Storia dei fatti de' Langobardi/Libro IV

Da Wikisource.
../Libro III

../Indice IncludiIntestazione 22 gennaio 2023 100% Da definire

Libro III Indice


[p. 181 modifica]

DEI FATTI

DE’ LANGOBARDI


LIBRO IV.


[p. 183 modifica]

CAPO I.

Come il re Agilulfo mandò ambasciatori in Francia a riscattare i prigioni.

Confermato adunque nella dignità reale Agilulfo (il quale fu detto anche Agone)1 mandò in Francia Agnello vescovo di Trento A. D. 590. per riscattare coloro, che dai castelli Trentini erano stati condotti prigioni dai Franchi. E il vescovo, ritornato di là a poco tempo, ne ricondusse alcuni, che Brunichilde regina de’ Franchi col proprio denaro aveva redenti. Parimente Euino duca di Trento passò in Francia per impetrare la pace, e poichè l’ebbe ottenuta, fece ritorno.


CAPO II.

Della siccità accaduta nello stesso anno, e delle locuste.

In quest’anno fuvvi una grandissima siccità A. D. 591. dal mese di gennajo fino a settembre; [p. 184 modifica]onde regnò una crudelissima fame: e poscia venne nel territorio di Trento uno sciame innumerevole di locuste, che erano molto più grandi delle comuni. Queste (cosa maravigliosa!) consumarono l’erbe e i paludi2, ma appena appena toccarono le messi dei campi; e nello stesso modo l’anno seguente ricomparirono3.


CAPO III.

Come il re Agilulfo uccise Minulfo: e della ribellione di Ulfari.

A questi giorni il re Agilulfo uccise Minulfo, duca dell’isola di s. Giulio4, [p. 185 modifica]perchè per lo innanzi costui s’avea dato ai capitani de’ Franchi. Gaidulfo poi, duca di Bergamo, ribellatosi contro il re, si fortificò validamente nella detta città, ma in fine diede alcuni ostaggi e fece la pace. Poco tempo dopo questo Gaidulfo si rinserrò nell’isola Comacina: e Agilulfo entrato nella medesima isola Comacina ne scacciò i partigiani5 di Gaidulfo, e trovato ivi un tesoro ripostovi dai Romani, lo trasportò a Ticino. Ma Gaidulfo nuovamente rinserratosi a Bergamo, fu ivi preso dal re Agilulfo6, e poi di bel nuovo rimesso nella sua grazia. Ribellatosi poscia anco il duca Ulfari in Trevigi contro il detto Agilulfo, questi lo assediò e lo fece prigione7. [p. 186 modifica]

CAPO IV.

Della peste di Ravenna, e della guerra di Childeberto col figliuolo d’Ilperico.

In quest’anno venne di nuovo la peste inguinaria, la quale infierì orribilmente più che altrove a Ravenna, a Grado e nell’Istria, come trent’anni prima avea fatto. Nel medesimo tempo il re Agilulfo fece la pace cogli Avari: e Childeberto si mise a guerreggiare con suo cugino, figliuolo d’Ilperico: nella qual guerra almeno trentamila uomini restarono morti. E fuvvi allora un inverno cotanto rigido, che niuno si ricordava esservi stato l’eguale. Oltre a ciò nel paese de’ Brioni piovve sangue dalle nuvole, e rivi pure di sangue sgorgaron dai fiumi 8. [p. 187 modifica]

CAPO V.

Del codice in dialogo mandato dal beato Gregorio alla regina Teodelinda.

In questi giorni il sapientissimo e beatissimo Gregorio, papa9 della città di Roma, oltre a molte altre cose scritte a pro della santa chiesa, compose eziandio quattro libri delle vite de Santi; il qual codice da lui fu chiamato dialogo, cioè discorso di due personaggi; perchè lo avea dato in luce ragionando con Pietro suo diacono. Onde il predetto papa mando questi libri alla regina Teodelinda, siccome quella ch’egli sapeva essere tutta dedicata alla fede di Cristo, e distinta nelle buone azioni10.


CAPO VI.

Delle buone opere della regina Teodelinda.

Per mezzo adunque di questa regina molti vantaggi conseguì la chiesa di Dio. Perchè mentre ancora i Langobardi erano [p. 188 modifica]involti nell’errore del gentilesimo aveano usurpato tutte le sostanze delle chiese; per la qual cosa mosso il re dalle salutifere preghiere di lei abbracciò la fede cattolica, largì molte possessioni alla chiesa di Cristo11, e ricondusse all’onore della consueta dignità molti vescovi, che languivano nella oppressura e nell’abbiezione.


CAPO VII.

Come Tassilone fu ordinato re da Childeberto re dell’Austrasia.

A. D. 595.Circa questi tempi Tassilone fu da Childeberto re de’ Franchi creato re di Baioria12; il quale poco dopo allestito un [p. 189 modifica]esercito ed entrato nelle provincie degli Slavi, riportata una compiuta vittoria, con immenso bottino ritornossene alle proprie terre.


CAPO VIII.

Come l’Esarco Romano Patrizio assalì le città possedute dai Langobardi, e come il re Agilulfo uccise il duca Maurizio, e finalmente come questi fece la pace col beato Gregorio e coi Romani.

Nella medesima stagione l’Esarco13 di Ravenna Romano Patrizio portossi a Roma; e nel suo ritorno riconquistò le città che erano dominate dai Langobardi; i nomi delle quali sono Sutrio, Polimarzio, Orta, Tuderto, Ameria, Perusia, Luceoli, e [p. 190 modifica]parecchie altre14. Della qual cosa come fu fatto consapevole il re Agilulfo, partito immediatamente da Ticino con un poderoso esercito, andò addosso alla città di Perugia, ed ivi per alcuni giorni assediò Maurisione duca de’ Langobardi, che s’avea gittato alle parti Romane, e, presolo, in breve tempo gli tolse la vita. All’avvicinarsi di questo re il beato Gregorio fu assalito da tanto terrore, che si fermò dallo spiegare il libro di Ezechiello, in cui si parla del tempio, siccome egli stesso racconta nelle sue omelie15. Ma ricomposti gli affari, il re Agilulfo se ne tornò a Ticino, dove non molto tempo dappoi, per insinuazione della regina [p. 191 modifica]Teodelinda sua moglie, la quale era frequentemente eccitata dalle epistole del beato Gregorio, conchiuse una fermissima pace collo stesso santissimo papa Gregorio, e con li Romani: onde quel venerabile sacerdote scrisse la seguente lettera di ringraziamento alla sopra nominata regina.


CAPO IX.

Epistola del beato Gregorio alla regina Teodelinda.

Gregorio a Teodelinda regina

Abbiamo saputo dal nostro figliuolo Probo abate, che l’eccellenza vostra con quell’amore e benignità, di cui sa far uso, diede opera alla conchiusion della pace. E invero altro dalla cristianità vostra non potevamo aspettarci, se non che dimostraste a tutto il mondo le cure e lo zelo vostro nella causa di detta pace. Onde rendiamo grazie a Dio onnipotente: il quale per tal [p. 192 modifica]modo governa il cuor vostro colla sua pietà, che siccome vi dona una fede retta, così vi concede anco sempre di poter operare secondo il suo beneplacito. Nè crediate, o eccellentissima figliuola, di aver poco meritato del sangue, che da una parte e dall’altra doveva versarsi. Per la qual cosa alla buona volontà vostra rendendo grazie, imploriamo la misericordia di Dio signor nostro, affinchè vi compensi coi beni del corpo e dell’anima, in questo e nell’altro mondo. Salutandovi intanto con paterno amore, vi esortiamo ad adoperare presso l’eccellentissimo vostro consorte in guisa, che non disdegni la società della cristiana repubblica. Perchè, come reputiamo che voi sappiate, sarà ad esso utile in mille modi il tenersi all’amicizia di quella. Voi però, secondo vostro costume, occupatevi sempre di quanto giova alla concordia delle parti, ed ove vi si presenti occasione di ben meritare, sforzatevi di ognor più render grate le opere vostre agli occhi di Dio onnipotente. [p. 193 modifica]

CAPO X.

Altra epistola dello stesso al re Agilulfo.

GREGORIO AD AGILULFO RE DE’ LANGOBARDI

Rendiamo grazie all’eccellenza vostra, che ha esaudite le nostre istanze, secondo la fiducia che in voi avevamo riposta, coll’ordinare la pace, la quale noi abbiamo giudicato profittevole ad ambe le parti: per lo che grandemente lodiamo la vostra prudenza e bontà, avendo voi dimostrato nell’amare la pace, che amate Dio autore del la medesima. Che se (ci guardi Iddio) ella non fosse stata conchiusa, che altro si sarebbe potuto fare fuorchè con iscandalo e pericolo delle parti spargere il sangue dei miseri contadini, la fatica de’ quali è cotanto utile a questi e a quelli. Ma affinchè possiamo sentire gli effetti della pace, secondo che fu da noi stabilita, mentre vi salutiamo con paterna carità, domandiamo (rendendovi tutte quelle grazie, che per noi si posson maggiori) che qualunque volta vi si presenti occasione, diate ordine ai vostri capitani ne’ diversi luoghi e [p. 194 modifica]specialmente in queste parti stanziati, di scrupolosamente custodir questa pace, e di non andar in cerca di alcun motivo, per cui abbiano a nascere contese o disgrazie. I latori poi delle presenti lettere, siccome persone veramente a voi pertinenti, li abbiamo accolti con quell’affetto che conveniva; essendo giusto, che noi dovessimo con carità ricevere e congedare personaggi sapienti, e che d’una pace fatta col favore di Dio furono messaggieri16.


CAPO XI.

Della stella Cometa: della morte di Giovanni vescovo: del duca Euino: e dei Baioari.

Nel seguente gennajo apparve la stella cometa mattina e sera per tutto il mese. E nel medesimo tempo morì Giovanni [p. 195 modifica]vescovo di Ravenna, a cui successe Mariano cittadino di Roma. Morto parimente Euino duca di Trento, fu sostituito in suo luogo il duca Gaidobaldo, uomo da bene, e di fede cattolica. Ai medesimi giorni pure circa due mille Baioari piombarono sopra gli Schiavi, e al sopraggiungere di Cacano tutti furono tagliati a pezzi. Allora per la prima volta furono condotti in Italia alcuni cavalli selvatici, e bufali17, che furono oggetti di miracolo agl’Italiani. [p. 196 modifica]

CAPO XII.

Della morte di Childeberto re dei Franchi, della guerra degli Avari cogli stessi Franchi, e della fine del re Guntranno.

In questa medesima stagione Childeberto re de’ Franchi A. D. 596. morì, come è fama, per forza di veleno, nell’anno venticinquesimo dell’età sua, insieme colla propria moglie18. Ma gli Unni, che pure chiamansi Avari, dalla Pannonia trasferitisi nella Turingia, apportarono guerre terribilissime ai Franchi. Reggeva allora le Gallie la regina Brunichilde coi suoi nepoti Teudeberto e Teuderico ancor fanciulletti; sicchè gli Unni, ricevuta da essi buona copia d’oro, se ne tornarono alle proprie sedi. Morì pure a quel tempo il re de’ Franchi Guntranno, e la regina Brunichilde prese cura di quel regno e dei nepoti ancor pargoletti, figliuoli di Childeberto19. [p. 197 modifica]

CAPO XIII.

Della legazione mandata da Cacano ad Agilulfo: e della pace col patrizio Gallicino.

Intanto Cacano re degli Unni mandò legati ad Agilulfo in Milano, e conchiuse pace con lui. Nello stesso tempo morì Romano Patrizio, a cui successe Gallicino, il quale pure convenne della pace col medesimo re Agilulfo.


CAPO XIV.

Della pace di Agilulfo coi Franchi; e della morte di Zangrulfo e di Warnecauzio.

Nei medesimi giorni ancora, Agilulfo s’accordò in pace perpetua con Teuderico re de’ Franchi; dopo di che il predetto Agilulfo fece morire Zangrulfo duca de’ Veronesi, il quale eraglisi ribellato: similmente uccise Gaidulfo duca di Bergamo, a cui [p. 198 modifica]avea già perdonato due volte20. E alla fine nello stesso modo privò di vita Warnecauzio nella città di Pavia.


CAPO XV.

Della peste di Ravenna, e d’una grande mortalità in Verona.

Nel tempo susseguente una fierissima pestilenza travagliò Ravenna, e le genti che abitavano lungo la spiaggia del mare; siccome l’anno dopo, una enorme mortalità disfece i popoli Veronesi [p. 199 modifica]

CAPO XVI.

Di un segno sanguigno nel cielo, e della guerra de’ Franchi fra loro.


Allora fu veduto apparire in cielo un segno sanguigno, e come certe aste egualmente di sangue, e luce chiarissima per tutta notte21. E in quel tempo Teudiberto re de’ Franchi guerreggiando col cugino Clotario trucidò gran parte delle sue genti22.


CAPO XVII.

Della morte di Ariulfo duca di Spoleti, e del ducato di Tudelapio.

L’anno seguente morì il duca Ariulfo, il quale fu il successore di Faroaldo a Spoleti. Costui essendo venuto a battaglia in Camerino contro i Romani, ed avendo [p. 200 modifica]riportata vittoria, cominciò a ricercare ai suoi chi fosse quel personaggio, ch’egli avea veduto cotanto valorosamente combattere in quella pugna. Al quale i suoi avendo risposto di non aver veduto alcun altro più gagliardo di lui medesimo, ei disse loro: Certo, io quivi ho veduto un altro in tutto e per tutto migliore di me, il quale ogni volta che un nemico mi voleva ferire, sempre, quel valoroso, mi difendeva col proprio scudo. Indi lo stesso duca essendo venuto a Spoleti, dove è posta la basilica del beato Sabino martire, e dove riposa il corpo venerabile dello stesso santo, domandò: Di chi è questa sì grande magione? E i fedeli risposero, che ivi riposava il martire Sabino, del quale i cristiani invocavan l’ajuto tutte le volte che andavano in guerra contro i loro nemici. Allora Ariulfo, che era ancora pagano, rispose: Come mai un morto può dare alcun ajuto ad un vivo? Ciò detto, smontò da cavallo ed entrò a veder quella chiesa. E mentre che gli altri faceano orazione, egli andava osservando le pitture della detta basilica: quando imbattutosi cogli occhi sulla dipinta immagine del beato martire Sabino, un istante dopo proruppe protestando e giurando, esser quello l’ [p. 201 modifica]aspetto e l’andamento del guerriero, da cui egli era stato difeso nella battaglia23. Onde allora si conobbe, che il beato martire Sabino gli avea prestato soccorso nei pericoli della guerra24. Morto poi il prefato Ariulfo, due figliuoli del duca Faroaldo suo antecessore, vennero a conflitto fra loro pel dominio di quel ducato, ed uno di questi, di nome Teudelapio, rimasto vincitore, ne assunse il governo. [p. 202 modifica]

CAPO XVIII.

