco insieme col volgare, ma già fissato con lineamenti precisi e costanti. C’era già una poetica, e c’era anche un vocabolario comune. Concetti e parole sono in tutt’i [p. 25 modifica]trovatori gli stessi. Come più tardi avemmo le maschere, cioè caratteri comici con lineamenti tradizionali, che nessuno si attentava di alterare, così ci era allora Madonna e Messere.

Madonna, l’amanza o la cosa amata, era un ideale di tutta perfezione non la tale e tale donna, ma la donna in genere, amata con un sentimento che teneva di adorazione e di culto. Messere era l’amante, il meo Sere, che avea qualche valore solo amando. Uomo senz’amore è uomo senza valore. Amare è indizio di cor gentile. Chi ama, è cavaliere, ubbidiente alle leggi dell’onore, difensore della giustizia, protettore de’ deboli, umile servo o servente d’amore, e soffre volentieri ove a sua Madonna piaccia, e amato sta allegro, ma senza vanitate, senza menar vanto e spregia le ricchezze, perchè chi è amato, è ricco. Amore è di due voleri una voglienza, ed è senza fallimento o villania, senza peccato, e sta contento al solo sguardo; nello stesso paradiso la gioja dell’amante è contemplare Madonna, e senza Madonna non vi vorria gire. Il codice d’amore descrive i concetti e i sentimenti degli amanti fini e cortesi. Il codice della cavalleria descrive le leggi dell’onore, i doveri di cavaliere leale e franco. Come si vede, amore era tutta la vita ne’ suoi varii aspetti, era Dio, patria e legge; la donna era la divinità di quei rozzi petti. Chi cerca nelle memorie della prima età, troverà questo ideale della donna nella sua purezza e nella sua onnipotenza, l’universo è la Donna. E tale fu negl’inizii della società moderna in Germania, in Francia, in Provenza, in Spagna, in Italia. La storia fu fatta a quella immagine, Trojani e Romani erano concepiti come cavalieri erranti, e così Arabi, Sarraceni, Turchi, lo Soldano e Saladino. Paris e Elena, Piramo e Tisbe sono eroi da romanzo, come Lancillotto e Ginevra; Tristano e Isaotta la bionda. In questa fraternità universale, si trovano gli Angioli, i Santi, i [p. 26 modifica]Miracoli, il Paradiso in istrana mescolanza col fantastico e il voluttuoso del mondo orientale, tutto battezzato sotto nome di cavalleria. Le idee generali non sono ancora potenti di uscire nella loro forma, e sono ancora allegorie. Le idee morali sono motti e proverbii. La letteratura di questa età infantile sono romanzi e novelle e favole e motti, poemi allegorici e sonetti nel loro primo significato, cioè rime con suoni: canti, e balli, onde la canzone e la ballata.

La cavalleria poco attecchì in Italia. Castella e castellane col loro corteggio in giullari, trovatori, novellatori e bei favellatori doveano aver poco prestigio presso un popolo che avea disfatte le castella, e s’era ordinato a comune: Vinto Federico Barbarossa, e abbattuta poi casa sveva, quella vita di popolo fu assicurata, e le tradizioni feudali e monarchiche perdettero ogni efficacia nella realtà. Rimasero nella memoria, non come regola della vita, ma come un puro gioco d’immaginazione. Nessuno credeva a quel mondo cavalleresco, nessuno gli dava serietà e valore pratico: era un passatempo dello spirito, non tutta la vita, ma un incidente, una distrazione. Ora quando un contenuto non penetra nelle intime latebre della società, e rimane nel campo dell’immaginazione, diviene subito frivolo e convenzionale, come la moda, e perde ogni sincerità e ogni serietà. Ma la stessa immaginazione era inaridita innanzi a un contenuto dato e fissato, come si trovava in una letteratura non nata e formata con la vita nazionale, ma venuta dal di fuori per via di traduzioni. Perciò niente di nazionale e di originale, nessun moto di fantasia o di sentimento; nessuna varietà di contenuto; una così noiosa uniformità che mal sai distinguere un poeta dall’altro.

Questo contenuto non può aver vita, se non si move, trasformato e lavorato dal genio nazionale. Quello stesso senso artistico, che avea condotta già a tanta perfezione [p. 27 modifica]la lingua, dovea altresì risuscitare quel contenuto e dargli moto e spirito.

L’Italia avea già una coltura propria e nazionale molto progredita: l’Europa andava già ad imparare nella dotta Bologna. Teologia, filosofia, giurisprudenza, scienze naturali, studii classici aveano già con vario indirizzo dato un vivo impulso allo spirito nazionale. Quel contenuto cavalleresco dovea parer frivolo e superficiale ad uomini educati con Virgilio ed Ovidio, che leggevan San Tommaso e Aristotile, nutriti di pandette e di dritto canonico, ed aperti a tutte le maraviglie dell’astronomia e delle scienze naturali. Le tenzoni d’amore doveano parer cosa puerile a quegli atleti delle scuole, così pronti e così sottili nelle lotte universitarie. Quella forma di poetare dovea parer troppo rozza e povera a gente già iniziata in tutti gli artificii della rettorica. Nacque l’entusiasmo della scienza, una specie di nuova cavalleria che detronizzava l’antica. Lo stesso impeto che portava l’Europa a Gerusalemme, la portava ora a Bologna. Gli storici descrivono co’ più vivi colori questo grande movimento di curiosità scientifica, il cui principal centro era in Italia.

E la scienza fu madre della poesia italiana, e la prima ispirazione venne dalla scuola. Il primo poeta è chiamato il Saggio5, e fu il padre della nostra letteratura, fu il bolognese Guido Guinicelli, il nobile, il massimo, dice Dante, il padre:

Mio e degli altri miei miglior che mai,
Rime d’amore usâr dolci e leggiadre.

Guido nel 1270 insegnava lettere nell’Università di Bologna. Il volgare era già formato e si chiamava lingua [p. 28 modifica]materna, l’uso moderno, in opposizione al latino. Egli vi gittò dentro tutto l’entusiasmo di una mente educata dalla filosofia alle più alte speculazioni, e commossa dai miracoli dell’astronomia e dalle scienze naturali. E il mondo nuovo della scienza, che si rivela con le sue fresche impressioni nella sua canzone sulla natura dell’amore. In generale, le poesie de’ trovatori sono una filza di concetti addossati gli uni agli altri senza sviluppo. Qui non ci è che un solo concetto, ed è il luogo comune de’ trovatori espresso nel celebre verso:

Amore e cor gentil sono una cosa.

Ma questo concetto diviene tutto un mondo innanzi a Guido, e si mostra ne’ più nuovi aspetti. Risorge l’immaginazione, e attinge le sue immagini non da’ romanzi di cavalleria, ma dalla fisica, dall’astronomia, da’ più bei fenomeni della natura, con la compiacenza, con la voluttà e l’abbondanza di chi addita e spiega le sue scoperte. I paragoni si accavallano, s’incalzano, ti par di essere in un mondo incantato, e passi di maraviglia in maraviglia. Citerò alcuni brani:

Al cor gentil ripara sempre amore,
     Siccome augello in selva alla verdura;
     Nè fe’ amore anti che gentil core,
     Nè gentil core anti che amor, Natura.
     Che adesso com’fu il Sole,
     Sì tosto fue lo splendor lucente,
     Nè fu davanti al Sole.
     E prende amore in gentilezza loco
     Così propriamente,
     Come il calore in chiarità di foco.
Foco d’amore in gentil cor s’apprende
     Come virtude in pietra preziosa:
     Chè dalla stella valor non discende,
     Anzi che il sol la faccia gentil cosa.

