Storia filosofica dei secoli futuri/Dalla pace di Lubiana alla federazione di Varsavia (1960)

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Dalla pace di Lubiana alla federazione di Varsavia (1960)

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Dalla pace di Lubiana alla federazione di Varsavia (1960)
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LIBRO SECONDO.

DALLA PACE DI LUBIANA ALLA FEDERAZIONE DI VARSAVIA (1960)


L’opinion di coloro che pochi anni prima avean voluto rifare in Italia il secolo di Gregorio VII, e affidar la penisola al governo del papa mettendogli allato Garibaldi e il re di Napoli che gli portassero uno il moccichino e l’altro la tabacchiera, ebbe, anche dopo il trattato di Lubiana, una nuova smentita.

Per verità il dominio temporale della Santa Sede era ridotto a ben poco; e se non fossero stati i scismatici Russi e gli eretici Inglesi ed Americani a rimpiazzare con qualche conto d’albergo [p. 23 modifica]e qualche compera di antichità le borse romane, Roma stessa correva pericolo di rimaner spopolata, e abitata unicamente da Pasquino e dal papa.

Per fortuna o per disgrazia al debole Pio IX era succeduto sulla cattedra di san Pietro un Pugliese intollerante che aveva preso il nome di Giovanni XXIII e si sentiva molto propenso ad imitare nella furia degli interdetti e delle scomuniche i papi di questo nome. Gli Italiani non mancarono di dargliene parecchi pretesti; ed ecco a parer mio dove si precipitarono un poco le cose.

Il poter temporale del papato, ridotto a quella pochissima cosa, non dava ombra a nessuno; e i cardinali scarlatti e paonazzi con quattromila paoli di stipendio non potevano giovare gran fatto la propaganda gesuitica. Perchè questa smania di dare addosso ad una larva? D’inimicarsi per tal modo il clero nazionale e la galante ortodossia forestiera? Di metter a repentaglio la propria tranquillità per un acquisto piccolo ed incerto? — Credo contuttociò, che qualche ragione da opporre ci fosse.

Prima di tutto, se il poter temporale d’un pontefice è in sè stesso assurdo, possieda egli poco o molto, l’assurdo rimane sempre. E poi il conservar qualche cosa dell’antico patrimonio lasciava sempre una segreta lusinga di racquistarlo tutto, e scaldava gli animi gesuiteschi a congiurare contro il poter secolare e a danno della patria. S’aggiunga che l’occupazione papalina di Roma vietava la completa unificazione d’Italia, escludendo l’unico centro in cui potessero compenetrarsi i due regni Muratiano di Napoli e Sabaudo dell’alta Italia. Perciò gli Italiani gridavano contro il papato; e gli stranieri, che se ne intendevano poco, gridavano contro di essi. Non mancarono anche gli apostoli della pace che consigliavano la pazienza: ma la pazienza è un bello averla quando i malanni son fuori di casa.

Il fatto sta che il papa minacciato dai liberali Italiani ricorse per difesa alla Russia; e che la Francia, per tener lontana la preponderanza del gigante settentrionale che già toccava a Costantinopoli, fu costretta ad intervenire un'altra volta.

Le cose stavano in questo modo quando l’imperatore dei Francesi venne a morire, e dopo quattro mesi di reggenza essendo insorta qualche turbolenza nel paese, la rivoluzione venne a scoppiare, Napoleone V uscì in Alemagna ad attendervi la rivincita e orleanisti e repubblicani e fino quel vecchio badiale del conte di Chambord scesero in campo a disputarsi il potere. [p. 24 modifica]La solita repubblica fu inaugurata un’altra volta a Parigi mentre il papa s’imbarcava a Porto d’Anzio sopra una fregata inglese; e la navicella di san Pietro tornò ad essere non più una metafora, ma una realtà. L’Inghilterra, scaduta dal suo antico splendore per la definitiva liberazione delle Indie, pel commercio d’Oriente aperto a tutti i popoli attraverso il canale di Suez, e per le grandi miniere scoperte e scavate dai Russi nel centro dell’Asia, intendeva a vendicarsi delle nazioni col conservare religiosamente il pomo della discordia. Siccome essa vedeva che colle sole sue forze il papa sarebbe rimasto a bordo assai lungo tempo senza pescare nè anime nè pesci, e senza dar comodo a lei di pescare nel torbido potenza e milioni, così ingarbugliò un trattato segreto colla Russia, e depositò il Santo Padre con quattordici cardinali sulle spiagge della Crimea.

Nicolo II, czar di quel tempo, non somigliava per nulla al paziente Alessandro II vincitore del Caucaso ed emancipatore dei servi; egli era di quelli che vogliono rubar il mestiere al tempo e far soli durante il loro regno quello che può forse menar a termine soltanto una lunga e fortunata dinastìa. Aver il capo nelle nebbie ghiacciate della Neva e del mar Bianco, i piedi sulle sabbie dorate del Bòsforo, una mano sulla China e un’altra sull’Italia, padroneggiar i due mondi e le due Rome, e imporre all’universo intero lo stampo cosacco: era un disegno che non dispiaceva all’erede di Pietro il grande e del primo Nicolo. I due sovrani, i due papi si scontrarono sul lito della Tauride: Giovanni XXIII, il despota del passato, e Nicolo II, il denominatore del presente, s’intesero con uno sguardo, e le parole che si tennero dopo furono a gratuito schiarimento.

«Che volete, Santità? — chiese il Tartaro incivilito.

«Quello che volete voi, Maestà — rispose il Gran Sacerdote latino.