Del sacco del monastero di s. Benedetto fatto dai Langobardi.

Intorno a questi tempi il monastero di s. Benedetto, situato sul monte Casino, fu assalito dai Langobardi; i quali predandovi tutte le cose, non poterono però cogliere nè pur uno de’ monaci; affinchè s’adempisse la profezia fatta molto prima dal venerabile padre Benedetto, nella quale così si espresse: Appena io ho potuto ottenere da Dio, che in questo luogo mi si lasciassero le anime. I monaci fuggiaschi da quel cenobio si ricoverarono a Roma, portando seco loro il codice della santa regola, composta dal predetto padre, con certi altri scritti, come pure una libbra di pane, e una misura di vino25, e tutte quelle masserizie che poteron sottrarre. Per altro al beato Benedetto successe Costantino a governare la [p. 203 modifica]stessa congregazione, poi Simplicio, indi Vitale, e finalmente Bonito, sotto il quale fu fatto questo saccheggio26.


CAPO ХІХ.

Della morte di Zottone e del ducato di Arichi.

Morto adunque Zottone duca de’ Beneventani27, gli successe Arichi mandato dal re Agilulfo, il quale Arichi era nato nel Forogiulio, ed avea educato i figliuoli di Gisulfo, del quale era parente. A questo Arichi, il beato Gregorio papa scrisse una lettera del seguente tenore: [p. 204 modifica]

CAPO XX.

Epistola del beato Gregorio papa ad Arichi.

GREGORIO AL DUCA ARICHI

Poichè noi poniamo grande speranza nella vostra gloria, come sincero nostro figliuolo, ci sentiamo confortati a domandare a voi fiducialmente alcune cose, tenendo per certo, che non permetterete che noi restiamo attristati, massimamente in un affare, da cui l’anima vostra potrà ritrarre non poco profitto. Vi facciamo dunque sapere, che ci si rendono necessarie alcune travi per le chiese de’ beati Pietro e Paolo, che perciò abbiamo ingiunto a Sabino nostro suddiacono di tagliarne parecchie dalle parti de’ Bricci28 e di condurle fino al mare in luogo adattato. E perchè in questa cosa gli abbisogna un qualche soccorso, salutando la gloria vostra, con paterna carità vi chiediamo di voler ordinare agli agenti vostri stanziali in quel luogo, [p. 205 modifica]che mandino gli uomini che sono sotto di essi coi loro buoi in ajuto di quello, affinchè colla vostra cooperazione possa meglio eseguire ciò che noi gli abbiamo commesso. Noi intanto vi promettiamo, qualora la cosa avrà avuto l’effetto, di mandarvi un dono, che non sarà indegno di voi. Perchè noi sappiamo esser grati e corrispondere a quei nostri figliuoli, i quali ci dimostrano il lor buon volere. Laonde nuovamente noi vi chiediamo, o glorioso figliuolo, di far sì, che possiamo esservi obbligati del prestatoci benefizio, e che voi riceviate il guiderdone pel ben fatto alle chiese de’ santi.


CAPO II.

Della cattività della figliuola del re Agilulfo, e perchè lo stesso re abbia mandato a Cacano parecchi artefici.

In questi giorni dall’esercito di Gallicino Patrizio fu fatta schiava la figliuola del re Agilulfo insieme con suo marito, chiamato Godescalco, della città di Parma; i quali furono condotti a Ravenna. Nel medesimo tempo il re Agilulfo mandò a Cacano re [p. 206 modifica]degli Avari alcuni artefici29 a fabbricar le navi, colle quali lo stesso Cacano prese una certa isola nella Tracia.


CAPO XXII.

Della basilica del beato Giovanni che la regina Teodelinda edificò in Modicia.

Intorno al medesimo tempo la regina Teodelinda A. D. 603. fece la dedicazione della basilica di s. Giovanni Battista, che avea già fabbricata30 in Modicia, luogo distante [p. 207 modifica]dodici miglia da Milano31, e la decorò di [p. 208 modifica]molti ornamenti d’oro, e d’argento32, non che l’arricchì con parecchie entrate. Ivi pure Teodorico, che fu già re de’ Goti, edificò un palazzo, stantechè il sito al tempo d’estate, siccome vicino all’alpi, riesce temperato e salubre. [p. 209 modifica]

CAPO XXIII.

Del palazzo edificato dalla regina Teodelinda.

Ivi ancora la prefata regina edificò per sè un palazzo, in cui fece dipingere alcune gesta dei Langobardi. Nella qual dipintura chiaramente si vede in che modo a quel tempo i Langobardi tosavan la chioma, quali erano i loro vestiti, e il loro andamento. Essi adunque radevano il capo al di dietro fino alla nuca, e lasciavano cadere i capelli, divisi alla metà della fronte, da una parte e dall’altra del volto fino alla bocca33. I loro vestiti erano larghi, [p. 210 modifica]massimamente quelli di lino, alla foggia degli Anglo-Sassoni, e ornati di larghe liste intarsiate di varj colori. Portavano le scarpe aperte quasi fino alla cima del pollice, e alternamente da stringhe di pelle allacciate. In appresso cominciarono a servirsi di uose34, sopra le quali, andando a cavallo, mettevano altri gamberuoli di lana, di colore [p. 211 modifica]rossigno35; ma ciò aveano tolto dal costume Romano.


CAPO XXIV.

Della distruzione della città di Padova.

A questi tempi la città di Padova, per lo stupendo valore delle sue milizie, resistè A. D. 601. ai Langobardi. Ma finalmente appiccato da costoro il fuoco fu arsa tutta dalle fiamme divoratrici, e per comando del re Agilulfo dalle fondamenta distrutta. Nondimeno ai soldati, che in quella trovavansi, fu permesso di trasferirsi a Ravenna. [p. 212 modifica]

CAPO XXV.

Della pace fatta cogli Avari, e dell’ingresso dei Langobardi nell’Istria.

Nella medesima stagione i legati di Agilulfo, reduci da Cacano, annunciarono la pace perpetua cogli Avari. E un ambasciatore di Cacano venuto in lor compagnia passò nelle Gallie, significando al re’ de Franchi, che siccome avea pace cogli Avari, così la facesse coi Langobardi. Intanto i medesimi Langobardi unitamente agli Avari ed agli Slavi sorpassarono i confini degl’Istri, e col fuoco e colle rapine devastarono tutto il paese.


CAPO XXVI.

Della nascita di Adaloaldo figliuolo di Agilulfo, e dell’assalto di Monselice.

Allora al re Agilulfo nacque un figliuolo dalla regina Teodelinda, nel palazzo di Modicia, il quale fu chiamato Adaloaldo. In appresso i Langobardi assaltarono il castello di Monselice. E nel medesimo tempo, scacciato via da Ravenna Gallicino, ritornò ivi [p. 213 modifica]Smaragdo, che era stato prima patrizio in quella città.


CAPO XXVII.

Della morte dell’imperatore Maurizio.

Intanto Maurizio Augusto, dopo d’avere per anni ventuno governato l’impero, A. D. 602. fu fatto morire da Foca insieme coi suoi figliuoli Teodosio, Costantino e Tiberio36. Fu uomo utile alla repubblica, poichè nelle frequenti guerre riuscì vittorioso de’ suoi nemici. Gli Unni pure, che anche Avari appellansi, furono vinti dal suo valore37. [p. 214 modifica]

CAPO XXVIII.

Dei duchi Gaidoaldo e Gisulfo, e del battesimo di Adaloaldo.

In quest’anno Gaidoaldo, duca di Trento, e Gisulfo duca di Forogiulio, A. D. 603. già disgiunti per lo innanzi dall’alleanza d’Agilulfo, furono da esso richiamati alla pace. E allora eziandio fu battezzato il predetto bambino Adaloaldo, figliuolo del re Agilulfo, nella chiesa di s. Giovanni in Modicia, e fu levato dal sacro fonte dal servo di Cristo Secondo di Trento, del quale spesse volte abbiamo fatto menzione38. Nel detto anno la Pasqua cadde nel settimo giorno di aprile. [p. 215 modifica]

CAPO XXIX.

Della presa di Cremona e di Mantoa: della morte della figliuola del re, e della guerra de Franchi.

Eravi ancora a quei giorni inimicizia fra i Langobardi e i Romani, a cagione della cattività della figliuola del re. Onde Agilulfo, uscito da Milano nel mese di luglio, andò ad assediare la città di Cremona cogli Schiavi, che il re Cacano aveagli mandati in soccorso, e nel giorno ventuno di agosto la prese e la smantellò. Nella stessa guisa espugnò Mantova, e fracassatene cogli arieti le mura, poiché ebbe data licenza ai soldati che erano in quella città di ritornare a Ravenna, entrò nella stessa il giorno tredici di settembre. Allora si arrese eziandio alle parti de’ Langobardi un castello, che si chiama Vulturina39. Dall’altra parte il presidio di [p. 216 modifica]Bresillo incendiò quel castello, e poi si diede alla fuga. In conseguenza di tali fatti fu renduta da Smaragdo patrizio la figlia del re insieme col marito, coi figliuoli, e con tutti gli averi, dopo di che fu conchiusa la pace per nove mesi fino alle calende di aprile, del l’ottava indizione40. Ma la figliuola del re restituitasi a Ravenna, travagliata dai dolori del parto, per malagevolezza di quello morì. In questo medesimo anno Teudeberto e Teuderico re de’ Franchi guerreggiarono col loro zio Clotario, nella qual guerra molte migliaja d’uomini dall’una parte e dall’altra perirono.


CAPO XXX.

Della morte del beato Gregorio papa.

Allora pure passò a Cristo il beato Gregorio, A. D. 604. ed era nel secondo anno del regno [p. 217 modifica]di Foca; correndo l’ottava indizione41: in luogo del quale fu ordinato Sabiniano alla dignità dell’apostolato. E fu allora un freddissimo verno, talchè quasi da per tutto moriron le viti: e le messi pure parte guastate dai topi, e parte dalla nebbia42 appassite, fallirono. E dritto era in vero, che il mondo dovesse patire di fame e di sete, mentre alla mancanza di sì grande dottore, la penuria dello spirituale alimento, e l’aridità della sete penetrò nelle anime umane. Ora piacemi d’inserire in questo libretto alcuni tratti di una certa epistola, che si trova negli scritti del detto beato Gregorio papa, affinchè si possa più [p. 218 modifica]chiaramente conoscere quanto umile, e di quale innocenza e santità si fosse quell’uomo. Essendo egli dunque accusato presso l’imperatore Maurizio e i suoi figli d’aver fatto morire per denari in prigione certo vescovo Malco, scrisse una lettera a Sabiniano suo apocrisiario a Costantinopoli, in cui fra le altre cose gli dice: Una sola cosa tu devi brevemente insinuare ai serenissimi nostri signori, cioè, che se io, loro servo, avessi voluto impacciarmi nella morte de’ Langobardi, oggi la nazione Langobarda non avrebbe nè re, nè duchi, nè conti, e sarebbe divisa in grandissima confusione. Ma perchè temo il Signore, mi guardo dall’immischiarmi nella morte di uomo alcuno. Il vescovo Malco poi non fu nè imprigionato, nè patì alcuna tribolazione; ma nel giorno nel quale trattò una causa43, senza mia saputa fu condotto da Bonifazio notajo in casa sua, dove pranzò, e fu da esso onorato, e poi la notte improvvisamente morì. Ecco di quanta umiltà fu quest’uomo, che essendo sommo pontefice del Signore, si appellò servo degli uomini. Di [p. 219 modifica]quanta innocenza! che neppure nella morte dei Langobardi, quantunque increduli, e guastatori di tutte le cose, non volle egli immischiarsi44. [p. 220 modifica]

CAPO XXXI.

Del regno di Adaloaldo, e della pace coi Franchi.

Nel luglio della seguente estate Adaloaldo figliuolo di Agilulfo fu proclamato re de’ Langobardi nel Circo di Milano, alla presenza del re suo padre, e coll’intervento dei legati di Teudeberto re de’ Franchi, la figlia del quale fu promessa in isposa al regio fanciullo; e fu conchiusa pace perpetua coi medesimi Franchi45.


CAPO XXXII.

Guerra dei Franchi coi Sassoni.

Nello stesso tempo, guerreggiando i Franchi coi Sassoni, seguì da una parte e dall’ [p. 221 modifica]altra un’orrendo macellamento. E in Ticino nella Basilica di s. Pietro Apostolo, Pietro cantore fu colpito da un fulmine.


CAPO XXXIII.

Della pace con Smaragdo patrizio, e della presa delle città della Tuscia.

Alla fine nel seguente mese di novembre, A. D. 605. il re Agilulfo fece pace per un anno con Smaragdo patrizio, ricevendo dai Romani dodicimila soldi d’oro. Allora pure le città della Tuscia, cioè Bagnoreale46, ed Orvieto47 furono assalite dai Langobardi. Parimente in quell’anno nei mesi di aprile e di maggio apparve in cielo la stella chiamata cometa. Indi il re Agilulfo conchiuse una pace d’anni tre coi Romani. A. D. 606. [p. 222 modifica]

CAPO XXXIV.

Della morte del patriarca Severo, e del sacerdozio di Giovanni e di Candidiano.

Morto in questi giorni Severo patriarca, fu assunto al patriarcato Giovanni abbate nell’antica Aquileja, col consenso del re e del duca Gisulfo. E in Grado pure dai Romani fu ordinato Antistite Candidiano48. Nuovamente poi nei mesi di [p. 223 modifica]novembre e di decembre apparve la stella cometa. Ma morto Candidiano in Grado, fu ordinato in suo luogo Epifanio, già primicerio49 dei notaj, dai vescovi, i quali erano sotto i Romani; onde da quel tempo cominciarono ad essere due patriarchi50.


CAPO XXXV.