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Amor per tal ragion sta in cor gentile,
     Per qual lo foco in cima del doppiero.
     Amore in gentil cor prende rivera,
     Com’ diamante dal ferro in la miniera.
Fere lo sol lo fango tutto il giorno;
     Vile riman: nè il Sol perde calore.
     Dice un altier: gentil per schiatta torno:
     Lui sembra il fango; e il Sol gentil valore:
     Che non dee dare uom fè
     Che gentilezza sia fuor di coraggio
     In dignità di Re,
     Se da virtute non ha gentil core:
     Com’acqua, ei porta raggio,
     E il ciel ritien la stella e lo splendore.

C’è qui una certa oscurità alcuna volta e un certo stento, come di un pensiero in travaglio, e n’escono vivi guizzi di luce che rivelano le profondità di una mente sdegnosa di luoghi comuni e per lungo uso speculatrice. Il contenuto non è ancora trasformato internamente, non è ancora poesia cioè vita e realtà; ma è già un fatto scientifico, scrutato, analizzato da una mente avida di sapere, con la serietà e la profondità di chi si addentra ne’ problemi della scienza, e illuminato da una immaginazione, eccitata non dall’ardore del sentimento, ma dalla stessa profondità del pensiero. Guido non sente amore, non riceve e non esprime impressioni amorose; ma contempla l’amore e la bellezza con uno sguardo filosofico, quello che gli si affaccia non è persona idealizzata, ma è pura idea, della quale è innamorato con quello stesso amore che il filosofo porta alla verità intuita e contemplata dalla sua mente, quasi fosse persona viva. Così Platone amava le sue idee; l’amore platonico non era altro che amore d’intuizione e di contemplazione, una specie di parentela tra il contemplante e il contemplato: io ti contemplo e ti fo mia. Guido ama la creatura della [p. 30 modifica]sua meditazione, e l’amore gli move l’immaginazione e gli fa trovare i più ricchi colori, sì ch’ella par fuori pomposamente abbigliata. L’artista è un filosofo, non è ancora un poeta. A quel contenuto cavalleresco, frivolo e convenzionale, così fecondo presso i popoli dove nacque, così sterile presso noi dove fu importato, succede Platone, la contemplazione filosofica. Non ci è ancora il poeta, ma ci è l’artista. Il pensiero si move, l’immaginazione lavora. La scienza genera l’arte.

La coltura cavalleresca, se giovò a formare il volgare, impedì la libertà e spontaneità del sentimento popolare, e creò un mondo artificiale e superficiale, fuori della vita, che rese insipidi gl’inizii della nostra letteratura, così interessanti presso altri popoli. Quel contenuto stazionario comincia a moversi presso Guido, di un moto impresso non da sentimento di amore, ma da contemplazione scientifica dell’amore e della bellezza: che se non riscalda il core, sveglia l’immaginazione. Questo dunque si ricordi bene, che la nostra letteratura fu prima inaridita nel suo germe da un mondo poetico cavalleresco, non potuto penetrare nella vita nazionale, e rimaso frivolo e insignificante, e fu poi sviata dalla scienza, che l’allontanò sempre più dalla freschezza e ingenuità del sentimento popolare, e creò una nuova poetica, che non fu senza grande influenza sul suo avvenire. L’arte italiana nasceva non in mezzo al popolo, ma nelle scuole, fra San Tommaso e Aristotele, tra S. Bonaventura e Platone.

La poesia di Guido ha il difetto della sua qualità: la profondità diviene sottigliezza, e l’immaginazione diviene rettorica, quando vuole esprimere sentimenti che non prova. Vuol esprimere il suo stato quando fu colpito dal dardo di amore, e dice che quel dardo

Per gli occhi passa, come fa lo trono6,

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     Che fer per la finestra della torre
     E ciò che dentro trova, spezza e fende.
Rimagno come statua di ottono,
     Ove spirto, nè vita non ricorre,
     Se non che la figura d’uomo rende.

Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Jacopo da Lentino. Ci si vede l’uomo d’ingegno e la mente che pensa. Ma non è linguaggio d’innamorato questo sottilizzare e fantasticare sul suo amore e sul suo stato.

Immensa fu l’impressione che produsse questa poesia di Guido, se vogliamo giudicarla da quella che ne ebbe Dante, che lo imitò tante volte, che lo chiamò padre suo, che la magnifica terza strofa scelse a materia della sua Canzone sulla Nobiltà, che ebbe la stessa scuola poetica, che nota la celebrità a cui venne l’uno e l’altro Guido7 e aggiunge:

E forse è nato
Chi l’uno e l’altro caccerà di nido.


Guido oscurò tutt’i trovatori e salì a gran fama presso un pubblico avido di scienza, e pieno d’immaginazione, di cui Guido era il ritratto, un pubblico uscito dalle scuole, per il quale poesia era sapienza e filosofia, verità adorna, e che non pregiava i versi, se non come velame della dottrina.

Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame delli versi strani.

Tal poeta, tal pubblico. E si andò così formando una scuola poetica, il cui Codice è il Convito di Dante.

Se Bologna si gloriava del suo Guido, Arezzo avea il suo Guittone, Todi il suo Jacopone e Firenze il suo Brunetto Latini. [p. 32 modifica]Dante mette Guittone tra quelli che sogliono sempre ne’ vocaboli e nelle locuzioni somigliare la plebe. Alla qual sentenza contraddicono alcuni sonetti attribuiti a lui, e che per l’andamento e la maniera sembrano di fattura molto posteriore. Se guardiamo alle sue canzoni e alle sue prose, non sarà alcuno che non stimerà giusta la sentenza di Dante. In Guittone è notabile questo che nel poeta senti l’uomo: quella forma aspra e rozza ha pure una fisonomia originale e caratteristica, una elevatezza morale, una certa energia d’espressione. L’uomo ci è, non l’innamorato, ma l’uomo morale e credente, e dalla sincerità della coscienza gli viene quella forza. E c’è anche l’uomo colto, una mente esercitata alla meditazione e al ragionamento. I suoi versi sono non rappresentazione immediata della vita, ma sottili e ingegnosi discorsi, che doveano parer maraviglia a quel pubblico scolastico. Venne perciò a tale celebrità che fu tenuto per qualche tempo il primo de’ poeti; ma nella sua vecchia età si vide oscurato da’ nuovi astri, onde dice il Petrarca:


                            .   .   Guitton d’Arezzo
Che di non esser primo par ch’ira aggia.


Nondimeno gli rimasero ammiratori e seguaci, con grande ira di Dante, che esclama: «cessino i seguaci dell’ignoranza che estollono Guittone d’Arezzo».

Guittone non è poeta, ma un sottile ragionatore in versi, senza quelle grazie e leggiadrie che con sì ricca vena d’immaginazione ornano i ragionamenti di Guinicelli. Non è poeta e non è neppure artista: gli manca quella interna misura e melodia, che condusse poeti inferiori a lui di coltura e d’ingegno a polire il volgare. È privo di gusto e di grazia.