«Vale a dire?

«Vale a dire che io voglio il dominio del mondo, come me ne danno diritto le bolle de’ miei santi predecessori.

«Per conquistar il mondo, m’immagino che vorrete cominciare da qualche parte!

«Voglio cominciar da Roma! voglio cacciare dalla sede degli Apostoli quegli scomunicati che vi si sono intrusi per consacrarvi l’empietà e la menzogna.

«Bene; io v’aiuterò a riprender Roma: ma, patti chiari! che la mia parte di mondo la voglio conservar io. [p. 25 modifica]

«Ah Maestà, se voleste convertirvi! se...

«Basta! a questo penseremo poi. Intanto io vi assegno a residenza le mine di Sebastopoli, e là potrete pontificare a mie spese finchè le navi dell’Inghilterra e le mie truppe abbiano aperto la foce del Tevere e le porte della città eterna. Dio sia con voi!

«E che il cielo benedica le armi di vostra Maestà!

Da quel giorno Sebastopoli diventò la terza Roma o la seconda Avignone, e di colà partivano ogni domenica molti carichi di scomuniche ad uso degli Occidentali.

Intanto lo czar e l’Inghilterra non perdevano tempo. Col pretesto del papa essi erano d’accordo di invadere l’Italia, prender di colà l’abbrivio per rovesciare in Francia il nuovo ordine di cose, e rivolgersi poi naturalmente a dominar l’Alemagna, che, serva abitudinaria della Russia e presa tra due fuochi, non avrebbe pensato a resistere. Lo czar diventava allora l’imperatore universale, il papa di Roma restava un suo vassallo e l’Inghilterra la sua berroviera.

Gli interni tumulti francesi, e le gelosie de’ due regni italiani diedero loro agio a menare a buon fine la prima parte del programma. Il papato romano fu restaurato, la Francia invasa si tolse spontaneamente la dinastia orleanista, e l’Occidente sembrava pronto a cader genuflesso dinanzi all’idolo del Settentrione. Ma la pigra Germania fu questa volta quella che mandò a male i conti.

Già da lungo tempo le passioni socialiste e il fermento sansimoniano bollivano sotto i sonniferi cipressi della patria d’Arminio. Eccitate dalla viltà dei governanti che non si opponevano per nulla al predominio russo, e stuzzicate dalla stolida castroneria dei signori crociati, quelle passioni si scatenarono, ed eserciti di proletari tedeschi briachi di birra, di vino e di fanatismo scesero dalle Alpi e dal Reno.

Venti anni durò questo nuovo diluvio; durante i quali, nulla di quello che era al mondo rimase vivo ed intatto. La rivoluzione che un secolo prima era avvenuta in Francia non era stata che un piccolo e scolorito proemio di questa. Dicesi che un poeta tedesco, un certo Heine, l’avesse profetizzata, e che per questo ei morisse esiliato dalla sua patria.

Verso il 1920 due potenze troviamo colossali in Europa, la Germania e la Russia; la repubblicana e la dispotica, l’una a fronte dell’altra. La Francia, la Spagna e l’Italia vanno seguitando mal volentieri le pedate di quella; l’ultima sopratutto, a cui il papato, [p. 26 modifica]per quanto mediatizzato e ridotto un puro sacerdozio, dà sempre molti fastidi. L’Inghilterra mercanteggia muta e miope come un secolo prima l’Olanda; l’America applaude non so se più alla rovina industriale o ai baccanali democratici dell’antica Europa.

In quel torno fu ancora un Bonaparte che risollevando e riorganizzando in Francia il poter militare ruppe quel solitario e pericoloso antagonismo dei due colossi, e, menando in campo una terza potenza, rese possibile il progetto d’una lega europea. Ma per arrivare a ciò bisognavano molti anni ancora; e più di tutto una rivoluzione nella Russia.

Questa avvenne nel 1950; e smembrando il corpo dell’impero sterminato e cacciando gli ultimi rimasugli dei Turchi in Arabia, diè origine nell’Europa orientale alla ricostruzione dell’impero bisantino, del regno di Polonia, e dell’impero russo propriamente detto, il quale possedeva nel centro dell’Asia la Confederazione asiatico-persiana come nel periodo anteriore l’Inghilterra aveva posseduto le Indie.

Allora, dietro invito della Francia, convennero in Varsavia i rappresentanti dei diversi popoli europei per venire ad una federazione; e si annoverarono dodici stati: impero russo e bizantino, regno d’Inghilterra, di Polonia, d’Italia, d’Irlanda, di Scandinavia, e di Spagna, repubbliche francese, germanica, svizzera, danubiana. La federazione fu preceduta da un trattato il quale sanciva a garanzia dei popoli la tripartizione della Russia, la separazione dell’Inghilterra dall’Irlanda, l’unificazione delle due penisole italiana e iberica, la cessione del poter temporale del papa, l’indipendenza della nuova repubblica cantonale danubiana comprendente i Magiari, i Servi, i Dalmati, i Bulgari ed i Rumeni, finalmente l’annullamento dell’Austria e della Prussia e la pace universale basata sopra un codice internazionale ed una Dieta europea, sedente di tre in tre anni, a Varsavia, ad Amburgo, a Marsiglia ed a Venezia.

Questo atto fu giurato nel 1960; e nel 1961 si ultimava in America la federazione del continente settentrionale colla gran penisola meridionale e spagnuola. Così fin da quel tempo, meno la parte barbara e la China, due gran leghe di popoli civili procedevano alacremente al perfezionamento della società.