Della invasione della città di Napoli, e della morte di Eleuterio falso imperatore.

A questo tempo Giovanni Consino sorprese Napoli; ma di là a pochi giorni fu scacciato dalla detta città ed ucciso da Eleuterio patrizio: dopo di che il medesimo [p. 224 modifica]Eleuterio patrizio eunuco usurpò i diritti dell’impero. Costui da Ravenna dirigendosi a Roma fu ammazzato dai soldati nel castello di Luceoli, e la sua testa fu recata all’imperatore in Costantinopoli51.


CAPO XXXVI.

Della pace fatta coll’imperatore.

Nei medesimi tempi, il re Agilulfo mandò in Costantinopoli Stabiliciano suo notajo a Foca: il quale Stabiliciano, conchiusa la pace per un anno, tornossene coi legati dell’imperatore, che offerirono al re Agilulfo i doni imperiali. [p. 225 modifica]

CAPO XXXVII.

Dell imperatore Foca, della sua morte, e dell’impero d’Eraclio.

Foca adunque, poichè fu spento Maurizio coi propri figliuoli, come s’è detto, usurpando il regno de’ Romani dominò per lo spazio di otto anni52. Costui ad istanza del papa Bonifacio53 stabilì, che la sede della chiesa Romana ed Apostolica fosse capo di tutte le chiese54: mentre quella di Costantinopoli scriveasi la prima. Lo stesso imperatore a richiesta di altro papa [p. 226 modifica]Bonifacio55 ordinò che l’antico tempio, che chiamavano il Pantheon (levate tutte le immondezze dell’idolatria) si convertisse nella chiesa della beata sempre Vergine Maria, e di tutti li martiri; affinchè nel luogo ove un tempo eravi il culto non di tutti gli Dei, ma di tutti i Demonj, in avvenire si facesse memoria di tutti i santi56. Ai tempi di costui ardeva una guerra civile in oriente e in Egitto fra i Prasini ed i Veneti, i quali [p. 227 modifica]vicendevolmente si trucidavano57. I Persiani ancora recando contro la repubblica gravissime guerre, tolsero molte provincie e la stessa Gerusalemme58 ai Romani; e distruggendo le chiese, e le cose sacre pur profanando, fra gli altri ornamenti de’ santi luoghi, anco il vessillo della croce di Cristo involarono. Contro il detto Foca ribellò Eracliano, governatore dell’Affrica, e sopraggiunto con un esercito gli tolse il regno e la vita: dopo di che suo figliuolo Eraclio assunse il governo della Romana repubblica59. [p. 228 modifica]

CAPO XXXVIII.

Della morte del duca Gisulfo, del saccheggio della città di Forogiulio, e degli altri mali, che patirono i Langobardi dagli Unni.

A. D. 610.Intorno a questi tempi il re degli Avari, nella loro lingua chiamato Cacano60, giunto con una moltitudine di gente entrò nel [p. 229 modifica]paese delle Venezie. Onde Gisulfo Forogiuliano con tutti i Langobardi che potè raccogliere sotto di sè andò coraggiosamente a incontrarlo. Ma tuttochè con animo valoroso alla testa di pochi soldati abbia combattuto contro quel numero immenso, finalmente circondato da ogni parte con quasi tutti i suoi cadde morto. Allora la moglie di Gisulfo, di nome Romilda, coi Langobardi che erano dalla strage scampati, e colle donne e i figliuoli di quelli che erano periti nella battaglia si rinchiuse dentro le mura della Forogiuliana città61. Costei avea due figliuoli, Tasone e Cacone, già fuori di pubertà, ed altri due, Radoaldo e Grimoaldo, i quali erano ancor fanciulletti. Ed avea pure quattro figliuole, una delle quali chiamavasi Appa, ed una Gaila, ma delle altre due non so il nome. I Langobardi eransi anche fortificati negli altri vicini castelli, cioè in Cormone62, in Nomaso63, [p. 230 modifica]Osopo64, Artenia65, Reunia66, Glemona67, e anco in Ibligine68, il quale stante il sito è inespugnabile affatto. Parimente eransi riparati in altri castelli, per non essere dagli Unni, cioè dagli Avari, fatti schiavi. Gli Avari poi, scorso tutto il paese de’ Forogiuliani, e messo a fuoco e a ruba ogni cosa, strinsero d’assedio la città Forogiuliense, tentando con tutte le loro forze di farne la presa. Ora avvenne, che mentre il re di costoro, Cacano, girava dintorno69 alle mura con gran comitiva di [p. 231 modifica]cavalieri per esplorare il sito più facile all’espugnazione della città, Romilda l’adocchiò dall’alto dei merli; e vedendo ch’era nel fiore dell’età giovanile, tosto da libidine accesa quella nefanda bagascia gli mandò a dir per un messo, che se acconsentisse a prenderla in moglie gli consegnerebbe la città, con tutti quelli che v’erano dentro. La qual cosa avendo udito il re barbaro, con maligno inganno affermò di fare quanto avea colei domandato, e fece la promessa del matrimonio. Onde ella, senza indugiare, aperse le porte della città, e per sua mala fortuna e di tutta la gente ivi raccolta chiamò dentro il nemico. Entrati adunque in Forogiulio gli Avari col re loro, saccheggiarono [p. 232 modifica]e rubarono tutto quanto loro capitò nelle mani: e poi data la città stessa alle fiamme strascinarono schiavi tutti coloro che ivi trovarono; dolosamente però lor promettendo, che gli avrebbero collocati sui confini della Pannonia, dai quali eglino s’eran partiti. I quali tornando alla patria, poichè furono giunti al campo da loro chiamato sacro, deliberarono di mandare a fil di spada tutti i Langobardi maggiori di età; e di divider fra loro colla sorte della cattività le donne e i fanciulli. Tasone, Cacone e Radoaldo, figli di Gisulfo e di Romilda, inteso il maligno disegno degli Avari, saliti repente sui loro cavalli si danno alla fuga. Uno de’ quali, dubitando che il suo fratello Grimoaldo, per essere ancor piccino non potesse tenersi fermo sul corridore, stimando che per lui fosse meglio morire, che sopportare il giogo di schiavitù, deliberò d’ammazzarlo. Nell’atto dunque che sollevò la lancia per ferirlo, il fanciullo piangendo esclamò. Ah! non mi pungere, che so ben reggermi sul cavallo. E l’altro allora allungata la mano lo prese per un braccio, e il pose sulla groppa ignuda del cavallo, confortandolo a tenersi saldo quanto potesse. E il fanciullo afferrando la briglia fuggì anch’ [p. 233 modifica]anch’egli insieme co’ suoi fratelli. Ciò veduto dagli Avari, prestamente montati a cavallo si misero ad inseguirli, ma essendo gli altri velocissimamente fuggiti, il solo fanciulletto Grimoaldo fu aggraffato da un di coloro, che più fortemente correva: tuttavia il suo rapitore, stante la tenera età, non degnò di menargli addosso la spada, ma invece lo serbò ad uso di servitore. Indi, mentre colui, preso per la briglia il cavallo del fanciullo, riconducealo agli alloggiamenti, e mostravasi tutto esultante della sua nobile preda (poichè il garzoncello era di leggiadre forme, con occhi raggianti, e sparso gli omeri di bionda capigliatura) crucciandosi il fanciulletto d’essere condotto cattivo, e volgendo nel suo piccolo petto un grande ardimento, sguainò una spada, quale l’età sua gli permettea di portare, e con quanta più forza potè percosse la testa dell’Avaro, che seco il traeva; sicchè penetrato il colpo al cervello, l’inimico capitombolo da cavallo. Poscia il fanciullo Grimoaldo data volta al proprio destriero, tutto allegro fuggì di galoppo, finchè ricongiunto ai fratelli e raccontata loro la sua liberazione e la morte dell’inimico, tutti d’inenarrabile allegrezza furon ricolmi. Gli Avari poi tagliarono a [p. 234 modifica]pezzi tutti i Langobardi ch’erano all’età virile, e le donne e i fanciulli destinarono al giogo di schiavitù. Intanto il re degli Avari, poichè avea promesso con giuramento di sposare Romilda, cagione di tanti malanni, trattò costei a guisa di moglie una notte; e poi la diede a dodici Avari, affinchè per un’altra intiera notte l’un dopo l’altro succedendosi in lei saziassero la loro libidine. Poscia fatto piantare un palo in mezzo del campo comandò che fosse per la punta di quello infilzata70, aggiungendovi queste ingiuriose parole: A te sta bene sì fatto marito. Laonde con tale supplizio perì questa scellerata traditrice della sua patria, la quale più pensò alla propria lussuria, di quello che alla salvezza de’ cittadini e de’ suoi consanguinei. Ma le figliuole di quella, non le disonestà della madre, ma l’amor della castità seguitando, per non essere violate dagli Avari, si ascosero sotto la fascia, fra le mammelle, carni di polli crudi, che dal calor putrefatte esalavano un fetidissimo odore; sicchè andando gli Avari per por [p. 235 modifica]loro le mani addosso, nè potendo sofferir quel fetore, credendo ch’elle naturalmente puzzassero, fuggirono bestemmiando, e dicendo, che tutte le Langobarde eran marcie. Con tale artifizio quelle nobili giovinette, sfuggendo alla lussuria degli Avari si serbarono intatte, e trasmisero alle altre donne (se mai alcuna cosa simile potesse accadere) un utile esempio per conservare la lor pudicizia. Esse poi per diverse provincie vendute, hanno ottenuto nozze, quali alla nobiltà loro si convenivano; essendochè una di loro, per quanto si dice, divenne moglie del re degli Alemanni, e l’altra del re di Baviera.


CAPO XXXIX.

Della Genealogia di Paolo Warnefrido.

Ora mi pare, che questo luogo esiga che (lasciata da parte la storia generale) io, scrittore di questi fatti, racconti anche alcune cose della mia privata genealogia. E poichè la materia il richiede comincierò alquanto più indietro l’ordine della mia narrazione. Nel tempo adunque che la gente de’ Langobardi giunse dalle Pannonie in Italia, Leufi mio arcavolo della stessa generazione [p. 236 modifica]dei Langobardi venne pure con esso. Questi, vissuto ch’ebbe alcuni anni in Italia, chiudendo l’estremo giorno, lasciò cinque figliuoli da se generati, ancor pargoletti, i quali avvolti nella calamità, di cui abbiamo testè ragionato, furono tutti tradotti schiavi dalla città Forogiuliense alla patria degli Avari. E nella stessa regione sopportando essi i guai della cattività, e giunti all’età virile, ivi durando in quelle pene servili quattro di loro, de’ quali non ricordo i nomi, il quinto fratello di nome Lupici71, che fu mio bisavolo (inspirato a quanto io credo) dal padre della misericordia, deliberò di togliersi al giogo di servitù, di avviarsi all’Italia dove rammentavasi essere la gente dei Langobardi, e così ricuperare i diritti di libertà. Laonde prese la via colla fuga, nè altro seco portò che la faretra e l’arco, e un pò di vivanda pel viaggio. Mentre egli andava senza sapersi dove, ecco un lupo, che si fece compagno e guida del suo cammino. Vedendo adunque che il lupo lo precedeva, e tratto tratto si voltava a guardare, fermandosi quand’ei si fermava, e andando innanzi mentr’ei camminava, [p. 237 modifica]conobbe esser quello mandato da Dio, per mostrargli la via da esso ignorata. E poichè alcuni giorni in tal modo ebbero viaggiato per la solitudine delle montagne, mancò al viandante il poco pane, che seco s’avea portato. Perciò camminando digiuno, e sentendosi dalla fame estenuato tese il suo arco, e con una freccia mirò ad uccidere il lupo per cibarsi della sua carne. Ma il lupo evitando il colpo del feritore scomparve dagli occhi suoi, ed egli privo della sua scorta, errando incerto, e ognor più dalla fame angustiato, disperando omai della vita, sdrajossi per terra ed ivi s’addormentò. Allora egli vide in sogno un certo uomo, che gli parlò in questa guisa: Levati, o tu che dormi, prendi la via a quella parte, a cui tieni rivolti i piedi: ivi è l’Italia, meta de’ tuoi desiderj. Ed egli incontanente levatosi spinse il passo a quella parte, che in sogno gli era stata insegnata, e in pochi istanti giunse ad una abitazione di uomini. In quei luoghi dimoravan gli Schiavi; onde affacciataglisi una vecchierella, la quale subito conoscendo esser esso un fuggiasco pieno di fame, mossa a compassione lo nascose nella sua casa, e segretamente somministrògli il vitto, ma poco a poco; perchè pascendolo fino alla [p. 238 modifica]sazietà avrebbe potuto invece spegnergli affatto la vita. Così ella convenientemente gli apprestò l’alimento, finchè ristorato potesse ricuperare le sue forze. E poichè lo vide rinforzato a sufficienza da poter rimettersi in viaggio, dategli alcune vettovaglie, gl’insegnò la strada che dovea tenere. Ond’egli dopo alcuni giorni entrato in Italia arrivò alla casa nella quale era nato. Ma questa era cotanto deserta, che non solamente mancavale il tetto, ma era eziandio tutta di rovi e di spine ripiena. E poichè l’ebbe tutte quante tagliate, trovato un grand’orno in mezzo delle stesse pareti, appese a quello la sua faretra. Indi beneficato dai doni de’ suoi parenti ed amici riedificò la casa, e prese anco moglie; ma non potè riavere alcuna delle cose del padre suo; essendo stato escluso da coloro, che con lungo e continuo possesso se le avevano appropriate72. Costui, come ho già detto di sopra, fu mio bisavolo, e generò mio avo Arichi. Arichi [p. 239 modifica]poi generò mio padre Warnefrido, il quale da Teodolinda sua moglie generò me Paolo, e mio fratello Arichi, che ritenne il nome dell’avo nostro. Ora toccate queste poche cose intorno all’ordine della propria genealogia, riprendo l’andamento della generale storia.


CAPO XL.

Del ducato e della morte di Tasone e di Cacone.