Degne di maggiore attenzione sono le poesie di Jacopone, come quelle che segnano un nuovo indirizzo nella [p. 33 modifica]nostra letteratura. Sono le poesie di un Santo, animato dal divino amore. Non sa di provenzali, o di trovatori, o di codici d’amore: questo mondo gli è ignoto. E non cura arte, e non cerca pregio di lingua e di stile, anzi affetta parlare di plebe con quello stesso piacere con che i Santi vestivano vesti di povero. Una cosa vuole, dare sfogo ad un’anima traboccante di affetto, esaltata dal sentimento religioso. Ignora anche teologia e filosofia, e non ha niente di scolastico. Si capisce che un poeta così fuori di moda dovea in breve esser dimenticato dal colto pubblico, sì che le sue poesie ci furono conservate come un libro di divozione, anzi che come lavoro letterario. E nondimeno c’è in Jacopone una vena di schietta e popolare e spontanea ispirazione, che non trovi ne’ poeti colti finora discorsi. Se i mille trovatori italiani avessero sentito amore con la caldezza e l’efficacia, che desta tanto incendio nell’anima religiosa di Jacopone, avremmo avuta una poesia meno dotta e meno artistica, ma più popolare e sincera.

Jacopone riflette la vita italiana sotto uno de’ suoi aspetti con assai più di sincerità e di verità che non trovi in nessun Trovatore. È il sentimento religioso nella sua prima e natia espressione, come si rivela nelle classi inculte, senza nube di teologia e di scolasticismo, e portato sino al misticismo ed all’estasi. In comunione di spirito con Dio, la Vergine, i Santi e gli Angeli, parla loro con tutta dimestichezza, e li dipinge con perfetta libertà d’immaginazione, co’ particolari più pietosi e più affettuosi che sa trovare una fantasia commossa dall’amore. Maria è soprattutto il suo idolo, e le parla con la familiarità e l’insistenza di chi è sicuro della sua fede e sa di amarla.

Di’, Maria dolce, con quanto disio
Miravi il tuo figliuol Cristo mio Dio.

[p. 34 modifica]

Quando tu il partoristi senza pena,
     La prima cosa, credo, che facesti,
     Si l’adorasti, o di grazia piena,
     Poi sopra il fien nel presepio il ponesti:
     Con pochi e pover panni l’involgesti,
     Maravigliando o godendo, cred’io.
O quanto gaudio avevi e quanto bene,
     Quando tu lo tenevi fra le braccia!
     Dillo, Maria, che forse si conviene
     Che un poco per pietà mi satisfaccia.
     Baciavil tu allora nella faccia,
     Se ben credo, e dicevi: o figliuol mio!
Quando figliuol, quando padre e signore,
     Quando Dio, e quando Gesù lo chiamavi;
     O quanto dolce amor sentivi al core,
     Quando in grembo il tenevi ed allattavi!
     Quanti dolci atti e d’amore soavi
     Vedevi, essendo col tuo figliuol pio!
Quando un poco talora il dì dormiva,
     E tu destar volendo il paradiso,
     Pian piano andavi che non ti sentiva,
     E la tua bocca ponevi al suo viso,
     E poi dicevi con materno riso:
     Non dormir più che ti sarebbe rio.


Sotto l’impressione del sentimento religioso Jacopone indovina tutte le gioie e le dolcezze dell’amor materno. Jacopone non concepisce il divino nella sua purezza, come un teologo o un filosofo, ma vestito di tutte le apparenze e gli affetti umani. Questa è una scena di famiglia, colta dal vero, con una franchezza di colorito e con una grazia di movenze, tutta intuitiva. Preghiere, sdegni, follie d’amore, fantasie, estasi, visioni, tutto trovi in Jacopone al naturale e come gli viene di dentro, ciò che ci è più semplice e commovente, e ciò che ci è più strano e volgare. La forma è il sentimento esso medesimo: ed ora è soave, efficace, quasi elegante, ora [p. 35 modifica]stravagante e plebea. Ha una facilità che gli nuoce, ed un impeto di espressione che non dà luogo alla lima. Ma ne’ suoi impeti gli escono forme di dire così fresche e felici, che non disdegnarono d’imitarle Dante e il Tasso. Nè è meno terribile che soave: e vagliano a prova alcuni tratti:

Andiam tutti a vedere
Jesù quando dormia
La terra, l’aria, il cielo
Fiorir, rider facia:
Tanta dolcezza e grazia
Dalla sua faccia uscia.


La faccia di Gesù Bambino, il Natale, la Vergine, il volo dell’anima al paradiso, gli Angioli sono visioni piene di grazia e di efficacia. Nascendo Gesù,

Le gerarchie superne
Eran dal ciel discese:
Lucean come lucerne
D’ardente foco accese
Le loro ale distese.


Gesù ha un corteggio di donne, che gli danzano intorno, Verginità, Umiltà, Carità, Speranza, Povertà, Astinenza; è qualche cosa di simile alle tre sorelle di Dante nella sua celebre canzone. Ecco in che modo Jacopone descrive l’Umiltà:

E questa era gioconda,
Onesta e mansueta
E con la treccia bionda
E a cantar la più lieta;
D’ogni virtù repleta
A me il capo chinava:
Tanto m’assicurava
Ch’io presi a favellare.


Quella stessa immaginazione che dipinge con tanta [p. 36 modifica]grazia, rappresenta con evidenza terribile i terrori dell’anima peccatrice nel giudizio universale:

Chi è questo gran Sire,
Rege di grande altura?
Sotterra io vorrei gire,
Tal mi mette paura.
Ove potria fuggire
Dalla sua faccia dura?
Terra fa copritura,
Ch’io nol veggia adirato.
.     .     .     .     .     .     .     .     
Non trovo loco dove mi nasconda,
Monte, nè piano, nè grotta o foresta
Chè la veduta di Dio mi circonda,
E in ogni loco paura mi desta.
.     .     .     .     .     .     .     .     .     
Tutti li monti saranno abbassati,
E l’aire stretto e i venti conturbati,
E il mare muggirà da tutt’i lati.
Con l’acque lor staran fermi adunati
I fiumi ad aspettare.
Allor vedrai dal Ciel tromba sonare,
E tutt’i i morti vedrai suscitare;
Avanti al tribunal di Cristo andare,
E il foco ardente per l’aria volare
Con gran velocitate.


Jacopone non è un’apparizione isolata; ma si collega a tutta una letteratura latina popolare, animata dal sentimento religioso. Là trovi il Salve Regina, e l’Ave Maris stella, e il Dies irae, e drammi e vite di Santi scritte da uomini eloquenti e appassionati. Anche in volgare comparivano già Cantici e Laudi: di Bonifazio papa c’è rimasto un breve e rozzo cantico alla Vergine. I fatti della Bibbia, la passione e morte di Cristo, le visioni e i miracoli de’ Santi, i lamenti e le preghiere delle anime purganti, le mistiche gioie del paradiso, i terrori [p. 37 modifica]dell’inferno, erano il tema comune de’ predicatori e rappresentazioni nelle chiese su per le piazze, sotto il nome di misteri, feste, moralità. È rimasta memoria di una visione dell’inferno, con la quale Gregorio VII quando era predicatore atterriva l’immaginazione de’ suoi uditori: ed è visione di un fantastico e di una crudezza di colori che mette il brivido. In Morra, mio paese nativo, ricordo che nella festa della Madonna, quando la processione è giunta sulla piazza, comparisce l’Angiolo, che fa l’annunzio. Ed è ancora la vecchia tradizione dell’Angiolo, che allora apriva la rappresentazione, annunziando l’argomento. È nota la grande rappresentazione dell’altro mondo in Firenze, che, rottosi il ponte di legno sull’Arno, costò la vita a molte persone.
Questa materia religiosa, che ispirò tanti capilavori di pittura e di scultura e di architettura, era efficacissima fonte di poesia, congiungendo in sè il fantastico e l’affetto, il divino e l’umano, e nelle sue gradazioni dallo inferno al paradiso facendo vibrar tutte le corde dello spirito. La sua tendenza troppo ascetica e spirituale era vinta dal grosso senso popolare, che paganizzava e umanizzava tutto. In questa storia religiosa, il cui proprio teatro è l’altra vita, a cui questa è preparazione, l’uomo mescolava le sue passioni terrene, le sue vendette, i suoi odii, le sue opinioni, i suoi amori. Maria era l’anello che giungeva la terra al cielo, e il devoto le parla con tutta familiarità, e le ricorda che la è stata pur donna. Jacopone dice:

Ricevi, donna, nel tuo grembo bello
Le mie lagrime amare.
Tu sai che ti son prossimo e fratello,
E tu nol puoi negare.


Lei implora il Trovatore nel suo colpevole amore, a lei si raccomanda anche oggi il brigante nelle sue scellerate spedizioni. Maria, Gesù, i Santi, gli Angioli, [p. 38 modifica]Lucifero non bastano; l’immaginazione popolare personifica le virtù, e ne fa un corteggio di figure allegoriche alla Divinità, rappresentandole con ogni libertà, come fa Jacopone, e come si vede ne’ bassirilievi e in tante opere di scoltura e di pittura. E come il paganesimo ne’ suoi ultimi tempi era interpretato allegoricamente, anche le figure pagane entrano in questo mondo, torte dal senso letterale, e volte a significato generale come Giove, Plutone, Amore, Apollo, le Muse, Caronte. Come il Papa aspirava a far sua tutta la terra, la storia religiosa assorbiva in sè tutt’i tempi e tutte le storie. In questa mescolanza universale, opera di una immaginazione primitiva e ancor rozza non hai luce uguale e non fusione di tinte: domina un fondo oscuro, il sentimento di un di là della vita, di un infinito non rappresentabile, superiore alla forma, che riempie lo spazio di grandi ombre: e quelle mescolanze di divino e di terreno, di antico e di moderno, di serio e di comico non sono ben fuse, anzi stannosi accanto crudamente, e in luogo di armonizzare producono un’impressione irresistibile di contrasto, di cose che cozzano. Quel difetto di luce è il gotico, e quel difetto di armonia è il grottesco; e però il gotico e il grottesco sono le prime forme artistiche di quel mondo, com’è nella sua prima ingenuità, non ancora vinto e domato dall’arte. Il sublime del gotico si sente nel giudizio universale di Jacopone, dove la veduta di Dio ti circonda, senza che tu lo veda, chiarissimo al sentimento, inaccessibile all’immaginazione. Il peccatore vede suonar le trombe, turbati i venti, l’aria immobile, e i fiumi fermarsi, e il mare muggire, e il fuoco volare per l’aria; dappertutto si sente inseguito dalla veduta di Dio, ma non lo guarda, non gli dà forma: non è una immagine, è un sentimento senza forma, che riempie della sua ombra tutto lo spettacolo. Di qui il grande effetto di due versi stupendi, che sono veri decasillabi, sotto [p. 39 modifica]apparenza di endecasillabo, pieni di movimento e di armonia:

Che la veduta di Dio mi circonda.
E in ogni loco paura mi desta.

È il sentimento da cui sei preso innanzi alle grandi ombre di una cattedrale. Ma ciò che prevale in Jacopone è il grottesco, una mescolanza delle cose più disparate, senza nessun senzo di convenienza e di armonia: il che, se fatto con intenzione, è comico; fatto con rozza ingenuità, è grottesco. Trovi il plebeo, l’indecente, il disgustoso misto coi più gentili affetti; ciò che è pure il carattere del Santo con le sue estasi e le sue stravaganze. E questo in Jacopone non è già un contrasto che celi alte intenzioni artistiche, ma rozza natura, così discorde e mescolata, come si trova nella realtà. Ecco il principio del cantico 48:

O Signor, per cortesia
Mandami la malsania;
A me la febbre quartana,
La continua e la terzana;
A me venga mal di dente,
Mal di capo e mal di ventre,
Mal de occhi e doglia di fianco
La postema al lato manco.

La poesia di Jacopone è proprio il contrario di quella de’ Trovatori. In questi è poesia astratta e convenzionale e uniforme, non penetrata di alcuna realtà. In Jacopone è realtà ancora naturale, non ancora spiritualizzata all’arte; è materia greggia, tutta discorde, che ti da alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di armonico.

Accanto a questa vita religiosa ancora immediata e di prima impressione spunta la vita morale, un certo modo di condursi con regola e prudenza, e anch’essa è nella sua forma immediata e primitiva. Non è ragione o [p. 40 modifica]filosofia, è pura esperienza e tradizione, nella forma di motto o proverbio, che riassume la sapienza degli avi. Il motto rimato è la più antica forma di poesia nel nostro volgare. Ecco alcuni motti antichissimi:

Ancella donnea,
Se Donna follea.
In terra di lite
Non poner la vite.
Uomo che ode, vede e tace
Sì vuol viver in pace.
Chi parla rado
Tenuto è a grado..


Di questa fatta sono una filza di motti ammassati da Jacopone in un suo carme, una specie di catechismo a uso della vita, illustrati brevemente da qualche immagine o paragone, ora goffo, ora egregio di concetto e di forma. Sulla vanità della vita dice:

Lo fior la mane è nato
La sera il vei seccato.


Ciò che nella sua semplicità ha più efficacia, che la elegante traduzione dello stesso concetto fatta dal Poliziano, la quale ti pare una Venere intonacata e lisciata:

Fresca è la rosa di mattino: e a sera
Ella ha perduta sua bellezza altera.


I motti di Jacopone sono pensieri morali espressi per esempio e per immagini, come fa l’immaginazione popolare, e nella loro brevità e succo è il principale attrattivo.

     Ove temi pericolo,
     Non fare spesso posa.
Sappi di polver tollere
     La pietra prezïosa,
     E da uom senza grazia

[p. 41 modifica]

     Parola grazïosa:
     Dal folle sapïenza,
     E dalla spina rosa
     Prende esempio da bestia
     Chi ha mente ingegnosa
Vediamo bella immagine
     Fatta con vili deta:
     Vasello bello ed utile
     Tratto da sozza creta;
     Pigliam dai laidi vermini
     La prezïosa seta,
     Vetro da laida cenere,
     E da rame moneta.
Non dimandare agli uomini
     Che lor nega natura:
     E non pregar la scimia
     Di bella portatura,
     Nè il bue, nè l’asino
     Di dolce parladura.
Quel che non si conviene,
     Ti guarda di non fare:
     Nè messa ad uomo laico,
     Nè al prete saltare;
     Non dece spada a femmina,
     Nè ad uom lo filare.
     Non piace se in suo loco
     Non ponesi la cosa:
     Innanzi che ti calzi,
     Guardi da qual piè è l’uosa:
     Se leggi, non far punto
     Dove non è la posa;
     Dov’è piana la lettera,
     Non fare oscura glosa.
     In ogni cosa al prossimo
     Ti mostra mansueto:
     Da nimistate guardati,
     Se vuoi viver quïeto.