Morto, come abbiamo detto, Gisulfo duca Forogiuliese, i suoi figliuoli Tasone e Cacone presero il governo di quel ducato. I quali al loro tempo possedettero la regione degli Schiavi, che chiamasi Zelia73, fino al luogo detto Medaria. Onde fino al tempo del duca Ratchi i medesimi Schiavi pagarono un tributo ai duchi Forogiuliani. Questi due fratelli furono uccisi a tradimento nella città di Opitergio74 da Gregorio patrizio Romano. Perciocchè promettendo a Tasone [p. 240 modifica]di radergli la barba75, secondo il costume, e di adottarlo per figlio, lo stesso Tasone non sospettando d’alcun inganno se n’andò al predetto Gregorio con suo fratello Cacone, e con un drappello di scelti giovani. Ma appena entrato in Opitergio Tasone co’ suoi, il Patrizio fece serrare le porte, e mandò una mano di armati addosso a Tasone e ai compagni. Di che accortisi Tasone ed i suoi, si atteggiarono coraggiosamente al conflitto, e datosi a vicenda l’ultimo addio di pace, dispersi qua e là per tutte le piazze, trucidarono tutti quanti hanno potuto incontrare, e finalmente fatto dei Romani un grande macello, essi medesimi restarono morti. Ma Gregorio patrizio, in osservanza del giuramento, si fece recare la testa di Tasone; poi cotesto spergiuro gli rase la barba, siccome aveva promesso76. [p. 241 modifica]

CAPO XLI.

Di Grasulfo duca Forogiuliano; e dell’arrivo di Radoaldo e di Grimoaldo in Benevento.

Morti così questi due, fu sostituito duca del Forogiulio Grasulfo fratello di Gisulfo. Radoaldo poi e Grimoaldo, soffrendo a malincuore di vivere sotto la potestà del loro zio Grasulfo, essendo già prossimi all’adolescenza, montati in una barchetta, remigando giunsero ai lidi di Benevento. Di là s’avviarono ad Arichi duca dei Beneventani, antico lor pedagogo, dal quale furono accolti lietissimamente, e come figliuoli adottati. A questi tempi, morto Tassilone, duca de’ Baioari, il suo figliuolo Garibaldo fu vinto dagli Schiavi in Agunto77 e i confini [p. 242 modifica]de’ Baioari da coloro furono saccheggiati. Nondimeno i detti Baioari ripigliate le forze ritolsero ai nemici la preda e li cacciarono fuori dei proprj confini.


CAPO XLII.

Della pace fatta coll’imperatore e coi Franchi; del saccheggio dell’Istria, e della morte di Gondualdo.

Ma il re Agilulfo fece pace per un anno coll’imperatore, e poi per un altro anno rinnovolla coi Franchi. E nel medesimo anno gli Schiavi, uccisi i soldati, miserabilmente devastarono l’Istria. Nel seguente mese di marzo poi morì in Trento Secondo servo di Cristo, di cui più volte abbiamo ragionato; il quale compose una succinta istoria dei fatti de’ Langobardi, che arriva fino ai suoi tempi. Parimente a quel tempo il re Agilulfo rinnovò la pace coll’imperatore. E in quegli stessi giorni pure fu ucciso Teudeberto re de’ Franchi, e nacque tra questi popoli ferocissima guerra civile. Finalmente [p. 243 modifica]anche Gondualdo fratello della regina Teodelinda, il quale era duca della città di Asti, senza che alcuno abbia saputo l’autore della sua morte, perì trafitto da una freccia78.


CAPO XLIII.

Della morte di Agilulfo, e della successione di Adaloaldo, e di Arioaldo.

Il re Agilulfo, detto anche Agone, A. D. 615. poi ch’ebbe regnato venticinque anni finì di vivere79, lasciando nel regno suo figliuolo80 Adaloaldo, ancor giovinetto, insieme con Teodelinda sua madre. Sotto di essi furono ristaurate le chiese, e furono fatte molte [p. 244 modifica]donazioni81 ai luoghi sacri A. D. 625.. Ma Adaloaldo, dopo dieci anni di regno, voltato il cervello impazzì; perciò fu cacciato dai Langobardi82, e in suo luogo fu sostituito Arioaldo: ma dei fatti di questo re a noi non giunse alcuna notizia. Intorno a questi tempi il beato Colombano oriundo della stirpe degli Scoti83, poichè ebbe edificato nelle Gallie un monistero detto Luxovio84, venuto in Italia, fu graziosamente accolto dal re Langobardo, e fabbricò nell’Alpi Cozie un convento che chiamasi Bobio85, cui lo spazio di quaranta miglia divide dalla città Ticinese. Al qual luogo furono donate molte possessioni da tutti i principi Langobardi, ed ivi si formò una grande congregazione di monaci. [p. 245 modifica]

CAPO XLIV.

Della morte di Arioaldo, e del regno di Rotari.

Adunque Arioaldo, dopo ch’ebbe regnato dodici anni sopra i Langobardi, A. D. 636. fu tolto da questa vita: e allora fu assunto al regno Rotari di prosapia Arodo86. Era costui forte della persona, e camminava sul sentiero della giustizia, ma però non seguiva la retta linea della fede cristiana, per essere macchiato dalla perfidia della Arriana eresia: stantechè gli Arriani per loro dannazione affermano, che il Figliuolo è minore del Padre, e lo Spirito Santo minore del Padre e del Figlio. Ma noi cattolici confessiamo, che il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo sono un Dio solo in tre persone, eguali di possanza e di gloria. Ai tempi di Rotari quasi per tutte le città del suo regno v’erano due vescovi, l’uno Cattolico, e l’altro Arriano. Ed anco nella città Ticinese fino al dì d’oggi si mostra dove il vescovo Arriano residente nella basilica di s. Eusebio ebbe il [p. 246 modifica]suo battisterio, mentre un altro vescovo alla chiesa cattolica presiedeva. Il quale vescovo Arriano però (che fu nella stessa città) di nome Anastasio, convertitosi alla fede cattolica, governò poscia la chiesa di Cristo. Il detto Rotari re, compose coll’ordine della scrittura le leggi dei Langobardi, che fino allora essi aveano soltanto nella memoria e nell’uso87; e comandò che quel codice fosse chiamato Editto88. Volgeva allora l’anno settantesimo settimo, dacchè i Langobardi erano venuti in Italia, come lo stesso re fa fede nel prologo del suo Editto89.


CAPO XLV.

Della morte di Arichi duca di Benevento, e del ducato di Ajone.

A questo re, Arichi duca di Benevento mandò il suo figliuolo Ajone: il quale [p. 247 modifica]essendo venuto a Ravenna per andare a Ticino, ivi per malignità de’ Romani gli fu data una tale bevanda che gli fece voltare il cervello; di modo che da quel tempo in poi non ebbe più intero e sano il giudizio. Approssimandosi adunque il duca Arichi, padre di Ajone (di cui ora abbiamo parlato) già carico d’anni all’ultimo giorno, e vedendo che il suo figliuolo non era in buon sentimento, raccomandò Radoaldo e Grimoaldo, omai nel fiore di giovinezza, come propri figliuolj, ai Langobardi che ivi eran presenti, loro dicendo, ch’eglino meglio di suo figlio Ajone gli avrebbero governati90. [p. 248 modifica]

CAPO XLVI.

Della morte di Ajone, e del ducato di Radoaldo.

Morto Arichi, il quale avea tenuto il ducato per anni cinquanta91, Ajone suo figliuolo fu fatto duca de’ Sanniti, a cui Radoaldo e Grimoaldo, come a maggior loro fratello e signore, in tutto e per tutto ubbidirono. Ajone dunque, già da un anno e cinque mesi governava il ducato de’ Beneventani, quando sopraggiunti gli Schiavi con una moltitudine di navigli, s’accamparono non lungi dalla città di Siponto92. Avendo costoro scavate alcune occulte fosse dintorno al campo, ed essendo loro andato addosso Ajone in assenza di Radoaldo e di Grimoaldo coll’intenzione di farne strage, precipitò in una di quelle fosse il suo cavallo; e allora piombarono sopra di esso gli Schiavi, e con parecchi soldati fu ucciso. Il che essendo stato riferito a Radoaldo corse [p. 249 modifica]lì tosto, e si mise a parlare con essi nella lor propria lingua 93. Onde avendoli con ciò fatti più lenti alla pugna, egli impetuosamente li assalse, e fattane un’immensa strage in pari tempo vendicò la morte di Ajone e costrinse a fuggire da quel paese tutti i nemici, che vi eran rimasti.


CAPO XLVII.

Delle città prese dal re Rotari.

Intanto il re Rotari prese tutte le città della Tuscia Lunense A. D. 641.94 che sono situate sulla spiaggia del mare fino ai confini de’ Franchi. Parimente espugnò e distrusse la città di Opitergio posta fra Forogiulio e Tarvisio. E combattè pure coi Ravennati e co’ Romani al fiume dell’Emilia, che si chiama Scultenna95; nella qual battaglia perirono [p. 250 modifica]ottomila Romani, e gli altri voltate le spalle fuggirono. A quel tempo avvenne un gran terremoto ed una smisurata inondazione di acque. Poscia fuvvi una orribile mortalità di scabbia, talchè nessuno potea riconoscere il proprio morto a motivo della grossezza della enfiagione96. Morto poi a Benevento il duca Radoaldo, il quale avea governato quel ducato per anni cinque, fu fatto in suo luogo il fratello di lui Grimoaldo, che resse pel corso di venticinque anni il ducato de’ Sanniti. Questi generò con una donzella schiava, ma nobile, di nome Itta un figliuolo chiamato Romualdo, e due figlie. Ed essendo uomo bellicosissimo, e per ogni loco famoso, sopraggiunti a quel tempo i Greci 97 col fine di saccheggiare la chiesa98 dell’Arcangelo s. Michiele situata sul monte Gargano99, Grimoaldo si scagliò sopra quelli con tutto l’esercito, e diè loro una compitissima rotta100. [p. 251 modifica]

CAPO XLVIII.

Della morte del re Rotari.

Ma il re Rotari, dopo tredici anni e quattro mesi di regno, A. D. 653. passò da questa all’altra vita e lasciò il regno de’ Langobardi a suo figliuolo Rodoaldo101. Essendo pertanto Rotari stato sepolto nella basilica di s. Giovanni Battista, alquanto tempo dopo non so chi da iniqua voglia incitato aperse di notte tempo il sepolcro, e rubò tutti gli ornamenti che potè ritrovare nella sua spoglia. Ma apparso a costui in visione il beato Giovanni lo spaventò terribilmente dicendogli: Come osasti tu di toccare il corpo di questo uomo? Benchè non seguisse egli la vera fede, tuttavia si raccomandò alla mia protezione. Poichè dunque tu fosti così temerario, non potrai mai più por piede [p. 252 modifica]nella mia basilica. Il che appunto accadde. Perchè ogni qualvolta costui tentava d’entrare nella chiesa di san Giovanni, come se da acutissimo stilo gli fosse ferita la gola, improvvisamente cadea rovescione. E, chiamo Cristo in testimonio del vero; chè ciò mi fu raccontato da tale che vide il fatto co’ proprj occhi102.


CAPO XLIX.

Della morte di Rodoaldo.

Rodoaldo adunque, dopo la morte del padre, assunto il governo del regno de’ Langobardi, si congiunse in matrimonio con Gundiberga figliuola di Agilulfo e di Teodelinda103. La detta Gundiberga poi, ad [p. 253 modifica]imitazione di quanto la regina sua madre avea fatto in Modicia, edificò anch’essa nella città Ticinense una basilica in onore di s. Giovanni Battista; e la decorò mirabilmente d’oro, d’argento e di preziosissimi addobbi, e ottimamente l’arricchì d’ogni cosa. Essendo costei stata accusata di adulterio presso il marito, un servo della medesima chiamato Carello, chiese in grazia al re di combattere in duello per la pudicizia della propria padrona con l’indegno, che avea macchiato la regina di questo peccato104. Il qual servo [p. 254 modifica]essendo venuto a singolar tenzone col calunniatore, lo abbattè al cospetto di tutto il popolo. Onde la regina dopo questo fatto fu restituita alla primiera sua dignità 105. [p. 255 modifica]

CAPO L.

Della morte del re Radoaldo, e del regno di Ariperto.

Radoaldo poi (a quello che si racconta) avendo stuprato la moglie di un certo [p. 256 modifica]Langobardo106 fu ucciso dallo stesso, dopo d’aver regnato cinque anni e sette giorni. A lui successe nel reggimento del regno Ariperto, figliuolo di Gundualdo, già fratello della regina Teodelinda. Questi fabbricò in Ticino la chiesa del Salvatore, la quale è situata fuori della porta occidentale, detta Marenca; e la adornò di varj ornamenti e l’arricchì di non iscarse sostanze.


CAPO LI.

Della morte dell’imperatore Eraclio; e del regno dei due Costantini, che gli succedettero.

Morto a questi tempi l’imperatore [p. 257 modifica]Eraclio in Costantinopoli107 entrò nei diritti del regno Eracleone con sua madre Martina. Il qual Eracleone partito da questo mondo, gli successe Costantino suo fratello, altro figlio d’Eraclio, che imperò solamente sei mesi. E morto pure costui, Costantino figliuolo dello stesso ascese alla dignità imperiale, e tenne il dominio per lo spazio di anni ventotto108. [p. 258 modifica]

CAPO LII.

Di Cesara regina de’ Persiani.

Intorno a questi tempi la moglie del re de’ Persiani, chiamata Cesara, uscita dalla Persia con parecchi de’ suoi fedeli, venne privatamente a Costantinopoli per amore della fede cristiana. La quale regina essendo stata onorevolmente accolta dall’imperatore, passati alcuni giorni, a seconda del suo desiderio fu battezzata, e levata dal sacro fonte dalla imperatrice. Il che inteso dal suo marito re de’ Persiani, mandò ambasciatori ad Augusto in Costantinopoli, affinché gli rendesse la propria moglie. Venuti dunque i legati all’imperatore gli annunziarono le parole del re Persiano, che domandava la sua regina. Udito questo l’imperatore, ed ignorando affatto la cosa, diede loro la seguente risposta: Protesto che nulla so della regina che voi ricercate; se questa non fosse una certa donna qui giunta poc’anzi in [p. 259 modifica]corteggio del tutto privato. A cui i legati replicarono, dicendo: Se piace alla vostra maestà109, noi bramiamo veder la donna di cui voi favellate. Ed ella, per comando dell’imperatore, essendo comparsa, appena essi la videro si prostrarono tosto a’ suoi piedi, e ciò che il marito suo domandava le fecero intendere. E la regina: Andate ad annunziare al vostro re e signore, che se come io ho creduto, anch’egli non crederà in Cristo, non potrà mai più avermi in consorte del proprio letto. Che più? Ritornati gli ambasciatori alla patria, annunziano al re tutto quello che avevano inteso. Ed egli, senza punto indugiare, andò pacificamente con sessanta mila uomini all’imperatore di Costantinopoli, da cui graziosamente ed onorevolmente fu accolto. Ivi facendo professione con tutto il suo seguito della fede di Cristo Signore, e parimente con tutti lavato coll’onda del santo battesimo, е dall’imperatore alzato dal sacro fonte, fu confermato nella cattolica fede. Indi di molti doni da Augusto onorato, riacquistata la sua consorte, lieto e felice restituissi alla patria110. [p. 260 modifica]intorno a questi tempi morto in Forogiulio il duca Grasulfo, Agone prese a reggere questo ducato. E morto pure a Spoleti Teudelapio, Attone fu fatto duca della detta città.