[p. 42 modifica]

A quel modo conformati
     Che trovi nel paese:
     Al Genovese, in Genova,
     Ed in Siena al Sanese.
Uomo che spesso volgesi,
     Da tuo consiglio caccia:
     Se vedi volpe correre,
     Non dimandar la traccia:
     Non ti sforzare a prendere
     Più che non puoi con traccia:
     Che nulla porta a casa
     Chi la montagna abbraccia.
Quando puoi esser umile,
     Non ti dimostrar forte:
     Il muro tu non rompere,
     Se aperte son le porte.
Con Signore non prendere,
     Se tu puoi, quistïone;
     Ch’ei ti ruba ed ingiuria
     Per piccola cagione,
     E tutti gli altri gridano
     Messere ha la ragione.
Uomo senz’amicizia
     Castello è senza mura.
     Quella è buona amicizia,
     Che d’ogni tempo dura:
     Povertà non la parte,
     Nè nulla ria ventura
Quel che tu dice in camera,
     Non dire in ogni loco:
     A piaga metti unguento,
     Non vi mettere il foco.


E così hai motto a motto, spesso senz’altro legame che il caso, qual più, qual meno felice, in quella forma sentenziosa ed esemplata, che è propria dell’immaginazione popolare, prima ancora che nasca la favola e il [p. 43 modifica]racconto. E trovi certo più gusto in queste prime rozze informazioni così piene della vita e del sentire comune, che ne’ sonetti e canzoni morali in forma più artificiosa, ma contorta e scolastica di Onesto e Semprebene e altri trovatori.

Questi uomini con tanti proverbii in bocca e con tanta divozione alla Madonna e a’ Santi, con l’immaginazione piena di leggende e avventure cavalleresche, avevano nel piccolo spazio del Comune una vita politica ancora più vivace e concentrata, che non è oggi allargata com’è diffusa in quegl’immensi spazii che si chiamano regni. Certo, i costumi si pulivano, come la lingua; ma religione e cavalleria, misteri e romanzi, se colpivano le immaginazzioni, poco bastavano a contenere e regolare le passioni suscitate con tanta veemenza dalle lotte municipali. Questa vita era troppo leale, troppo appassionata e troppo presente, perchè potesse esser vista con la serenità e la misura dell’arte. Si manifesta con la forma grossolana dell’ingiuria, appena talora rallegrata da qualche lampo di spirito. Un esempio è il verso:


Quando l’asino raglia, un guelfo nasce.


Questa forma primitiva dell’odio politico, amara anche nel motteggio e nell’epigramma e così sventuratamente feconda tra noi anche ne’ tempi più civili, non esce mai dalle quattro mura del comune, con particolari e allusioni così personali, che manca con la chiarezza ogni interesse: prova ne sieno i sonetti di Rustico. Certo, in questo antico esempio di satira politica vedi il volgare condotto a tutta la sua perfezione, e ci senti uno spirito e una vivacità propria dell’acuto ingegno fiorentino. Ma che interesse volete voi che prendiamo per Donna Gemma e Messer Fastello e Messer Messerino e Ser Cerbiolino, con quel suo parlare sotto figura per allusioni, che non ne comprendiamo un’acca? Ciò che è meramente [p. 44 modifica]personale, muore con la persona. Il comune sembra un castello incantato, dove l’uomo entrando ignori tutto ciò che vive e si muove al di fuori. Nessun vestigio de’ grandi avvenimenti di cui l’Italia era stata ed era il teatro; niente che accennasse ad alcuna partecipazione alle grandi discussioni tra papato e impero, tra guelfi e ghibellini, o rivelasse un sentimento politico elevato e nazionale, al di sopra della cerchia del comune. Tutto è piccolo, tutto va a finire là, nella piccola maldicenza sulla piazza del comune. Di ciò che si passava in Italia, appena un’ombra trovi in un sonetto di Orlandino Orafo, eco delle preocupazioni e ansietà pubbliche, quando Carlo d’Angiò andava ad investire Re Manfredi in Benevento. Ma ciò che preoccupa Orlandino, non è il risultato politico e nazionale della lotta, ma la grande strage che ne verrà:


Ed avverrà tra lor fera battaglia,
     E fia sanfaglia - tal, che molta gente
     Sarà dolente - chi che ne abbia gioja.

E molti buon destrier coverti a maglia,
     In quella taglia - saran per nïente
     Qual fia perdente - allor convien che muoja.


A lui è uguale chi vinca e chi perda. Ciò che gli fa impressione, è la lotta in sè stessa co’ suoi accidenti. Lo diresti uno spettatore posto fuori de’ pericoli e delle passioni de’ combattenti, che contempla avido di emozioni i varii casi della pugna.

Questa rozzezza della vita italiana sotto i suoi varii aspetti religioso, morale, politico, spicca più, perchè in evidente contrasto con la precoce coltura scientifica, divenuta il principale interesse di quel tempo. La scienza era come un mondo nuovo, nel quale tutti si precipitavano a guardare. Ma la scienza era come il Vangelo, che s’imparava e non si discuteva. A quel modo che [p. 45 modifica]trojani, romani, franchi e saraceni, santi e cavalieri erano nell’immaginazione un mondo solo; Aristotile, Platone, Tommaso e Bonaventura, erano una sola scienza. Il maggiore studio era sapere, e chi sapeva più, era più ammirato; nessuno domandava quanta concordia e profondità era in quel sapere. Perciò venne a grandissima fama Ser Brunetto Latini. Il suo Tesoro e il Tesoretto furono per lungo tempo maraviglia delle genti, stupite che un uomo potesse saper tanto, ed esporre in verso Aristotele e Tolomeo. Di che nessuno oggi saprebbe più nulla, se Dante non avesse eternato l’uomo e il suo libro in quei versi celebri:


Sieti raccomandato il mio Tesoro,
Nel quale io vivo ancora.


La scienza in Brunetto è materia così rozza e greggia, com’è la vita religiosa in Jacopone e la vita politica in Rustico. Il suo studio è di cacciar fuori tutto quello che sa, così crudamente come gli è venuto dalla scuola, e senza farlo passare a traverso del suo pensiero. Ciò che dice, gli pare così importante, e pareva così importante a’ suoi contemporanei, ch’egli non chiede altro, e nessuno chiedeva altro a lui. Quella sua enciclopedia non è che prosa rimata.

Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di Dante, che compirono i loro studii nell’Università di Bologna, dalla quale uscì pure Cino da Pistoja. Si sente in tutti e tre la scuola di Guido Guinicelli. Amore si scioglie dalle tradizioni cavalleresche, e diviene materia di teologia e di filosofia. Si discute sulla sua origine, su’ suoi fenomeni e sul suo significato. Nella sua apparenza volgare esso adombra quella forza che move il sole e le stelle, il poeta lascia al volgo il senso letterale, e cerca un sopra senso, il senso teologico e filosofico, di cui quello sia il velo. Il lettore con le sue abitudini scientifiche disprezza [p. 46 modifica]il fenomeno amoroso, e cerca dietro di quello la scienza. L’esistente non è per lui che un velo del pensiero, una forma dell’essere; Cino da Pistoja chiama Arrigo di Lussemburgo forma del bene: Il corpo è un velo dello spirito; la donna è la forma di ogni perfezione morale e intellettuale; spiritualismo religioso e idealismo platonico si fondono e fanno una sola dottrina. L’allegoria, che era già prima la forma naturale di una coltura poco avanzata, diviene una forma fissa del pensiero teologico e filosofico, disposizione dello spirito aiutata dall’uso invalso di cercare il senso allegorico a spiegazione della mitologia e del senso letterale biblico. Ma il pensiero esercitato nelle lotte scolastiche era già tanto vigoroso che poteva anco bastare a sè stesso ed avere la sua espressione diretta. Perciò nella poesia entra non solo l’allegoria, ma il nudo concetto scientifico, sviluppato dal ragionamento e da tutt’i precedenti scolastici. Cino, Cavalcanti e Dante erano tra’ più dotti e sottili disputatori che fossero mai usciti dalla scuola di Bologna. La loro mente robusta era stata educata a guardare in tutte le cose il generale e l’astratto, e a svilupparlo col sussidio della logica e della rettorica. Prima di esser poeti sono scienziati. Anche verseggiando, ciò che ammirano i contemporanei, è la loro scienza.

Cino maestro di Francesco Petrarca e del sommo Bartolo, fu dottissimo giureconsulto. Il suo comento sopra i primi nove libri del Codice fu la maraviglia di quella età. Ristoratore del diritto romano, aperse nuove vie alla scienza, e non fu uomo, come dice Bartolo, che più di lui desse luce alla civil giurisprudenza. L’amore di Selvaggia lo fece poeta, ma non potè mutare la sua mente. In luogo di rappresentare i suoi sentimenti, come poeta, egli li sottopone ad analisi, come critico, e ne ragiona sottilmente. Posto fuori della natura e nel campo della astrazione, ogni limite del reale si perde, e quella stessa [p. 47 modifica]sottigliezza che legava insieme i concetti più disparati e ne traeva argomentazioni e conclusioni fuori di ogni realtà e di ogni senso comune, creava ora una scolastica poetica, o per dirla col suo nome, una rettorica ad uso dell'amore, piena di figure e di esagerazioni, dove vedi comparire gli spiritelli d’amore che vanno in giro e i sospiri che parlano. In luogo di persone vive, abbondano le personificazioni. In un suo sonetto de’ meglio condotti e di grande perfezione tecnica vuol dire che nella sua donna è posta la salute, meta sì alta, che avanza ogni sforzo d’intelletto, e però non resta altro che morire. Questo è rettorica, non solo per la strana esagerazione del concetto, ma per il modo dell’esposizione scolastico e dottrinale.


Questa donna che andar mi fa pensoso,
Porta sul viso la virtù d’Amore:
La qual fa disvegliare altrui nel core
Lo spirito gentil che v’è nascoso.

Ella m’ha fatto tanto pauroso,
Poscia ch’io vidi quel dolce Signore
Negli occhi suoi con tutto il suo valore,
Che io le vo presso e riguardar non l’oso;

E quando avvien che quei begli occhi miri,
Io veggio in quella parte la salute,
Ove lo mio intelletto non può gire.

Allor si strugge sì la mia salute,
Che l’alma, onde si movono i sospiri,
S’acconcia per voler dal cor partire.


Una così strana esagerazione non può essere scusata che dall’impeto e dalla veemenza della passione. Ma qui non ce n’è vestigio; ed hai invece una specie di tema astratto, che si fa sviluppare nelle scuole per esercizio di rettorica. La prima quartina è una maggiore di [p. 48 modifica]sillogismo; intelletto, animo, core, sospiri, virtù di onore e spirito gentile, sono le sottili distinzioni e astrazioni delle scuole. Esule ghibellino, si levò a grande speranza, quando seppe della venuta di Arrigo di Lussemburgo; e quando seppe della sua morte, scrisse una canzone. Quale materia di poesia! dove dovrebbero comparire le speranze, i disinganni, le illusioni e i dolori dell’esule. Ma è invece una esposizione a modo di scienza sulla potenza della morte, e l’immortalità della virtù. Ancora più astratta e arida è la Canzone sulla natura d’amore di Guido Cavalcanti, dottissimo di filosofia e di rettorica; la qual canzone fu tenuta miracolo da’ contemporanei.

Adunque, la vita religiosa, morale e politica era appena nella sua prima formazione, e la splendida vita che raggiava da Bologna era anch’essa materia greggia, pretta vita scientifica, messa in versi.

Siamo alla seconda metà del dugento. La Sicilia, malgrado la sua Nina, è già nell’ombra. I due centri della vita italiana sono Bologna e Firenze, l’una centro del movimento scientifico, l’altra centro dell’arte. Nell’una prevaleva il latino, la lingua de’ dotti; nell’altra prevaleva il volgare, la lingua dell’arte.

L’impulso scientifico partito da Bologna, traendosi appresso anche la poesia, dava il bando alla superficiale galanteria de’ Trovatori: il pubblico domandava cose e non parole. E si formò una coscienza scientifica ed una scuola poetica conforme a quella. Il tempo de’ poeti spontanei e popolari finisce per sempre.

Il nuovo poeta scrive con intenzione. Più che poeta, egli è lume di scienza; si chiamò Brunetto Latini, l’enciclopedico, Cino, il primo giureconsulto dell’età, Cavalcanti, filosofo prestantissimo, Dante, il primo dottore e disputatore de’ tempi suoi. Scrivono versi per bandire la verità, spiegare popolarmente i fenomeni più astrusi dello spirito e della natura. La poesia è per loro un ornamento, [p. 49 modifica]la bella veste della verità o della filosofia, uso amoroso di sapienza come dice Dante nel Convito. Ci è dunque in loro una doppia intenzione. Ci è una intenzione scientifica. Ma ci è pure una intenzione artistica, di ornare e di abbellire. L’artista comparisce accanto allo scienziato. Questo doppio uomo è già visibile in Guido Guinicelli.

È in Toscana massime in Firenze che si forma questa coscienza dell’arte. Il volgare, venuto già a grande perfezione, era parlato e scritto con una proprietà e una grazia, di cui non era esempio in nessuna parte d’Italia. Se i poeti superficiali dispiacevano a Bologna, i poeti incolti e rozzi non piacevano a Firenze. A lungo andare non vi poterono essere tollerati Guittone e Brunetto, e sorgeva la nuova scuola, la quale se a Bologna significava scienza, a Firenze significava arte.

Questo primo svegliarsi di una coscienza artistica è già notato in Cino. Egli scrive con manifesta intenzione di far rime polite e leggiadre, e cerca non solo la proprietà, ma anche la venustà del dire. Aveva animo gentile e affettuoso, e orecchio musicale. Se a lui manca la evidenza e l’efficacia, virtù della forza, non gli fa difetto la melodia e l’eleganza, con una certa vena di tenerezza. Fu il precursore del grande suo discepolo, Francesco Petrarca.

Ecco un esempio della sua maniera:


Poichè saziar non posso gli occhi miei
     Di guardare a Madonna il suo bel viso,
     Mirarol tanto fiso
     Ch’io diverrò beato lei guardando.
A guisa di Angel che di sua natura
     Stando su in altura
     Divien Beato sol vedendo Iddio;
     Così essendo umana crïatura
     Guardando la figura

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     Di questa donna, che tiene il cor mio,
     Potrei beato divenir qui io.

Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della sua Donna, che ispirò le tre sorelle del Petrarca, il quale ne imitò anche la fine, che è piena di grazia:

Or se prendete a noia
     Lo mio amor, occhi d’amor rubegli
     Foste per comun ben stati men begli.
Agli occhi della forte mia nemica
     Fa, Canzon che tu dica:
     Poi che veder voi stessi non possete,
     Vedete in altri almen quel che voi siete.


E ci ha pure parecchi sonetti, dove Cino in luogo di filosofare e sottilizzare si contenta di rappresentare con semplicità il suo stato, e sono teneri ed affettuosi. Meno apparisce dotto, e più si rileva artista.