CAPO LIII.

Della morte di Ariperto e di Godeberto suo figliuolo, che gli successe; del regno di Grimoaldo, e della morte del duca Garibaldo.

A. D. 661.Poiché Ariperto ebbe retto i Langobardi per lo spazio di nove anni, lasciò il regno ai suoi due figliuoli Bertarido e Godeberto ancora giovinetti. E Godeberto tenne la sede del regno a Ticino, Bertarido poi nella città di Milano. Fra questi fratelli, per istigazione di alcuni malvagi, arse un fomite di discordia e d’odj aceaniti, talchè l’uno cercava d’usurpare il regno dell’altro. Per la qual cosa Godeberto diresse Garibaldo duca di Torino a Grimoaldo allora valorosissimo capitano de’ Beneventani; invitandolo a venire quanto più sollecitamente potesse in soccorso di lui contro il fratello suo Bertarido, e promettendo di dargli in moglie una figliuola del re sua sorella. Ma [p. 261 modifica]ambasciatore stesso fraudolentemente contro il suo signore operando, consigliò Grimoaldo, che traendo partito dalla maturità de’ suoi anni, e dalla sua prudenza e valore, venisse ad impossessarsi per se stesso del regno, il quale dalla discordia dei due giovani fratelli trovavasi travagliato. Intese queste cose, Grimoaldo subito rivolse l’animo all’acquisto del regno de’ Langobardi, onde istituito duca di Benevento suo figliuolo Romualdo, con una scelta mano di armati s’avviò verso Ticino; e in tutte le città per dove passò si fece gran numero di amici e di aderenti all’impresa. Mandò poi Trasemondo, conte di Capoa, per la via di Spoleto e Toscana, acciocchè in quei paesi tirasse i Langobardi nella sua colleganza. Il quale avendo tutti questi comandamenti bravamente eseguiti, gli andò incontro per istrada con molti ausiliarj verso l’Emilia 111. Per la qual cosa Grimoaldo, giunto presso Piacenza con un grosso esercito, mandò innanzi a Ticino Garibaldo, già legato di Godeberto, affinché portasse la nuova allo stesso della sua venuta. Giunto dunque costui a Gundeberto gli annunziò il prossimo arrivo di Grimoaldo. E [p. 262 modifica]interrogandolo Gondeberto in qual luogo dovesse egli apparecchiare a Grimoaldo l’alloggiamento, Garibaldo rispose; essere conveniente che quegli il quale era venuto in soccorso di lui, e che dovea pigliare per moglie la sua sorella, avesse albergo dentro il palazzo. Il che fu fatto. Perchè venuto già Grimoaldo, gli fu dato alloggio appunto nel palazzo reale. Ora lo stesso Garibaldo, seminatore di tanti scandali, persuase a Godeberto di non venire a parlamento con Grimoaldo se non guernito di corazza112 sotto la veste, affermando, che Grimoaldo volgeva in mente il disegno di ucciderlo. Dall’altro canto lo stesso fabro d’inganni andò a suggerire a Grimoaldo, che se ne stesse in guardia di se medesimo, perchè Godeberto nutriva la rea intenzione di trafiggerlo colla sua spada; protestando, che venendo ad abboccarsi con esso porterebbe la corazza sotto il vestito. Che più? venuti a [p. 263 modifica]colloquio nel dimani, ed avendo Grimoaldo, dopo il saluto, abbracciato Godeberto, sentì la lorica che l’altro aveva sotto le vestimenta. Onde detto fatto sguainò la spada e l’uccise; ed occupato il regno e tutto lo stato, immediatamente se ne fece signore. Aveva Godeberto un figliuolo in fascie di nome Reginberto, il quale fu trafugato da’ suoi fedeli, e occultamente allevato. Grimoaldo però non si curò di perseguitarlo, perchè era ancor pargoletto. Ma udito questo Bertarido, il quale regnava a Milano, con quanta rapidità più poté si diede alla fuga, e si salvò presso Cacano re degli Avari, lasciando la moglie Rodelinda e un figliuolino detto Cuniberto, i quali entrambi da Grimoaldo confinati furono a Benevento. Ora, consumati tali misfatti, Garibaldo, per la cui suggestione e raggiro era tutto successo, e che non solamente ciò aveva operato, ma inoltre nella sua legazione aveasi appropriati parte di quei doni che dovea portare a Benevento, non potè però dopo cotante scelleratezze commesse, lungamente goderne il frutto. Eravi certo omiciattolo oriundo della stessa famiglia di Godeberto nella città di Torino; e sapendo questi, che il duca Garibaldo sarebbe venuto nel santo giorno di [p. 264 modifica]Pasqua a far orazione nella chiesa di s. Giovanni Battista, salito sul sacro fonte del Battisterio, e colla mano sinistra tenendosi alla colonnetta del coperchio113 dal lato per cui Garibaldo doveva passare, quando il duca gli fu vicino, trasse la spada che avea nascosta sotto la veste, e inarcato il braccio gli scagliò cotal colpo, che gli portò via di netto la testa. Onde coloro che erano del seguito di Garibaldo gli si avventarono addosso, e a furia di ferite l’uccisero. Costui però, benchè abbia incontrata la morte, tuttavia vendicò segnalatamente le ingiurie fatte al signor suo Godeberto114. [p. 265 modifica] [p. 266 modifica]