La coscienza artistica si mostra in Cino nelle qualità tecniche ed esteriori della forma. La sua principale industria è di sviluppare gli elementi musicali della lingua e del verso, nè fino a quel tempo la lingua sonò sì dolce in nessun poeta, rendendo imagine di un bel marmo polito, da cui sia rimossa ogni asprezza e disuguaglianza. Ma qualità più serie e più profonde si rivelano in Guido Cavalcanti. Anche in lui la perfezion tecnica è somma, anzi in lui è scienza. Innamorato della lingua natia, pose ogni studio a dirozzarla, e fissarla, e scrisse una gramatica e un’arte del dire. Egli, nota Filippo Villani, dilettandosi degli studii rettorici, essa arte in composizioni di rime volgari elegantemente e artificiosamente tradusse. Di che si vede, quanta impressione dovè fare su’ contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì nuovo artificio spiegato come scienza e applicato come arte. [p. 51 modifica]Così Guido divenne il capo della nuova scuola, il creatore del nuovo stile, e oscurò Guido Guinicelli:


Così ha tolto l’uno all’altro Guido
La gloria della lingua.


Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui lingua e poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti: sostanza era la filosofia. Perciò aveva a disdegno Virgilio, parendogli dice il Boccaccio, la filosofia, siccome ella è, da molto più che la poesia. Sottilissimo dialettico, come lo chiama Lorenzo de' Medici, introduce nella poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche, e mira a questo, non solo di dir bene, ma dir cose importanti. I contemporanei studiarono la sua Canzone dell’amore, come si fa un trattato filosofico, e ne fecero comenti, come si soleva di Aristotele e di san Tommaso: anche più tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone. Così Guido era tenuto eccellente non solo come artificioso ed elegante dicitore, ma come sommo filosofo.

Questo voleva Guido e questo ottenne, questo gli bastò ad acquistare il primo posto fra i contemporanei. Salutavano in lui lo scienziato e l’artista.

Ma Guido fu dotto più che scienziato. Fu benemerito della scienza perchè la divulgò, non perchè vi lasciasse alcuna sua orma propria. E fu artefice più che artista, inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica della forma: vanto non piccolo, ma che tocca la sola superficie dell’arte.

La gloria di Guido fu là, dov’egli non cercò altro che un sollievo e uno sfogo dell’animo. Fu là, ch’egli senza volerlo e saperlo si rivelò artista e poeta. Vi sono uomini che i contemporanei ed essi medesimi sono incapaci di apprezzare. Guido era più grande ch’egli stesso e i suoi contemporanei non sapevano.

Guido è il primo poeta italiano, degno di questo nome, [p. 52 modifica]perchè è il primo che abbia il senso e l’affetto del reale. Le vuote generalità de’ Trovatori, divenute poi un contenuto scientifico e rettorico, sono in lui cosa viva, perchè, quando scrive a diletto e a sfogo, rendono le impressioni e i sentimenti dell’anima. La poesia che prima pensava e descriveva, ora narra e rappresenta, non al modo semplice e rozzo di antichi poeti, ma con quella grazia e finitezza a cui era già venuta la lingua, maneggiata da Guido con perfetta padronanza. Qui sono due forosette, egregiamente caratterizzate che gli cavano di bocca il suo segreto d’amore. Là è una pastorella che incontra nel boschetto, e ti abbozza una scena d’amore colta dal vero. Sono gli stessi concetti de’ trovatori, ma realizzati, non solo ornati e illeggiadriti al di fuori, ma trasformati nella loro sostanza, divenuti caratteri, immagini, sentimenti, cioè a dire vita e azione. Senti là dentro l’anima dello scrittore, ora lieta e serena che si esprime con una grazia ineffabile come nelle ballate delle forosette e della pastorella, ora penetrata di una malinconia che si effonde con dolcezza negli amabili sogni dell’immaginazione e nella tenerezza dell’affetto, come nella ballata, che scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno, il presentimento della morte. Qui lo scienziato sparisce e la rettorica è dimenticata. Tutto nasce dal di dentro, naturale, semplice, sobrio, con perfetta misura tra il sentimento e l’espressione. Il poeta non pensa a gradire, a cercare effetti, a fare impressioni con le sottigliezze della dottrina e della rettorica: scrive sè stesso, come si sente in un certo stato dell’animo, senz’altra pretensione che di sfogarsi, di espandersi, segnando la via nella quale Dante fece tanto cammino. I posteri poterono applicare a lui quello che Dante disse di sè:

Io mi son un, che quando
Amor mi spira, noto e a quel modo
Ch’ei detta dentro, vo significando.

[p. 53 modifica]Il che non avvenne di Lentino, di Guittone, rimasti al di qua del dolce stil nuovo, perchè esagerarono i sentimenti, andarono al di là della natura, per gradire, piacere a’ lettori.


E qual più a gradire oltre si mette,
     Non vede più dall’uno all’altro stile.


Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il fabbro fu Cino, il poeta fu Cavalcanti. La nuova scuola non era altro che una coscienza più chiara dell’arte. La filosofia per sè sola fu stimata insufficiente, e si richiese la forma. Guittone d’Arezzo non fu più apprezzato, quantunque di filosofia ornatissimo, grave e sentenzioso, come dice Lorenzo de' Medici, perchè gli mancava lo stile, alquanto ruvido e severo, nè di alcun dolce lume di eloquenza acceso. Anche Benvenuto da Imola chiama nude le sue parole e lo commenda per le gravi sentenze ma non per lo stile. Nasceva in Firenze un nuovo senso, il senso della forma.

A quel tempo fra tante feroci gare politiche la letteratura era nel suo fiore in tutta Toscana e sotto i più diversi aspetti. Dante da Majano era un’eco de’ Trovatori, con la sua Nina siciliana. Guittone, Brunetto, Orbiciani da Lucca erano poeti dotti ma rozzi, come i Bolognesi Onesto e Semprebene. Ma già il culto della forma, l’amore del bello stile si sente in parecchi poeti. Dino Frescobaldi, Rustico di Filippo, Guido Novello, Lapo Gianni, Cecco d’Ascoli sono il corteggio, nel quale emerge la figura di Guido Cavalcanti.

Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accompagnò quello di Dante Alighieri, legati insieme da una amicizia che non si ruppe se non per morte. Parvero le Nuove Rime, e fu tale l’impressione ch’ei salì subito accanto a Cavalcanti. Sembrò che avesse risolto il problema di esprimere le profondità della scienza in bella [p. 54 modifica]forma: ultimo segno a cui si mirava. Perciò ebbe molta voga la sua canzone:

Donne, che avete intelletto d’amore;


e ancora più l’altra:

Voi che intendendo il terzo ciel movete.

Dante avea la stessa opinione. Il dotto discepolo di Bologna mira poetando a divulgare la scienza, usando modi piani e aperti alla intelligenza comune. Nella canzone, dove esorta la donna a dispregiare uomo che da sè virtù fatta ha lontana, dice

Ma perchè il mio dire util vi sia,
Discenderò del tutto
In parte ed in costrutto
Più lieve, perchè men grave s’intenda;
Chè rado sotto benda
Parola oscura giugne allo intelletto;
Perchè parlar con voi si vuole aperte.