Note

  1. Da Gregorio di Tours ( lib. 10. cap. 3. ) Agilulfo si chiama anche Paolo, probabilmente (secondo il Baronio) perchè convertitosi poco tempo dopo, alla fede cattolica, assunse il predetto nome.
  2. In altri testi invece di paludesque è scritto fruticesque.
  3. Da alcune lettere del Pontefice s. Gregorio scritte sotto l’indizione IX. a Veloce Maestro dei cavalli, a Maurilio, a Vitaliano, ed a Giovanni vescovo Ravennate si conosce, ch’egli li eccitava a prender l’armi e a dar addosso al Longobardo Ariulfo duca di Spoleti, che minacciava Ravenna, e anche Roma, sotto la quale di fatto arrivò recanndo grandissime stragi. Nel caso disperato il Pontefice tentava ogni modo di conciliare la pace. (Rer. Ital. ibid. pag. 454.).
  4. Il vostro testo s. Juliani; ma per testimonianza del Muratori (Annal. ibid. pag. 539.) si ha da leggere s. Julii, la cui isola ritien tuttavia questo nome nella diocesi di Novara, e nel lago d’Omegna.
  5. L’originale homines Gaidulfi.
  6. Alcuni testi oblentus, altii captus.
  7. A questo luogo mi ritorna alla mente un’osservazione del Machiavelli espressa nel primo libro delle storie Fiorentine, e indicante la causa delle qui descritte ribellioni. Feciono (egli dice) in fra loro trenta duchi, che governassero gli altri. Il qual consiglio fu cagione che i Longobardi non occupassero mai tutta l’Italia.... perchè il non avere re gli fece meno pronti alla guerra, e poichè rifeciono quello, diventarono, per essere stati liberi un tempo, meno ubbidienti, e più atti alle discordie infra loro.
  8. Et interim fluvii quasi rivuli cruoris emanaverunt. Altri: intra Rheni fluvii aquus rivulus cruoris emunavit. Altri: interni fluvii rivulus aquas cruoris emisit. Altri Maternae fluvii etc.
  9. Altri episcopus.
  10. Actibus. Altri artibus.
  11. Il diploma del re Agilulfo trovasi nel tomo 3. del Bollario Casinese, e nell’Italia sacra dell’Ughelli; nel qual diploma si concede in possesso a s. Colombano abbate, ed a’ suoi compagni che abitavano alla basilica di s. Pietro nella valle di Bobio, un fondo dell'estensione di quattro miglia per ogni parte, coltivato e non coltivato. La data è: Mediolani in Palatio sub die IX. Kal. Aug. Regni nostri felicissimi octavo per indictione quinta. Ma in queste note cronologiche v’è sospetto di errore (Rer. Ital. ibid. p. 455.).
  12. Le antiche istorie non danno alcun lume intorno al diritto di Childeberto di nominare il re di Baviera. Forse finì il regno di Garibaldo per l’ aggressione dei Franchi accennata al cap. 29.: per cui Teodelinda fuggì in Italia ad Autari col fratello Gundoaldo.
  13. Intendono gli eruditi che il nome di Esarco sia quasi έχ τού άρχοντος, principe. Così chiamavasi il primario magistrato che facea le veci dell’imperatore nelle provincie: onde si legge Esarco d’Italia, d’Africa ecc. L’Esarco d’Italia risiedeva a Ravenna, e il primo a portar questo nome fu quel Longino, di cui fece menzione di sopra il nostro autore, e che fu inviato con piena autorità dall’imperatore Giustino per frenare le conquiste dei Longobardi.
  14. Tornando da Roma dalla parte del nord-ovest prima trovasi Sutrio (ora Sutri), poco dopo volgendo a grado a grado al nord-est Polimarzio (Bonmarzo), poi Tuderto (Todi), indi Orta (Orti), che è l’Hortanum di Plinio, e intorno alle antichità della quale scrisse il celebre Friulano Fontanini; più innanzi v’è Ameria (Amelia) posta in un angolo occidentale dell’Umbria; Perusia (Perugia) verso il lago Trasimeno, e Luceoli castello al nord-ovest di Camerino, nella Pentapoli mediterranea. Sopra tutte queste città vedi la più volte citata Tavola del Beretti.
  15. Così si legge nell’ultima omelia del libro 2.: Non mi condanni alcuno, se dopo questo sermone io tacerò; perchè come tutti avete veduto, le nostre tribolazioni s’accrebbero. Noi siamo dovunque circondati dal ferro nemico, paventiamo l’imminente pericolo della morte. Già veggo altri tornare a noi colle braccia mozze, altri odo che sono stati fatti prigioni, altri ammazzati. Già la mia lingua è costretta a desistere dall’interpretazione.
  16. Si conoscono le condizioni di questa pace, da una lettera di s. Gregorio ad Innocenzo prefetto del l’Affrica, scritta sotto la Indizione terza. Questa non fu veramente pace, ma tregua, il che si prova dalla lettera stessa del papa, ove è detto, che era obbligatoria fino al mese di marzo della futura quarta Indizione, cioè (secondo la cronologia del Murat.) fino al marzo del 601.
  17. Ai tempi di Strabone, come osserva il Gibbon (cap. 45. in not.) erasi perduta la razza dei cavalli della Venezia, ond’è che mancavano all’Italia questi quadrupedi al tempo della venuta dei Longobardi. Questa è la cagione, per cui Alboino lasciò a Gisulfo in Friuli parecchie mandre di generose cavalle (Ved. sopra lib. 2. c. 9.). Una di queste mandre si ha contezza essere stata collocata presso i colli di Butrio (ora Burri) non lungi da Cividale e da Udine. In seguito i Longobardi introdussero anco i cavalli selvatici (caballi sylyatici) qui nominali. Quanto ai bufali o buoi selvaggi, sui quali è caduta la maraviglia degli Italiani, non possono questi essere stati i veri bufali, che sono originarj dell’Affrica e dell’India, e non delle regioni settentrionali dell’Europa. Anco al presente ve n’ha gran copia nella campagna di Roma, e in Roma medesima; i quali, oltre all’uso che si fa della loro carne, servono a parecchi lavori e particolarmente a tirare le barche sul Tevere. È probabile perciò, che Paolo, per un errore inveterato abbia dato nome di bubulus all’urus, toro selvaggio del settentrione, di cui parla Solino, e Plinio I. VIII. c. 15., e che i Germani dicono Urochs.
  18. Secondo un altro storico questo re fu avvelenato dalla propria moglie (Rer. Ital ibid. p. 457.).
  19. Paolo qui omette la presa fatta dai Longobardi in quest’epoca della città di Crotone nella Calabria ulteriore, dove ridussero in ischiavitù gran numero di popolo dell’uno e dell’altro sesso (Gregor. M. lib. 7. epist. 26. a Teottista Patricia).
  20. La religione insegna a perdonar sempre: ma la politica appena permette di perdonare due volte. Per altro dal contegno d’Agilulfo apparisce, che cominciava a scemarsi ne’ Longobardi il feroce rigore del nazionale costume: al che certamente giovarono i principj del Cristianesimo. Anticamente i Germani appiccavano agli alberi i traditori e i ribelli. Proditores et transfugas arboribus suspendunt (Tac. ibid. 12.). Le leggi di Rotari in appresso non parlano di questo genere di supplizio verso i rei di simili delitti, e solo terminano colla clausola: animae suae incurrat periculum et res ejus infiscentur (Leg. Langob. cap. 1. art. 1. 3. 4. 6. ).
  21. Tutte le cose infauste qui riferite sono narrate quasi colle stesse parole dal pontefice Ravennate nella vita di s. Mariniano, e parimente sono ricordate da Fredegario (Chronic. cap. 20.), e da Aimonio (lib. 3. cap. 88.), i quali ultimi le notano sotto l’anno 600.
  22. Fredegario nel predetto cap. 20. dipinge con orribili colori la rotta dell’esercito di Clotario.
  23. Ognuno può immaginare lo stato d’abbiezione in cui era la pittura a questi tempi in Italia. Pure da questo racconto si può dedurre che le immagini quivi dipinte non erano sempre tanto deformi quanto da alcuni si pensa. Ariulfo area veduto in quella pittura una rassomiglianza perfetta ad un guerriero a lui comparso in visione. Ed è pur da notarsi che il duca stesso, ancora pagano, avea parlato in tuono ridicolo dei santi venerati dal culto cattolico. A Costantinopoli le arti ancora si sostenevano con qualche onore (quantunque il vero gusto se ne fosse ito) e di là naturalmente veniano gli artisti a lavorare in Italia: perciò sarebbero da farsi più esatte indagini sulla storia dell’arte per meglio conoscere il verace suo stato in quei tempi. Ciò che io dico, potrebbe, se noi m’inganno, indebolire l’asserzione del Gibbon nel cap. 49. della citata storia, cioè che le immagini cattoliche, produzioni senza forza e rilievo, escite dalla mano de’ monaci, attestavano la estrema degenerazione dell’arte e del genio.
  24. Un filosofo che si fermi a considerare gli effetti morali operati sul cuore dal culto delle immagini, non potrà non condannare le rigide astrazioni degl’Iconoclasti, e di tutti coloro che staccando troppo la religione dall’uomo, spingono la mente a contemplazioni ideali, ed affatto estranee all’ordine maraviglioso e sensibile del creato.
  25. Nella regola di s. Benedetto cap. 39. e 40. questa misura si chiama Emina.
  26. La cronologia di Paolo è qui errata, secondo gli eruditi, i quali pongono la prima devastazione del monastero del Monte Casino sotto l’anno 582. La profezia di s. Benedetto è riferita da s. Gregorio (Dialog. lib. 11. cap. 17.) e così pure la fuga de’ monaci. Essi ottennero dal papa Pelagio un luogo presso la Basilica Lateranense, e lasciarono disabitato per molti anni Monte Casino, senza prendersi pensiero di trasportare di là i corpi di s. Benedetto e di s. Scolastica (Mabill. Annal. Benedict. ad ann. 582. e Murat. Annal. ibid. pag. 511.).
  27. Muratori (ibid. p. 542.) pone la morte di Zottone sotto l’anno 592.
  28. Briccorum. Altri Brixorum, Brictonum.
  29. Resta da sapersi se gli artefici mandati da Agilulfo a Cacano fossero semplici manovali, fabriferrari, facitori di corde, tessitori, legnajuoli; oppure uomini addetti propriamente alla costruzione delle navi. È facile, che Agilulfo abbia raccolta questa gente dalle città da lui possedute in Italia vicino al mare, le quali doveano più delle altre abbondare di sì fatti artisti. In ogni modo costui non conosceva l’importanza della marineria, e diede veramente segno di scarsa prudenza coll’acconsentire di mandare ad un re sì forte, qual era Cacano (siccome vedremo in appresso) gl’istrumenti per far ancora più formidabile la sua potenza.
  30. Nell’unica edizione Ascensiana trovasi la seguente narrazione, che qui ripongo tradotta, ma che non ricevo nel testo, perchè mancante in tutti gli altri mss. e stampe; motivo per cui non fu accettata nè pure dall’editore da noi seguito...... «Fabbricò per se, pel marito, pei figliuoli e figliuole, e per tutti i Longobardi Italiani: e perchè lo stesso san Giovanni sia per noi intercessore presso il nostro Signore Gesù Cristo, noi unanimamente a lui promettiamo di trasmetter con onorificenza ogni anno il dì ventiquattro giugno all’oracolo suo porzione delle nostre facoltà, acciocchè per intercessione di lui possiamo ottenere la protezione di nostro Signor Gesù Cristo tanto in guerra, quanto in tutti gli altri luoghi, ove saremo noi per andare. Fino a da questo giorno adunque in tutti i loro atti cominciarono ad invocare s. Giovanni, che gli ajutasse, in virtù di Gesù Cristo nostro Signore; ed eglino tutti rimanevano illesi, e vincitori dei loro nemici. Quel luogo posto dodici miglia sopra Milano, dalla regina fu dedicato e mirabilmente decorato di molti addobbi d’oro e d’argento, ed arricchito d’entrate, aggiungendo al medesimo molte famiglie e molti poderi in onore di s. Giovanni Battista. Diciamo ora del tenore della scrittura di Teodelinda regina. La gloriosissima regina Teodelinda, insieme col suo figliuolo Adalwaldo re offre a san Giovanni suo avvocato del dono di Dio, e delle doti, la carta della sua donazione, che ella fece scrivere in presenza de’ suoi. Se alcuno in qualsiasi tempo guasterà questa testimonianza della sua volontà, sia condannato del giorno dell’estremo giudizio con Giuda traditore. Tale poi fu la sua ordinazione: Niuno ardisca mai d’intromettersi nelle cose di san Giovanni, se non che i sacerdoti, i quali servono giorno e notte: come famigli le fantesche, quelli che ivi sono soggetti, devono vivere tutti in comune.» Per non alterare il senso di tutte queste formule mi sono adattato a tradurre letteralmente la soprascritta barbarissima leggenda.
  31. Ora dicesi Monza questo luogo, che anticamente chiamavasi Modicia, Modoetia, Modica (secondo Baldassare Fedele arciprete di quella basilica nel libro scritto a Leon X.) dalla modicità del censo. Ma Tristano Calco (stor. di Mil. lib. 4.) non crede il nome di Monza derivazione o alterazione di Modicia; ma si attiene invece all’origine presentata dalla seguente iscrizione: C.SERTORIUSˑLˑFˑOVFˑVETERANVS.
    LEGˑXVIˑCVRATORˑCIVIVMˑOMNˑORˑMOGVNTIACIˑ
    Quindi coll’appoggio di questa lapide desume che quel luogo si chiamasse oppidum Moguntiacum.
  32. Gli ornamenti furono coppe, corone, croci, tavole d’oro ornate di smeraldo, giacinti, carbonchi, margarite ed altre pietre preziose; i quali oggetti furono conservati per tanti secoli e si conservano ancora a’ dì nostri. Tutti i predetti oggetti furoro già illustrati in modo, che il qui parlarne a lungo sarebbe inutile studio di erudizione. Il Muratori, il Fontanini e altri Scrittori degli ultimi tempi scrissero con grande dottrina particolarmente sulla corona longobardica, detta volgarmente ferrea; ed avvertirò solo a lume degli eruditi, che nella libreria Bartoliniana si trovano parecchie giunte manoscritte fatte dal Fontanini alla sua Dissertazione intitolata: De corona ferrea Langobardorum.
  33. A tutti i Barbari oriundi della Germania piacque avere folta e lunga la chioma, considerando in ciò un segno che distingueva la libera dalla servil condizione; onde a tutti i cittadini era proprio il nome di criniti, se non che i nobili e specialmente i principi acconciavano con maggior eleganza i capelli. Principes et ornatiorem capillum habent (Tacit. ibid. 28.). In ciò solo erano differenti i re dai cittadini, che a quelli scendeva all’indietro sulle spalle la chioma, agli altri parte recisa, parte ridotta alla sommità della testa ricadeva colle altre ciocche di capelli a coprire le orecchie, lasciando il collo scoperto; come si ha dai seguenti versi di Sidonio Apollinare (Carm. V.):
                   . . . . rutili, quibus arce cerebri
         Ad frontem coma tracta jacet, nudtlaque cervix
         Seturum per damna nitet.
    E altrove (epist. 1. 2.) Capitis apex rotundus, in quo paululum a planitie frontis in verticem caesaries refuga crispatur.
         Molti altri documenti dell’usanza de’ Barbari nell’ordinare la chioma si trovano nelle note di Giusto Lipsio alla Germania di Tacito. Vedansi anche gli Excursus Variorum sull’opera stessa nel Tacito dell Oberlino.
         Parlando poi delle pitture fatte fare da Teodelinda, ciò prova che neppure sotto i Longobardi in Italia quest’arte non era del tutto morta. Tuttavia è da notarsi, che attesi i loro barbari costumi dovea essere più goffamente trattata nei paesi da essi dominati, di quello che presso quei Governi che dipendevano da Costantinopoli, dove le arti conservavano ancora qualche ombra dell’antico genio (Ved. la not. 1. al cap. 17.)
  34. II latino è hosis, e la parola italiana uose, che vale gambiere è usata da Matteo Villani (lib. 8. cap. 74.). Dove gli Unghieri in uosa e gravi di lor armi e giubboni non potean salire.
  35. L’originale: super quas tubrugos birreos mittebant. Isidoro (Etymol. lib. XIX. cap. 22.) nota: tubrucos vocatos dicunt, quod tibias braccasque tegant. Ma altri interpreti intendono tubrucus per lanea ocrea, ocreis aut calceis coriaceis superimponi solita. Birreus poi spiegano di color rosso (ved. Dufresne alle voci Tubrucus e Birrus).
  36. Altri testi hanno: Theodosio, Tiberio, Constantino et Avorante, qui fuit strator.
  37. Tutti gli Storici citano la flebile narrazione della catastrofe di Maurizio, descritta da Teofilatto (lib. 8. cap. 12.) e letta vent’anni dopo la morte di quell’imperatore, fra i singulti e le lagrime degli ascoltanti. Maurizio fu pio, valoroso, clemente, amico e premiator delle lettere; ma ebbe l’animo schiavo dell’avarizia. Per non dare il dovuto stipendio ai soldati li lasciò rubare e saccheggiare i sudditi a loro talento: per non esborsare una vile moneta pel riscatto di dodicimila de’ suoi, fatti prigioni dal re Cacano, li lasciò crudelmente ammazzare. Ciò fu che gli concitò l’odio del popolo, e la ribellione degli eserciti; talchè il perfido Foca, uno de’ suoi bassi-uffiziali ha potuto senza resistenza usurpare il suo trono, trucidargli sugli occhi tutti i figliuoli, spegner lui stesso e il fratello, spogliare ignominiosamente e farne gettar in mare i cadaveri. Principe infelicissimo! Lasciò un terribile esempio nella storia, che sempre le molte virtù non sono riparo bastante contro le fatali conseguenze di un solo vizio.
  38. Crede il Baronio, che Secondo possa essere quello stesso Secondino abbate, al quale furono scritte da s. Gregorio parecchie lettere. Morì, dicesi, a Trento, l’anno 595.
  39. Alcuni leggono Vulturnia, e il Cluverio Vulturia, il quale intende esser questo presentemente un villaggio dello Valdoria alla sinistra del Po fra Cremona e Brescello. All’incontro il Beretti (p. 131. 132.), opponendosi al Cluverio e stando col Biondo, e con parecchi scrittori Comaschi, vuole che sia il castello chiamato Vulturena, e più tardi Castrum Holonium, situato sul Lario all’ingresso della ora detta Valtellina. Ed è ben probabile, soggiungono i prefati scrittori, che mentre Agilulfo guerreggiava a Mantova avesse anco una mano di gente verso i monti all’assedio di quel castello. Benedetto Giovio (p. 8.) narra appunto che i Vulturnati stretti da un corpo d’esercito di Agilulfo, non ricevendo mai i domandati soccorsi da Ravenna, si arresero ai Longobardi.
  40. Cioè il primo aprile dell’anno 605.
  41. Non bene si lega il secondo anno del regno di Foca, sotto l’indizione ottava, colla morte del beato Gregorio. Foca fu proclamato imperatore il 23. Novembre dell’anno 602. All’incontro il beato Gregorio morì e fu sepolto nella basilica di s. Pietro il dì 12. Marzo dell’anno 604.; onde compiendosi il secondo anno del regno di Foca nel mese di Novembre, correva bensì l’ottava indizione; ma non corrispondente all’anno della morte del detto pontefice (Scriptor. Rerum Italic. ibid. p. 462.).
  42. L’originale uredine percussae. Il Muratori negli Annali (tom. 4. p. 14.) dice che fu prodotto questo danno dal vento brucione. Quanto alla detta carestia egli osserva, che dovrebbe segnarsi sotto l’anno 605., essendo che il primo inverno dopo la morte di Gregorio cadde sotto il pontificato di Sabiniano.
  43. Il nostro testo: causam dixit, et abductus est, me nesciente etc. Altri: me causam nesciente etc.
  44. Fin da quando fu assunto al pontificato san Gregorio spiegò l’indole d’una de’ più grandi uomini che onorarono il mondo. Tanto più degno di sedere sul soglio di Pietro, quanto più mostrossi restìo nell’ascendervi. Ciò prova, che se aderì all’alto incarico, nol fece per se medesimo, ma mosso da santo amore pegli uomini. A questo unico fine egli immedesimò alla religione la politica e la morale, e diffuse il suo cuore su tutta la umana generazione. Per se non v’era che un pasto frugale: pei poveri tutte le sue sostanze. Ingegno di rara fecondità! col consiglio chiamò alla fede genti diverse di nazione e di lingue; coll’eloquenza mosse i popoli alla virtù; cogli scritti piegò i cuori dei principi, anche barbari e tiranni, alla umanità degli affetti, ed alla carità verso la Chiesa. Se tutto non poteva ottenere tentava il poco, purchè tornasse questo a salute anche di un solo uomo. Tale rettitudine di coscienza è usbergo che lo difende contro il rimprovero degli eretici, i quali lo accusano d’aver vilmente adulato Foca salito al trono tutto ancor lordo e fumante del sangue del suo signore, di cui il pontefice condannò i trascorsi. I vizj di Maurizio furono veramento nocivi all’impero: l’indicarli al suo successore era una gran lezione per esso, e il parlargli soavi parole era un ammansare la tigre, e diminuire il numero delle vittime. La dolcezza di sua natura è stampata nelle scienze e nell’arti belle, che chiamò a servigio della religione per utilità e diletto di tutti i cristiani. Edificatore di sacri tempi, ordinatore delle feste, e de’ riti sublimi del sacerdozio, restitutore dei tuoni dell’antica musica, fu Gregorio l’uomo, che seppe investirsi di tuttociò che il secolo per benefizio del genere umano presentava all’amplitudine della sua mente. Dagli storici fu chiamato padre della patria; ma il suo giusto titolo è quello di padre degli uomini.
  45. Nella cronaca di Fredegario (num. 45.) è espresso il motivo, per cui i Longobardi dopo la morte di Clefone pagavano ai Franchi un annuo tributo, che cessò al momento di questa pace.
  46. L’originale Balneum regis. Secondo il Beretti (ibid. pag. 211.) questo luogo fu così chiamato da un re Goto, e probabilmente da Teodorico, che ivi eresse un bagno per proprio uso. Anticamente chiamavasi Roda; e da Plinio Novempagi. Ora chiamasi Bagnarea, ed è situato sei miglia distante da Orvieto verso mezzogiorno, e tredici da Viterbo verso settentrione.
  47. L’originale Urbs vetus; città non conosciuta sotto questo nome dagli antichi Romani, come osserva il Muratori (ibid. pag. 17.).
  48. Il P. de Rubeis (Monum. Eccles. Aquilej. c. 33.) pone la divisione de’ Patriarcati sotto l’anno 606. È da osservarsi a questo luogo, che alcuni cronologisti fanno succedere a Severo il patriarca Marciano. Così si nota nella Cronica del Dandolo, e nella storia mss. de’ Patriarchi di Grado di Giacomo Valvasone altra volta citata. Ma il Muratori colla scorta d’altri dotti uomini esclude Marciano dal Patriarcato di Grado. Nondimeno non credo fuor di proposito l’esporre alle ricerche dei critici il tratto della storia del Valvason, in cui parla del patriarca in questione: «Martiano essendo creato dopo Seveso dai canonici e clero di Grado, è confermato da Gregorio primo; laonde dispiacendo a Gisulfo duca del Friuli, che la dignità d’Aquileja fosse stata transferita in Grado, creò patriarca Giovanni Monaco col volere d’Agilulfo re de’ Longobardi; del che il Pontefice restò mal soddisfatto, non parendoli cosa convenevole, che due metropoli nella medesima provincia vi fossero. Per la quale dissensione questi popoli più volte sì travagliarono l’un l’altro, et sentirono grandissimi danni, come si tragge dall’istorie di quei tempi, et cagionò, che all’ora Giovanni vescovo di Concordia transferisse anch’egli la sua sede nell’isola di Caorle con l’autorità di Deodato pontefice, et così d’indi in poi sono stati due patriarchi. Questi tenne il patriarcato anni tre, mese un, giorni cinque».
  49. Primicerius, primo di qualunque ordine. Suppongono alcuni che l’origine di questa voce sia da prima cera, significando il primo personaggio inscritto nella tavola cerata. Vedi questa ed altre opinioni nel Dufresne alla detta voce.
  50. Nota il Murat. (Rer. Italic. pag. 464.) che ciò era già avvenuto fin dal tempo di Candidiano.
  51. Questi fatti sono descritti in tal modo da Anastasio bibliotecario. «Giunto a Ravenna Eleuterio patrizio e cubiculario uccise tutti coloro, che si erano impacciati nella morte di Giovanni Esarco, e Giudice della Repubblica: Passò poi a Roma, dove fu ottimamente accolto dal papa: e da Roma si avviò a Napoli, che era occupata dall’Intarta (ribelle) Giovanni Consino. Il quale Eleuterio pugnando entrò a Napoli, ed uccise il tiranno; indi ritornato a Ravenna, e rimunerate le milizie, fu fatta pace per tutta Italia.». Narrasi poi che Eleuterio stesso si ribellò, e che i soldati l’hanno ucciso a Luceoli mentre dirigevasi a Roma ecc. Qui il Muratori rettifica la cronologia di Paolo, e nota la morte di Giovanni Consino sotto l’anno 617., e quella di Eleuterio nel 619.
  52. Non compiti però, stantechè fu coronato il dì 23. novembre 602., e l’imperatore Eraclio fu proclamato nel 610., il giorno secondo di ottobre (Rerum Italic. Script. ibid. pag. 465.).
  53. Bonifacio III.
  54. Il nostro testo: statuit sedem Romanae et Apostolicae Ecclesiae, caput esse omnium Ecclesiarum, quia Ecclesia Constantinopolitana primam se omnium Ecclesiaruṁ scribebat. Altri: statuit sedem Rom. et Apost. Eccl. primam esse, cum prius Constantinopolitana etc. scriberet. Il passo conforme alla nostra edizione fu preso parola per parola da Anastasio in Bonifacio III. Negli annali ecclesiastici è celeberrima la questione intorno al titolo di ecumenico o universale, che per somma ambizione aveasi arrogato il Patriarca di Costantinopoli Giovanni, detto il digiunatore: sicchè sarebbe vano il dilungarsi sopra sì fatto argomento.
  55. Bonifacio IV.
  56. Famoso è il tempio, appellato il Pantheon, perchè dedicato a tutte le divinità dei Gentili. Fu esso fabbricato per ordine di Marco Agrippa ai tempi d’Augusto, e sussiste anche oggidì sotto il nome di s. Maria della Rotonda. Intorno alla dedicazione di questo tempio leggasi Papebrochio nella vita di s. Bonifacio IV., al giorno 25. del mese di maggio, e Pagi ann. 607. n. 5. Osserverò qui, che le immondezze pagane di cui Paolo fa cenno erano principalmente le statue degli Dei in quel maraviglioso tempio nicchiate; opere senza dubbio de’ più insigni scultori de’ secoli d’oro delle belle arti. La religione e la civiltà de’ nostri tempi si sarebbero insieme accordate nell’espellere quei capi-lavoro da un luogo santo, e nel ripararli in qualche istituto, come monumenti (quanto alle regole del gusto) degni dell’imitazione de’ posteri. Altra osservazione a questo luogo è da farsi, ed è che la Providenza spesso dalle prave intenzioni dei perversi mortali trae i maggiori trionfi della sua religione. Foca per astio contro il Patriarca Ciriaco, concesse il titolo di universale al Romano pontefice (vedi il Baronio); e per mantenersi una qualche devozione ne’ sudditi, che erano lontani dalla sede delle sue scelleratezze permise, che si consecrasse ai santi del Dio vero il tempio che tutte conteneva le divinità dei Pagani. Per lui stava il motto di Tacito: major ex longinquo reverentia.
  57. Notasi nella edizione del nostro testo, che così chiamavansi due fazioni popolari, intorno alle quali è da vedersi Plinio lib. 7. cap. 23. Svetonio in Domiziano cap. 7. Tertulliano de spectaculis c. 9. Cassiodoro lib. 3. Var. epist. 13. Suida, Isidoro, Cedreno al principio del Romano impero.
  58. Non negli anni di Foca, ma sotto Eraclio imperatore, nella seconda indizione, che cadde nell’anno 614 fu fatta la presa di Gerusalemme da Cosroe re dei Persiani (Murat. Rer. Italic. script. ibid. pag. 465.).
  59. La morte di Foca è così descritta dal Muratori (Annal. ibid. p.22.): «Tratto fu per forza dal palazzo dell’Arcangelo, spogliato di tutte le vesti, e condotto alla presenza d’Eraclio. Poco si stette a mettere in pezzi il tiranno, e posto il suo capo sopra una picca, fu portato come in trionfo per mezzo la città a saziar gli occhi del popolo».
    Cedreno ne delineò il carattere, che fu anche copiato dal Gibbon (Stor. ecc. cap. 46.).
    Piccolo e deforme nella persona; ispidi cigli da niun intervallo divisi, capelli rossi, mento imberbe, gota svisata da orribile cicatrice. Avea un naturale selvaggio che s’infiammava dalle passioni, s’indurìa dal timore, dalla resistenza o dal rimprovero s’esacerbava. Ignorante delle lettere, delle leggi e delle armi stabilì il potere della dignità suprema nella lussuria e nella ubbriachezza. I suoi brutali piaceri oltraggiavano i sudditi, ed erano infamia di lui medesimo. Cessando d’esser soldato senza saper regnare da principe, invilì l’Europa in una pace ignominiosa, e travagliò l’Asia con una guerra desolatrice.
  60. Si sa dagli Storici, che i re degli Avari erano detti comunemente Cacani. E probabilmente Can o Kan, che è il titolo dei Tartari di oggidì, è abbreviatura di Cacano.
  61. Il nostro testo: intra muros Forojuliani castri munivit septa. Altri: intra muros Forojuliani castrimonii septa est.
  62. Ora Cormons otto miglia distante da Cividale al sud-est.
  63. Ora Nimis posto fra i due torrenti Torre e Corno; nove miglia a ponente di Cividale.
  64. Fortezza notissima alla sinistra del Tagliamento, sedici miglia al nord -ovest di Udine, a piè dei monti. Fu munita dai Veneziani, e riparata ancor più dai Francesi; ora è presidiata dalle truppe imperiali del regno Lombardo-Veneto.
  65. Ora Artegna, villaggio fra Udine e Gemona.
  66. Ora Ragogna, già di sopra nominata al lib. II. not. 1.
  67. Ora Gemona. Nel dialetto Friulano ritiene ancora l’antico nome Glemona. Sta quattordici miglia al nord di Udine. Ivi si trovano molte reliquie d’antichità Romane e Longobarde. Sussiste ancora un’altissima specola nella punta d’una soprastante montagna, che servia di vedetta per esplorare i nemici.
  68. Il nostro testo Ibligo, altri Biligo, ora Bilirs, otto miglia da Udine al nord–est. Presentemente non contiene che dieci dodici case. Nella carta geografica del Friuli è scritto Billerio.
  69. Dall’esplorazione fatta da Cacano intorno al Forogiulio con grande comitiva di guerrieri, e dalla moltitudine di gente, che ivi erasi raccolta e ricoverata, si conosce sempre più di quale vastità e di quale importanza fosse quella città. A quell’epoca i Longobardi poteano averla bensì validamente munita, ma non già dilatata la circonferenza e rifabbricata da capo a fondo. Le storie non parlano che della stazione di Gisulfo in Forogiulio; e nulla dicono di edificazioni, che abbiano cangiato l’antica forma della città; il che prova abbastanza, che i nuovi ospiti aveano messo a profitto l’opera de’ Romani. Il Foro Giulio adunque de’ Romani fu totalmente distrutto da Cacano, come si legge più innanzi in questo stesso capitolo, e non fu se non dopo quell’epoca che affatto diventò Longobardo. Ciò viene a conferma di quanto s’è detto dell’antico Forogiulio nella nota 1. del cap. 14. del lib. 2.
  70. Elmodo nella storia degli Slavi cap. 53. narra che era in uso tra loro un tal genere di supplizio. Parecchi scrittori opinano, che questa sia stata la prima volta che fu veduto in Italia.
  71. Lupicis. Altri: Leupolis, Leupigis, Leuchis, Leupchis.
  72. Questo diritto pratico di possesso o di prescrizione, fu poi sancito dalle leggi scritte dai Longobardi: Si quis per XXX. annos bona fide possederit casas, familias et terras, et cognitum fuerit, quod ejus possessio fuerit, post XXX. annorum curricula ad pugnam non perveniat, nisi ipse, qui possedit secundum qualitatem pecuniae, cum sacramento suo se defendat (Leg. Grimoald. cap. 1. p. 4.).
  73. Zelia. Altri Aglia, e Cagelia. Tolomeo la chiama Celia (lib. 2. 14.). Plinio Celeja (lib. 3. 24.). Ora è detta contea di Cilla, ed è situata nella Stiria alla sinistra della Sava, 40. miglia distante da Lubiana, verso levante.
  74. Ora Oderzo.
  75. Adriano Valesio nelle note al Berengario spiega diffusamente questo rito di radere ai giovanelli la prima volta la barba; che praticavasi eziandio dagli antichi cristiani. I parenti e gli amici conducevano in chiesa il giovinetto, dove era raso per mano del sacerdote ed anco del vescovo, i quali intanto recitavano un’allusiva orazione. I grandi poi sceglievano qualche personaggio di alta dignità per lo stesso uffizio; onde intendevasi che colui il quale recideva la prima barba ad un giovane, lo prendesse per figlio adottivo (Script. Rer. Ital. ibid. p. 468.).
  76. Racconta Fredegario diversamente questo fatto, nella Cronica, al nono anno del re Dagoberto, il quale corrisponde circa al 631. Secondo lui Tasone era duca della Toscana, e fu assassinato in Ravenna da Isacco patrizio; ma Aimonio nella storia de’ Franchi, benchè sia sempre solito di trascrivere Fredegario; parlando di Tasone (lib. 4. c. 32.) concorda perfettamente con Paolo (Script. Rer. Italic. ib.). Tutte queste cose sono poste dal Murat. negli Annali sotto l’anno 635.
  77. Agunto castello del Norico, nell’itinerario d’Antonino è posto a 90. miglia di distanza da Aquileja, e 70. da Giulio Carnico. Il Cluverio (Ital. Antiqu.) dice che ora chiamasi Innichen.
  78. Paolo protesta d’ignorare la cagione della morte di Gondoaldo, mentre Fredegario la vuole operata da Teodelinda per gelosia, che il suo fratello fosse troppo amato dai Longobardi. I più sani critici stanno col nostro Storico, e solo acconsentono che se Teodelinda lo fece morire, per altro non fu, se non perchè costui covava in animo di ribellare, e d’impossessarsi del regno.
  79. Agilulfo fu uomo di grande valore in guerra, ma nelle cose interne del regno lasciò i primi onori alla moglie, come quegli che regnava per opera di lei medesima: donna di vasti concetti, alla quale si deve la primaria splendidezza della corte dei Longobardi.
  80. Nato Adaloaldo nel 603., contava allora tredici anni.
  81. L’originale dationes. Altri donationes.
  82. Secondo il Muratori la disgrazia di Adaloaldo avvenne dopo la morte di sua madre Teodelinda, della qual morte il nostro Diacono non fa alcun cenno. La causa della espulsione di questo giovane re è ignota agli Storici, se pure non si volessero aver per buone le fole spacciate da certi Cronachisti.
  83. Il testo Scotorum. Altri Gothorum. Il Muratori pone la venuta di s. Colombano al tempo del re Agilulfo, cioè circa l’anno 612.
  84. Altri Lexovium. Ora Luxevils in Borgogna.
  85. Presso alla Trebbia fra Piacenza e Genova.
  86. Così chiamasi lo stesso re nel proemio delle sue leggi: Ego in Dei nomine, qui dicor Rothar Rex filius Nandigild ex genere Arodus.
  87. Lo stesso Rotari nella perorazione delle leggi Longobarde: Inquirentes et rememorantes antiquas leges patrum nostrorum.
  88. Intorno allo spirito di queste leggi, lodate dal Montesquieu come assai giudiziose (esprit des Loix lib. 28. art. 1.) si troverà una breve digressione alla fine di questa storia.
  89. Nell’editto: post adventum in provinciam Italiae Langobardorum, ex quo Alboin tunc temporis Rege, procedente Divina potentia adjuti sunt anno septuagesimo sexto feliciter.
  90. Camillo Peregrino si oppone con varie osservazioni a questo capitolo del nostro autore. Ma il Muratori (Annal. ibid. pag. 89.) va dietro alla narrazione di Paolo, tanto più che la mentecataggine di Ajone e l’adozione di Grimoaldo e di Radoaldo erano sostenute dalla comune credenza. Conchiude anzi il lodato Muratori dalle parole colle quali Arichi raccomanda i due giovani ai Longobardi; esser questo un segno che l’elezion di que’ duchi dipendeva dal popolo, e la conferma del re dai medesimi Longobardi.
  91. Altri: quinque. Il Muratori mette la morte di questo duca sotto l’anno 641.
  92. Antica città della Puglia. Questi Schiavi vennero probabilmente dai lidi delle Venezie.
  93. Radoaldo era nato e allevato nel Forogiulio, i duchi del quale aveano sempre che far cogli Schiavi, come si narra in molti luoghi del nostro autore; onde è naturale che ne conoscesser la lingua.
  94. È questa la provincia Lunense del medio evo, di cui parla anco l’anonimo Ravennate, pag. 200., chiamandola provincia maritima Italorum, e dandole l’estensione di tutta la spiaggia Ligustica fino alla Gallia.
  95. Oggi detto Panaro, ma nella montagna ritiede ancora lo stesso nome (Murat. Annal. ib. p. 89.).
  96. Queste calamità sono accadute non ai tempi di Rotari, ma subito dopo la morte di Giovanni Consino, per testimonianza di Anastasio bibliotecario.
  97. Altri Sarracenis.
  98. L’originale oraculum; cioè aedes sacra in qua oratur.
  99. Questo monte si chiama di s. Angelo, e sta nella Puglia, sul mar superiore.
  100. Dubita Camillo Peregrino, della prava aggressione de’ Greci, perchè amici della Religione; e parimente dello zelo de’ Longobardi, perchè infedeli ed Arriani. Ma il Muratori s’attiene al racconto del nostro storico (Rer. Ital. ibid. p. 472.).
  101. Nota il Muratori a questo luogo, che ponendo la morte di Rotari sotto l’anno 653. deesi per altro stabilire il cominciamento del regno di Rodoaldo ancora vivente il padre, per accordarsi col tempo in cui Grimoaldo aumentò e spiegò le leggi di Rotari.
  102. Qualunque siasi la fede che dar si voglia al racconto di Paolo, esso è tuttavia un testimonio sincero della fama che dopo di se lasciò questo re. Un capitano che sa fare rapidamente la guerra ed ottener la vittoria, merita senza dubbio il nome di grande. Un re che diviene un savio legislator del suo popolo, ha diritto alla eterna gratitudine della nazione. Rotari capitano e re ottenne giustamente dalla posterità i titoli di valoroso e benefico.
  103. Qui Paolo è tacciato d’errore; provando i cronologisti colla testimonianza di Giona (scrittore di quell’età nella vita di san Bertulfo) che Gundiberga fu invece moglie del re Arioaldo.
  104. Quantunque i critici neghino che Gundiberga sia stata moglie di Rodoaldo, ed affermino che abbia prima sposato Arioaldo, e poi Rotari, tuttavia non è da mettersi in dubbio la sua avventura; anzi su di essa sono da farsi le seguenti osservazioni:
    Antichissimo era l’uso del duello presso i Barbari, anzi antico quanto il paese d’onde essi partirono. A gente che andava armata anco alla mensa, era naturale lo sbrigare le controversie da se, senza aspettare l’altrui giudizio. L’Eineccio e il Montesquieu riconoscono l’uso del duello presso gli antichi Germani da un luogo di Vellejo Patercolo (lib. II. cap. 118.), ove dice che quella gente si maravigliava, quod Romani injurias justitia finirent, et solita armis discerni; jure terminarentur. Ma dall’altro canto è pure osservabile, che l’esempio del diritto Romano non sia stato accettato nelle leggi scritte di Rotari, e siasi invece soltanto ridotto il duello a certe forme particolari. Appunto il caso di Gundeberga è in conformità d’una legge dello stesso Rotari, in cui si regola la pugna giudiziaria detta per campionem (Leg. Langob. cap. 1. 9.). E parlando delle donne accusate di fornicazione: per campionem causa, idest per pugnam, ad Dei Judicium decernatur (ibid. Leg. 198). E poi strano alquanto che Paolo, cattolico e uomo di chiesa, non abbia aggiunto alcun epiteto di disapprovazione nel racconto di questo duello. Nel fatto di Gundeberga si scorge una pittura dell’antica cavalleria, e si vede pure quanto profonde radici avesse quel barbaro costume, che nessuna pena, nessuna legge, nessuna civiltà di secoli non ha ancora potuto distruggere.
  105. Questo fatto è narralo più diffusamente da Fredegario, e siccome la sua descrizione ha tutto il colore del romanticismo, così per far piacere agli amici di questa scuola, e per rammorbidire l’aridezza della cronaca la darò qui sotto voltata in italiano col seguente titolo:

    Novella della regina Gundiberga.

    «Era la regina Gundiberga di bellissimo aspetto, cortese con tutti pia devota caritatevole, e di tale egregia bontà, per cui ella si facea universalmente adorare. Ora un certo uomo, di nome Adaulfo, della generazione dei Langobardi, il quale venia frequentemente nell’aula del palazzo per fare la corte al re, una volta introdottosi dalla regina, mentre se ne stava alla sua presenza, Gundiberga essendo di lui come tutti gli altri amorevole, così gli disse: Adaulfo! tu sei veramente bell’uomo! Ed egli ciò udito, tutto pieno di gioja rispose: Se tu degnasti di lodare la bellezza di mia persona, fa dunque, che io possa teco dormir nel tuo letto. Ma la regina virtuosamente respinse una tale proposta, e accesa di fiero dispetto, sputò a colui nella faccia. Allora Adaulfo, vedendosi in pericolo della vita, corse tosto presso al re Caroaldo, chiedendo gli concedesse un segreto colloquio. Il che ottenuto, gli favellò in questa guisa: La mia padrona e regina tua Gundiberga ebbe un occulto abboccamento di tre giorni continui col duca Tasone, ove macchinò di darti a bere il veleno, e poi di prender lui per marito, e farlo seder nel tuo regno. Il re Caroaldo, prestando fede a sì fatte menzogne, senza più pensare, confinò la regina in una torre del castello chiamato Lomello. Ma il re Clotario mandò ambasciadori a Caroaldo, interrogandolo per qual cagione egli avesse la regina Gundiberga madre de’ Franchi umiliata a segno di cacciarla in prigione. Alla quale interrogazione Caroaldo rispose adducendo in sua discolpa le menzogne, ch’egli a guisa di altrettante verità aveasi credute. Allora uno dei legati, di nome Ansoaldo, non per altrui consiglio, ma di proprio moto disse a Caroaldo: Tu puoi facilmente conoscere il vero. Ordina a quell’uomo, che accusò la tua donna, di armarsi, e venga pure un altro armato da parte della regina Gundiberga; poscia ambidue a singolar tenzone s’affrontino, affinchè per giudizio di Dio dalla sorte de’ due combattenti si riconosca, se Gundiberga sia innocente o rea di questo peccato. Il qual consiglio piacendo al re Caroaldo e a tutti i primati del suo palazzo, ordinò che Adaulfo dovesse presentarsi armato al conflitto; e da parte di Gundiberga, mentre accorreano i suoi cugini con Ariberto, si fece avanti contro Adaulfo un guerriero detto Pittone: sicchè avendo costoro l’un contro l’altro pugnato, Adaulfo fu da Pittone vinto ed ucciso. Dal che avvenne, che Gundiberga dopo tre anni di esilio fu ristabilita nel regno».

  106. Un oltraggio di questa spezie fatto ad un solo individuo, è sentito fortemente dall’intera nazione. Per questo motivo il Diacono non trovò alcun documento del castigo dell’uccisore. La storia adduce molti casi dell’impunità di sì fatte vendette.
  107. Le virtù d’Eraclio furono come striscie di luce fra le ombre de’ secoli del medio evo. Vinse gli Unni, sconfisse in parecchie battaglie i Persiani, arse la loro reggia, conquistò gran parte del loro impero: ma i suoi trionfi, che in altri tempi lo avrebbero collocato a canto di Alessandro e di Cesare, per le avverse circostanze di quella età, si rinchiusero con esso lui nel sepolcro. L’impostor della Mecca comparso sventuratamente ai giorni d’Eraclio, fra mille disastri e rovescj seppe pur soffiare con tanta veemenza nelle passioni di un popolo ignorante e superstizioso, che per lui piantossi una nuova Era foriera del cangiamento politico e religioso di tutto l’oriente. Questo lagrimevol pensiero cotanto sconvolse l’animo d’Eraclio, che s’ingenerò una infermità nel suo corpo, che lo condusse a morir nel dolore. Stendiamo un velo sulle fralezze della vita e sugli errori ai quali può aver partecipato lo spirito di questo eroe: ricordiamo soltanto che Eraclio ridonò a Gerusalemme il vero vessillo del Salvatore, e che il suo nome è associato ad una delle feste più care al cuor de’ cristiani: l’Esaltazion della Croce.
  108. Nota il Pagi, che Eraclio morì nell’anno 641; ciò che altera non poco la Cronologia di Paolo. È anche da osservarsi che ad Eraclio non successe Eracleone, ma Costantino; il quale dopo cento e tre giorni, o per malattia o per veleno preparato da Pirro Patriarca, ed apprestatogli dalla matrigna cesse il luogo ad Eracleone ed alla madre Martina; i quali furono sei mesi dopo espulsi dal Senato. A Martina fu strappata la lingua, ad Eracleone mozzate le nari.
  109. L’originale conspectui.
  110. Tutti i critici e i cronologisti mettono questa storiella nel numero delle favole.
  111. Altri Æmiliam viam.
  112. La corazza, usata dalle milizie del medio evo era fatta di catenelle di ferro a guisa di maglia, e s’indossava sul corpo ignudo. Adunque per ferire chi era guernito di questa difesa bisognava non colpire, ma dar di punta per foraminatos circulos loricarum, come scrive Sidonio Apollinare (lib. 3. epist.3.). Ciò prova che le spade di quell’età feriano di taglio e di punta (Ved. Murat. dissertaz.26.).
  113. L'originale tugurium. Secondo i Glossatori la voce viene a tegendo, onde fu detto anche tegorium. In questo luogo di Paolo propriamente deve intendersi il tetto del battisterio, che secondo l’architettura di que’ tempi era di figura poligona, e guernito alla base da un parapetto, da ciaschedun lato del quale s’innalzavano altrettante colonne, che colla sommità loro sosteneano il coperchio; del che se ne possono vedere due esemplari in Friuli, l’uno nella basilica d’Aquileja, l’altro nel Duomo di Cividale.
  114. Le passioni spiegano sempre un andamento conforme alla particolare loro natura, per quanto diversi siano i tempi, gli ordini, le discipline, e i costumi delle nazioni. La morte di Godeberto, e l’usurpazione di Grimoaldo furono ordite e condotte a fine con tutte quelle arti che sogliono praticarsi dagli scellerati ne’ secoli della più raffinala malvagità. Anche in morale e in politica vale l’assioma, che le medesime cagioni generano indubitabilmente i medesimi effetti. Si è detto le mille volte che le circostanze contribuiscono a far gli uomini buoni o cattivi. Questi due re fratelli, discordi e nemici fra loro, diedero occasione al malvagio consigliere di mostrare ad un uomo ambizioso il campo aperto a correre al trono. E l’ambizioso approfittò tosto dell’empio consiglio per satollare la propria ambizione. La morale di questa sanguinosa catastrofe si è, che lo scandalo della inimicizia fraterna fu punito solennemente da un nemico d’entrambi; ma chi ha ordito la orribile trama pagò colla propria vita il fio di tanta scelleratezza. Godeberio e Bertarido sono l’Eteocle e il Polinice del medio evo per ciò che spetta all’analogia delle circostanze; quantunque il complesso della storia di questi e di quelli sia in gran parte diverso. Essendo questo un argomento in ogni parte tragediabile (come diceva l’Alfieri), noi abbiamo giusto fondamento di credere che sarà esso trattato da una penna, che non isdegna il romanticismo del tema, senza però dipartirsi dall’ordine e dalle regole del classicismo. Il fatto è grande, perchè si tratta dell’occupazione del regno de’ Longobardi in un modo fino allora inusitato a quella nazione; e chi ascende su quel trono è un uomo di grande prudenza, e di specchiato valore, talchè col tempo è confermato dalla nazione stessa nel regno, e diviene legislatore della medesima. L’argomento può conservar l’unità di azione, di tempo e di luogo; perchè essa può cominciare la notte della venuta di Garibaldo a Pavia, ed ivi terminare alla metà del giorno seguente. I caratteri de’ personaggi sono forti e variati. Grimoaldo è un ambizioso che s’approfitta della fortuna per soddisfare alla sua passione; Godeberlo e Berlarido due uomini alteri della lor condizione, avidi di regnare, accesi di scambievole fierissimo odio. Ma Godeberto che chiama a sè un ausiliario per rovinare il fratello apparisce veramente malvagio; l’altro non è che un uomo violento che mette in opera la propria forza per conseguire il suo scopo. Sta nell’arte del Poeta il trovare il modo di far comparire convenientemente questo personaggio sulla scena senza nuocere all’unità di luogo. Lo scellerato Garibaldo può sedere a lato di Creonte, di Jago, e di Gomez. Nè possono mancare le donne, e rappresentare una parte assai tenera e viva; cioè la sorella di Godeberto promessa in isposa a Grimoaldo, e la moglie stessa di Godeberto. Il suo fanciulletto stesso, di cui parla lo storico, può mostrarsi nel chiudere dell’azione in braccio alla madre fuggente, e con ciò accrescere il patetico della tragedia. La soluzione del nodo poi sta nella morte di Godeberto, accompagnata da quella del traditor Garibaldo. Se la tragedia serberà l’unità del soggetto, e se la varietà degli accidenti crescerà a grado a grado l’interesse fino allo sviluppo della catastrofe, noi possederemo un poema di puro classico gusto, e di costume tutto romantico; il che potrà giovare a ravvicinare alla pace i valorosi campioni di questi due letterarj partiti.