E quanto pure è costretto a celare sotto benda i suoi concetti, aggiunge un comento in prosa e dichiara egli medesimo la sua dottrina. Tale è il comento che fa alla canzone:

Voi che intendendo il terzo ciel movete;


e parendogli che senza quel comento la canzone, presa in sè stessa, rimanga fuori dell’intelligenza volgare, finisce così:

Canzone, io credo che saranno radi
     Color che tua ragion intendan bene,
     Tanto lor parli faticosa e forte:
     Onde se per ventura egli addiviene.
     Che tu dinanzi da persone vadi,
     Che non ti pajan d’essa bene accorte;
     Allor ti priego che ti riconforte,

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     Dicendo lor: diletta mia novella:
     Ponete mente almen com’io son bella.

C’era dunque nell’intenzione di Dante di bandire i veri della scienza ora nella forma diretta del ragionamento, ora sotto il velo dell’allegoria, ma in modo che la poesia quando anche non fosse compresa da’ più, avesse un valore in sè stessa, fosse bella e dilettasse. Era la teoria della nuova scuola nella sua più alta espressione, una coscienza artistica più chiara e più sviluppata. Il rispetto della verità scientifica è tale, che Dante si domanda, come essendo Amore non sostanza, ma accidente, possa egli farlo ridere e parlare, come fosse persona. E adduce a sua difesa, che i rimatori, che fanno versi in volgare hanno gli stessi privilegi de’ poeti, nome che dà a’ latini, i quali, come Virgilio, Ovidio, Lucano, Orazio, diedero moto e parole alle cose inanimate: il che egli chiama rimare sotto vesta di figura o di colore rettorico, qualificando rimatori stolti quelli che domandati non sapessero dinudare le loro parole da cotal vesta. Onde si vede che Dante e Cavalcanti, ch’egli qui chiama il suo primo amico, spregiavano e questi rimatori stolti, che usavano rettorica vuota di contenuto8, e quelli che ti davano un contenuto scientifico nudo, senza rettorica. Qui è tutta la nuova scuola poetica, rimasa per molti secoli l’ultima parola della critica italiana: ciò che il Tasso chiamò condire il vero in molli versi.

Con queste teorie, con queste abitudini della mente parecchie canzoni e sonetti sono ragionamenti con lume di rettorica, concetti coloriti. Di tal natura è la Canzone sulla gentilezza o nobiltà:

Le dolci rime d’amor ch’i’ solía.

[p. 56 modifica]e l’altra:

Amor, tu vedi ben che questa donna,


dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta gli effetti che sul suo animo produce lo studio della filosofia. I fenomeni dell’amore e della natura sono spiegati scientificamente, più che rappresentati, com’è l’inverno nella canzone:

Io son venuto al punto della rota,


e come è l’amore nella canzone:

Amor che muovi tua virtù dal cielo;


o come è la bellezza nella canzone:

Amor che nella mente mi ragiona.

Delle canzoni allegoriche e scientifiche la più accessibile e popolare è quella delle tre donne, Drittura, Larghezza, Temperanza, germane d’amore, che cacciate dal mondo vanno mendicando.

Ciascuna par dolente e sbigottita,
Come persona discacciata e stanca,
Cui tutta gente manca,
E cui virtute e nobiltà non vale.
Tempo fu già, nel quale,
Secondo il lor parlar, furon dilette;
Or sono a tutti in ira ed in non cale.

Qui il poeta non ragiona ma narra e rappresenta. Il concetto scientifico è vinto dalla vivacità della rappresentazione e dalla elevatezza del sentimento. Il colore rettorico non è semplice colorito, ma è la sostanza.

In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben altra forza e vivacità e ricchezza di concetti e di colori che i due Guidi. Egli fu il suo proprio comentatore, avendo nella vita Nuova e nel Convito spiegata l’occasione, il [p. 57 modifica]concetto, la forma delle sue poesie. E quanto alla parte tecnica, all’uso della lingua, del verso e della rima, nel suo libro de Vulgari eloquio mostra che ne intendeva tutt’i più riposti artificii. I contemporanei trovavano in queste poesie il perfetto esempio della loro scuola poetica: la maggior dottrina sotto la più leggiadra veste rettorica.

Il mondo lirico di Dante è la stessa materia che s’era ita finora elaborando, con maggior varietà e con più chiara coscienza. Il Dio di questo mondo è Amore, prima con le ammirazioni, i tormenti e le immaginazioni della giovanezza, poi con un misticismo ed un entusiasmo filosofico. Amore non può operare che ne’ cuori gentili: perciò gli amanti sono chiamati fini e cortesi. Gentilezza non nasce da nobiltà o da ricchezza, ma da virtù. E però le virtù sono suore d’amore e fanno star lucente il suo dardo finchè sono onorate in terra. Ma la virtù è in pochi, e l’amore è perciò di pochi vivanda. L’obbietto dell’amore è la bellezza, non il bello di fuori, le parti nude, ma il dolce pomo, concesso solo a chi è amico di virtù. La bellezza non si mostra se non a chi la intende: amore è chiamato dagli antichi intendanza, e Dante non dice sentire amore, ma avere intelletto d’amore. Ad appagare l’amore basta il vedere, la contemplazione. Vedere è amore, amore è intendere.

E chi la vede, e non se n’innamora,
D’amor non averà mai intelletto.


Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo:

Voi che intendendo il terzo ciel movete.


Dio move l’universo pensando:

Costei pensò chi mosse l’universo.


Nè altro è amore nell’uomo che nova intelligenza, [p. 58 modifica]che lo tira su, lo avvicina alla prima intelligenza. La donna, esemplare della bellezza, è nobile intelletto.

.    .    .    O nobile intelletto;
Oggi fu l’anno che nel ciel partisti.


La donna è perciò il viso della conoscenza, la bella faccia della scienza, che invaghisce l’uomo e sveglia in lui nova intelligenza, lo fa intendere. La donna dunque è la scienza essa medesima, è la filosofia nella sua bella apparenza: e questo è la bellezza, il dolce pomo consentito a pochi. Intendere è amore, e amore è operare come s’intende; perciò filosofia è uso amoroso di sapienza, scienza divenuta azione mediante l’amore. La virtù non è altro che sapienza, vivere secondo i dettati della scienza. Perciò l’amante è chiamato saggio: e la donna è saggia prima di esser bella:

Beltade appare in saggia donna pui
Che piace agli occhi.    .    .    


La beltà non è altro che l’apparenza della saggezza, sì che piaccia e innamori di sè.

Con questo misticismo filosofico si accordava il misticismo religioso, secondo il quale il corpo è velo dello spirito, e la bellezza è la luce della verità, la faccia di Dio, somma Intelligenza, contemplazione degli Angioli, e dei Santi. Dio, gli angioli, il Paradiso rappresentano anche qui la loro parte. Teologia e filosofia si dànno la mano.

È la prima volta che questo contenuto esce fuori nella sua integrità e con così perfetta coscienza. È l’idealismo di quel tempo, con la sua forma naturale, l’allegoria. Aggiungi l’opera della immaginazione, che dà alle figure tanta vivacità di colorito, ed hai l’ultimo segno di perfezione che si poteva allora desiderare.

Note

  1. Il tuo amore, il tuo innamorato.
  2. Gemme.
  3. Non ha fine o effetto
  4. Errore, errare di mente, inquietudine.
  5. Come dice Dante:

    Amore e cor gentil sono una cosa,
         Siccome il Saggio in suo dittato pone.

  6. Tuono
  7. Guido Guinicelli e Guido Cavalcanti.
  8. Dice così: questo mio primo amico ed io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente.