Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/VII. La Commedia/VIII

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VII. La Commedia - VIII.

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VII. La Commedia - VII VIII. Il Canzoniere
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Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza. Quando la vita si disabella a’ nostri sguardi, quando le volgiamo le spalle e ci chiudiamo nella santitá degli affetti domestici tra la famiglia e gli amici, nelle opere dell’arte e del pensiero, il Purgatorio ci s’illumina di viva luce e diviene il nostro libro, e ci scopriamo molte delicate bellezze, una gran parte di noi. Fu il libro di Lamennais, di Balbo, di Schlosser.

Viene il Paradiso. Altro concetto, altra vita, altre forme.

Il paradiso è il regno dello spirito, venuto a libertá, emancipato dalla carne o dal senso, perciò il soprasensibile o, come dice Dante, il trasumanare, il di lá dall’umano. È quel regno della filosofia che Dante volea realizzare in terra; il regno della pace, dove intelletto, amore e atto sono una cosa. Amore conduce lo spirito al supremo intelletto, e il supremo intelletto è insieme supremo atto. La triade è insieme unitá. Quando l’uomo è alzato dall’amore fino a Dio, hai la congiunzione dell’umano e del divino, il sommo bene, il paradiso.

Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta: è una forma della vita umana. Ci è nel nostro spirito un di lá, ciò che dicesi il sentimento dell’infinito, la cui esistenza si rivela piú chiaramente alle nature elevate.

L’arte antica avea materializzato questo di lá, umanando il cielo; e la filosofia, partendo dalle piú diverse direzioni, era giunta a questa conclusione pratica: che l’ideale della saggezza, e perciò della felicitá, è posto nella eguaglianza dell’animo; ciò che dicevasi «apatia», affrancamento dalle passioni e dalla carne: pagana tranquillitá, che vedi nelle figure quiete e serene e semplici dell’arte greca.

Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del limbo:

                                    Sembianza avevan né trista né lieta...
Parlavan rado, con voci soavi.
     
[p. 223 modifica]Virgilio n’è il tipo piú puro, le cui impressioni vanno di rado al di lá di un sospiro o di un movimento tosto represso. Questa calma è la fisonomia del purgatorio, il carattere piú spiccato di quelle anime, dove l’aspirazione al cielo è senza inquietudine, sicure di salirvi quandochessia. Ma giá in quelle anime penetra un elemento nuovo: l’estasi, il rapimento, la contemplazione; ci sta Catone, ma irradiato di luce.

Col cristianesimo s’era restaurato nello spirito questo inquieto di lá, e divenne in breve molta parte della vita, anzi la principale occupazione della vita. E si sviluppò un’arte e una letteratura conforme. Chi vede gli ammirabili mosaici del paradiso sotto le cupole di San Marco e di San Giovanni Laterano, o le facce estatiche de’ santi consumate dal fervore divino, ha innanzi stampato il tipo di questo uomo nuovo. Quel di lá, il celeste, il divino, appare su quelle facce, come appare nella Cittá di Dio di santo Agostino e nella Dieta salutis di san Bonaventura. A questa immagine avea composta la sua Gerusalemme celeste frate Giacomino da Verona nel secolo decimoterzo.

Questo di lá, intravveduto nelle estasi, ne’ sogni, nelle visioni, nelle allegorie del purgatorio, eccolo qui nella sua sostanza: è il paradiso. Il quale, intravveduto nella vita, ha una forma, e può essere arte; ma non si concepisce come, veduto ora nella sua purezza, come regno dello spirito, possa avere una rappresentazione. Il paradiso può essere un canto lirico, che contenga, non la descrizione di cosa che è al di sopra della forma, ma la vaga aspirazione dell’anima «a non so che divino»; ed anche allora l’obbietto del desiderio, pur rimanendo «un incognito indistinto», riceve la sua bellezza da immagini terrene, come nel l’Aspirazione e nel Pellegrino di Schiller e in questi bei versi del Purgatorio, imitati dal Tasso:

                                    Chiamavi ’l cielo e intorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze eterne.
     

Per rendere artistico il paradiso, Dante ha immaginato un paradiso umano, accessibile al senso e all’immaginazione. In [p. 224 modifica]paradiso non c’è canto e non luce e non riso; ma, essendo Dante spettatore terreno del paradiso, lo vede sotto forme terrene:

                                         Per questo la Scrittura condiscende
a vostra facultade, e piedi e mano
attribuisce a Dio, ed altro intende.
     

Cosi Dante ha potuto conciliare la teologia e l’arte. Il paradiso teologico è spirito, fuori del senso e dell’immaginazione e dell’intelletto: Dante gli dá parvenza umana e lo rende sensibile ed intelligibile. Le anime ridono, cantano, ragionano come uomini. Questo rende il paradiso accessibile all’arte.

Siamo all’ultima dissoluzione della forma. Corpulenta e materiale nell’Inferno, pittorica e fantastica nel Purgatorio, qui è lirica e musicale: immediata parvenza dello spirito, assoluta luce senza contenuto, fascia e cerchio dello spirito, non esso spirito. Il purgatorio, come la terra, riceve la luce dal sole e dalle stelle, e queste l’hanno immediatamente da Dio; sicché le anime purganti, come gli uomini, veggono il sole, e nel sole intravvedono Dio, offertosi giá alla fantasia popolare come emanazione di luce. Ma i beati intuiscono Dio direttamente per la luce che move da lui senza mezzo:

                                    Lume, ch’a lui veder ne condiziona.      

Adunque il paradiso è la piú spirituale manifestazione di Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro che luce, di tutti gli affetti non altro che amore, di tutt’i sentimenti non altro che beatitudine, di tutti gli atti non altro che contemplazione. Amore, beatitudine, contemplazione prendono anche forma di luce: gli spiriti si scaldano ai raggi d’amore; la beatitudine o letizia sfavilla negli occhi e fiammeggia nel riso; e la veritá è siccome in uno specchio dipinta nel cospetto eterno:

                                         Luce intellettual piena d’amore,
amor di vero ben pien di letizia,
letizia che trascende ogni dolzore.
     

Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la luce; l’ira di san Pietro fa trascolorare tutto il paradiso. [p. 225 modifica]

Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo progresso, come l’inferno e il purgatorio. È una progressiva manifestazione dello spirito o di Dio in una forma sempre piú sottile sino al suo compiuto sparire: manifestazione ascendente di Dio, che risponde a’ diversi ordini o gradi di virtú. Sali di stella in stella, come di virtú in virtú, sino al cielo empireo, soggiorno di Dio.

Ad esprimere queste gradazioni, unica forma è la luce. Perciò non hai qui, come nell’inferno o nel purgatorio, differenze qualitative, ma unicamente quantitative, un piú e un meno. Prima la luce non è cosí viva che celi la faccia umana; piú si sale, e piú la luce occulta le forme come in un santuario. Come è la luce, cosí è il riso di Beatrice, un «crescendo» superiore ad ogni determinazione; la fantasia, formando, non può seguire l’intelletto, che distingue. Bene il poeta vi adopera l’estremo del suo ingegno, conscio della grandezza e difficoltá dell’impresa:

                                         L’acqua, ch’io prendo, giammai non si corse.
Minerva spira e conducemi Apollo,
e nove muse mi dimostran l’Orse.
     

Dapprima, caldo di questo mondo, sua fattura, allettato dalla novitá o dal maraviglioso de’ fenomeni che gli si affacciano, le immagini gli escono vivaci, peregrine. Poi, quasi stanco, diviene arido e dá in sottigliezze 1; ma lo vedi rilevarsi e poggiare piú e piú a inarrivabile altezza, sereno, estatico: diresti che la difficoltá lo alletti, la novitá lo rinfranchi, l’infinito lo esalti. [p. 226 modifica]

Il paradiso propriamente detto è il cielo empireo, immobile e che tutto move, centro dell’universo. Ivi sono gli spiriti, ma, secondo i gradi de’ loro meriti e della loro beatitudine, appariscono ne’ nove cieli che girano intorno alla terra: la luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno, le stelle fisse e il primo mobile. Ne’ primi sette cieli, che sono i sette pianeti, ti sta avanti tutta la vita terrena. La luna è una specie di avantiparadiso. I negligenti aprono l’inferno e il purgatorio, e aprono anche il paradiso. E i negligenti del paradiso sono i manchevoli non per volontá propria, ma per violenza altrui. Il loro merito non è pieno, perché mancò loro quella forza di volontá che tenne Lorenzo sulla grata e fe’ Muzio severo alla sua mano. Perciò in loro rimane ancora un vestigio della terra: la faccia umana. In Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove hai le glorie della vita attiva: i legislatori, gli amanti, i dottori, i martiri, i giusti. In Saturno hai la corona e la perfezione della vita: i contemplanti. Percorsi i diversi gradi di virtú, comincia il tripudio o, come dice il poeta, il trionfo della beatitudine. Ed hai nelle stelle fisse il trionfo di Cristo, nel primo mobile il trionfo degli angioli, e nell’empireo la visione di Dio, la congiunzione dell’umano e del divino, dove s’acqueta il desiderio.

Questa storia del paradiso secondo i diversi gradi di beatitudine ha la sua forma ne’ diversi gradi di luce.

La luce, veste e fascia delle anime, è la sola superstite di tutte le forme terrene, e non è vera forma, ma semplice parvenza e illusione dell’occhio mortale. Essa è la stessa beatitudine, la letizia delle anime, che prende quell’aspetto agli occhi di Dante:

                                         La mia letizia mi ti tien celato,
che mi raggia d’intorno e mi nasconde,
quasi animai di sua seta fasciato.
     

Queste parvenze dell’interna letizia si atteggiano, si determinano, si configurano ne’ piú diversi modi, e non sono altro che i sentimenti o i pensieri delle anime, che paion fuori in quelle forme. E n’esce la natura del paradiso, luce diversamente atteggiata e configurata, che ha aspetto or di aquila, or di croci, [p. 227 modifica]or di cerchio, or di costellazione, ora di scala, con viste nuove e maravigliose. Queste combinazioni di luce non sono altro che gruppi d’anime, che esprimono i loro pensieri co’ loro moti e atteggiamenti. A rendere intelligibili le parvenze di questo mondo di luce, il poeta si tira appresso la natura terrestre e ne coglie i fenomeni piú fuggevoli, piú delicati, e ne fa lo specchio della natura celeste. Cosi rientra la terra in paradiso, non come sostanziale ma come immagine, parvenza delle parvenze celesti. È la terra che rende amabile questo paradiso di Dante; è il sentimento della natura che diffonde la vita tra queste combinazioni ingegnose e simboliche. La terra ha pure la sua parte di paradiso, ed è in quei fenomeni che inebbriano, innalzano l’animo e lo dispongono alla tenerezza e all’amore: trovi qui tutto che in terra è di piú etereo, di piú sfumato, di piú soave. E come l’impressione estetica nasce appunto da questo profondo sentimento della natura terrestre, avviene che il lettore ricorda il paragone, senza quasi piú sapere a che cosa si riferisca. Questi paragoni di Dante sono le vere gemme del Paradiso:

                                         Come a raggio di sol, che puro mèi
per fratta nube, giá prato di fiori
vider, coperti d’ombra, gli occhi miei;
     vid’io cosí piú turbe di splendori
fulgorati di su da’ raggi ardenti,
senza veder principio di fulgori2.

     Si come ’l sol che si cela egli stessi
per troppa luce, quando il caldo ha rose
le temperanze de’ vapori spessi;
     per piú letizia si mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa
e cosí chiusa chiusa mi rispose...3.
     
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                                         Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati,
la notte che le cose ci nasconde,
     che, per veder gli aspetti desiati
e per trovar lo cibo onde gli pasca,
in che i gravi labor gli sono grati,
     previene ’l tempo in su l’aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando, pur che l’alba nasca...4.

     ... Come orologio che ne chiami
nell’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami;
     che l’una parte l’altra tira ed urge,
«tin tin» sonando con si dolce nota,
che ’l ben disposto spirto d’amor turge...5

                    .... e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave6.

     Qual lodoletta, che in aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
dell’ultima dolcezza che la sazia...7.

     Pareva a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
     Per entro sé l’eterna margherita
ne ricevette, com’acqua recepe
raggio di luce, rimanendo unita8.

     Si come schiera d’api, che s’infiora
una fiata, ed una si ritorna
lá dove suo lavoro s’insapora...9.
     
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                                         E vidi lume in forma di riviera,
fulvido di fulgori, intra duo rive,
dipinte di mirabil primavera.
     Di tal fiumana uscian faville vive
e d’ogni parte si mescean ne’ fiori,
quasi rubini ch’oro circoscrive.
     Poi, come inebriate dagli odori,
riprofondavan sé nel miro gurge;
e s’una entrava, un’altra lisciane fuori10.
     

Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneitá e di evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di tutto ciò che in terra è piú ridente e smagliante. Siamo nell’empireo. La virtú visiva è stanca, ma si raccende alle parole di Beatrice, si che gli appare la riviera di luce; e, fortificata la vista in quella riviera, in quei fiori inebbrianti, in quell’oro, in quei rubini, in quelle vive faville, Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del loro tripudio. Ma in veritá gli scanni de’ beati sono meno poetici di queste due rive dipinte di mirabil primavera.

Ma la forma, come parvenza dello spirito, è un press’a poco, un quasi, un come, «fioca e corta» al concetto. Questa impotenza della forma produce un sublime negativo, che Dante esprime con l’energia intellettuale di chi ha vivo il sentimento dell’infinito:

                                         ... appressando sé al suo desire,
nostro intelletto si profonda tanto
che la memoria retro non può ire.

     ... ogni minor natura
è corto recettacolo a quel bene
ch’è senza fine e sé con sé misura.

     ... nella giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com’occhio per lo mare, entro s’interna;
     
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                                         che, benché dalla proda veggia il fondo,
in pelago non vede; e nondimeno
egli è, ma ’l cela lui Tesser profondo.
     

La letizia, che move le anime e «trascende ogni dolzore», non è se non beatitudine. E rende beate le anime l’entusiasmo dell’amore e la chiarezza intellettiva o, come dice Dante, «luce intellettual piena d’amore». Esse hanno allegro il cuore e allegra la mente. Nel cuore è perenne desiderio e perenne appagamento. Nella mente la veritá sta come «dipinta».

La luce è forma inadeguata della beatitudine. Ti dá la parvenza, ma non il sentimento e non il pensiero. Spuntano perciò due altre forme: il canto e la visione intellettuale.

Quello che nel purgatorio è amicizia, nel paradiso è amore, ardore di desiderio, placato sempre, non saziato mai, infinito come lo spirito. Stato lirico e musicale, che ha la sua espressione nella melodia e nel canto. La medesimezza del sentimento spinto sino all’entusiasmo genera la comunione delle anime; la persona non è l’individuo ma il gruppo, come è delle moltitudini nei grandi giorni della vita pubblica. I gruppi qui non sono cori, che accompagnino e compiano l’azione individuale, ma sono la stessa individualitá diffusa in tutte le anime; e se vogliamo chiamarli cori, sono il coro di personaggi invisibili e muti, di Cristo, di Maria e d’iddio. Ecco il coro di Maria:

                                         Per entro ’l cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.
     Qualunque melodia piú dolce suona
quaggiú e piú a sé l’anima tira,
parrebbe nube che squarciata tuona,
     comparata al suonar di quella lira,
onde si coronava il bel zaffiro,
di ’l quale il ciel piú chiaro s’inzaffira.
     — Io sono amore angelico che giro
l’alta letizia, che spira del ventre
che fu albergo del nostro desiro;
     
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                                         e girerommi, Donna del del, mentre
che seguirai tuo Figlio e farai dia
piú la spera superna, perché li entre. —
     Cosi la circulata melodia
si sigillava, e tutti gli altri lumi
facean sonar lo nome di Maria...
     E come fantolin che inver’la mamma
tende le braccia, poi che ’l latte prese,
per l’animo che infin di fuor s’infiamma;
     ciascun di quei candori in su si stese
con la sua cima, si che l’alto affetto,
ch’egli aveano a Maria, mi fu palese.
     Indi rimaser li nel mio cospetto,
«Regina coeli» cantando si dolce,
che mai da me non si parti ’l diletto.
     

Quella facella è l’angiolo Gabriele, e il coro è angelico. Angioli e beati sono penetrati dello stesso spirito, hanno vita comune: se non che negli angioli la virtú è innocenza e la letizia è irriflessa: plenitudine volante tra’ beati e Dio, che il poeta ha rappresentato in alcuni bei tratti; è un andare e venire nel modo abbandonato e allegro della prima etá, tripudiami e folleggiami con una espansione che il poeta chiama «arte» e «gioco»:

                                         Qual è quell’angel, che con tanto gioco
guarda negli occhi la nostra Regina,
innamorato si, che par di fuoco?
     

L’amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta «sodalizio». I loro moti sono danze, le loro voci sono canti; ma, in quell’accordo di voci, in quel turbine di movimenti, la personalitá scompare: è una musica in cui i diversi suoni si confondono e si perdono in una sola melode. Non ci è differenza di aspetto, ma, per dir cosí, una faccia sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico del Paradiso, ma è la sua parte fiacca, perché il poeta, contento a citare le prime parole di canti ecclesiastici, non ha avuta libertá e attivitá di spirito da creare la lirica del paradiso, rappresentando nel canto i sentimenti e gli affetti del [p. 232 modifica]celeste sodalizio. E dove potea giungere, lo mostra la preghiera di san Bernardo, che è un vero inno alla Vergine, e l’inno a san Francesco d’Assisi e l’inno a san Domenico, nella loro semplicitá anche un po’ rozza tutto cose e piú schietti che i magniloquenti inni moderni.

I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica e non poesia: è tutto una sola onda di luce, di melodia e di voce, che ti porta seco:

                                         — Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo —
cominciò — gloria — tutto il paradiso,
tal che m’inebriava il dolce canto.
     Ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso
dell’universo, peroché mia ebbrezza
entrava per l’udire e per lo viso.
     Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intera d’amore e di pace!
oh senza brama sicura ricchezza!
     

È l’armonia universale, l’inno della creazione. La luce, vincendo la corporale impenetrabilitá e frammischiando i suoi raggi, esprime anche al di fuori questa compenetrazione delle anime, l’individualitá sparita nel mare dell’essere. Il poeta, signore anzi tiranno della lingua, forma ardite parole a significare questa medesimezza amorosa degli esseri nell’essere: «inciela», «imparadisa», «india», «intuassi», «immei», «inlei», «s’infutura», «s’illuia»; delle quali voci alcune dopo lungo obblio rivivono. La redenzione dell’anima è la sua progressiva emancipazione dall’egoismo della coscienza; la sua individualitá non le basta; si sente incompiuta, parziale, disarmonica, e sospira alla idealitá nella vita universale. Questo è il carattere della vita in paradiso. Non solo sparisce la faccia umana, ma in gran parte anche la personalitá. Vivono gli uni negli altri e tutti in Dio.

Questo vanire delle forme e della stessa personalitá riduce il paradiso a una corda sola, a lungo andare monotona, se non vi penetrasse la terra e, con la terra, altre forme ed altre passioni. La terra penetra come contrapposto a questa vita d’amore [p. 233 modifica]e di pace. È vita d’odio e di vana scienza, e provoca le collere e i sarcasmi de’ celesti.

Il contrapposto è còlto in alcuni momenti altamente poetici. Accolto nel sole gloriosamente allato a Beatrice, si affaccia al poeta tutta la vanitá delle cure terrestri:

                                         O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
     Chi dietro a iura, e chi ad aforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
     e chi ’n rubar, e chi ’n civil negozio,
chi nel diletto della carne involto
s’affaticava, e chi si dava all’ozio.
     

Un altro momento di alta poesia è quando il poeta dall’alto delle stelle fisse guarda alla terra:

                                                             ... E vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vii sembiante.
     
La terra, «che ci fa tanto feroci», veduta dal cielo, gli pare un’aiuola. Il concetto (abbellito e allargato dal Tasso) ha qui una severitá di esecuzione quasi ieratica. Il poeta si sente giá cittadino del cielo, e guarda cosí di passata e con appena un sorriso a tanta viltá di sembiante, volgendone immediatamente l’occhio e mirando in Beatrice:
                                         L’aiuola, che ci fa tanto feroci,
volgendola’ io con gli eterni gemelli,
tutta m’apparve da’ colli alle foci:
     poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli.
     
Pure è quest’aiuola che desta nel seno de’ beati varietá di sentimenti e di passioni, facendo vibrar nuove corde. Accanto all’inno spunta la satira in tutte le sue gradazioni: il frizzo, la caricatura, l’ironia, il sarcasmo. Qual frizzo che l’allusione di Carlo Martello, cosí pungente nella sua generalitá:
                                         E fanno re di tal ch’è da sermone!      
[p. 234 modifica]Beatrice, dottissima in teologia, si mostra non meno dotta nel maneggio della caricatura e dell’ironia, frustando i predicatori plebei di quel tempo:
                                         Ora si va con motti e con iscede
a predicare; e pur che ben si rida,
gonfia ’l cappuccio, e piú non si richiede.
     

Giustiniano conchiude il suo nobilissimo racconto dei casi e della gloria dell’antica Roma con fiere minacce ai guelfi, nemici dell’aquila imperiale. Papa e monaci sono i piú assaliti. San Tommaso, dette le lodi di san Francesco, riprende i francescani, e san Benedetto i benedettini, e san Pietro il papa. Tutt’i re di quel tempo mandano sangue sotto il flagello di Dante. Non si può attendere da’ santi alcuna indulgenza alle umane fralezze. La satira è acerba; la sua musa è l’indignazione, e la sua forma ordinaria è l’invettiva. Le forme comiche sono uccise ‘n sul nascere e si sciolgono nel sarcasmo. Il sarcasmo non è qui né un pensiero né un tratto di spirito, ma pittura viva del vizio, con parole anche grossolane, come «cloaca», che mettano in vista il laido e il disgustoso. Il vizio è còlto, non in una forma generale e declamatoria, ma lá, in quegli uomini, in quel tempo, sotto quelli aspetti, con pienezza di particolari ed esattezza di colorito. Capilavori di questo genere sono la pittura de’ benedettini e l’invettiva di san Pietro.

Questo contrapposto tra il cielo e la terra non è altro se non l’antitesi che è in terra tra i buoni e i cattivi, e, per scendere al particolare, tra l’etá dell’oro del cristianesimo e i tempi degeneri del poeta; è il presente condannato dal passato, è il passato messo in risalto dal suo contrasto con la corruzione presente. Ci erano i benedettini, ma ci era stato san Benedetto; ci era Bonifazio e Clemente, ma ci era stato san Pietro e Lino e Cleto e Sisto e Pio e Calisto e Urbano. Gli uomini di quell’aurea etá piú illustri per santitá e per scienza sono qui raccolti, come in un pantheon; è il mondo eroico cristiano, succeduto a quel mondo eroico pagano stato descritto nel limbo, e di cui Giustiniano fa il panegirico in paradiso. [p. 235 modifica]

Questa etá dell’oro, collocata nel passato e messa a confronto con la tristizia di quei tempi, ha ispirato a Dante una delle scene piú interessanti; ed è la pittura dell’antica e della nuova Firenze, fatta da Cacciaguida, uno dei suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi insieme: vedi l’ideale dell’etá dell’oro e della domestica felicitá, con tanta semplicitá di costumi, con tanta modestia di vita; e di rincontro vedi il villano di Aguglione e le sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa scena di famiglia prende proporzioni epiche: Dante si fa egli medesimo il suo piedistallo. Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto, che ben si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta. L’esilio non è rappresentato ne’ patimenti materiali: Dio riserba dolori piú acuti ai magnanimi: lasciare ogni cosa diletta piú caramente e domandare il pane all’insolente pietá degli estranei, questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne’ versi divenuti proverbiali del piú misero e del piú grande. Ma è un dolore virile: tosto rileva la fronte, e dall’alto del suo ingegno e della sua missione poetica vede a’ suoi piedi tutt’i potenti della terra.

La letizia delle anime non è solo amore, ma visione intellettuale. La luce, il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce è detta «intellettuale». Beatrice spiega cosí il suo riso a Dante:

                                         S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
di lá dal modo che in terra si vede,
si che degli occhi tuoi vinco ’l valore;
     non ti maravigliar, ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
cosí nel bene appreso move il piede.
     
La beatitudine è la contemplazione, e la contemplazione è appunto questa perfetta visione intellettuale. Perciò le anime non investigano, non discutono e non dimostrano, ma veggono e descrivono la veritá, non come idea ma come natura vivente. In terra ci è l’apparenza del vero, e perciò diversitá di sistemi filosofici, come spiega Beatrice:
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                                         Voi non andate giú per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l’amor dell’apparenza e ’l suo pensiero.
     
In paradiso la veritá è tutta dipinta nel cospetto eterno: in Dio è legato con amore in un volume ciò che per l’universo si squaderna; vedere Dio è vedere la veritá. E non è visione solo di cose ma di pensieri e di desidèri. I beati vedono il pensiero di Dante senza ch’egli lo esprima.

La scienza com’era concepita a’ tempi di Dante, sposata alla teologia, avea una forma concreta e individuale, materia contempiabile e altamente poetica. Un Dio personale, che, immobile motore, produce amando l’idea esemplare dell’universo, pura intelligenza e pura luce, che penetra e risplende in una parte piú e meno in un’altra sino alle ultime contingenze; gli astri, dove si affacciano i beati, influenti sulle umane sorti e governati da intelligenze da cui spira il moto e le virtú de’ loro giri; il cielo empireo, centro di tutt’i cerchi cosmici e soggiorno della pura luce; l’universo, splendore della divinitá, dove appare squadernato ciò che in Dio è un volume; l’ordine e l’accordo di tutto il creato dalle infime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli angioli; la caduta dell’uomo per il primo peccato e il suo riscatto per l’incarnazione e la passione del Verbo; la veritá rivelata, oscura all’intelletto, visibile al cuore, avvalorato dalla fede, confortato dalla speranza, infiammato dalla caritá11: in questa scienza della creazione il pensiero è talmente concretato e incorporato, che il poeta può contemplarlo come cosa vivente, come natura. Perciò la forma scientifica è qui meno un ragionamento che una descrizione, come di cosa che si vede e non si dimostra. Il perfetto vedere de’ beati è privilegio di Dante; nessuno gli sta del pari nella forza e chiarezza della visione. [p. 237 modifica]Spirito dommatico, credente e poetico, predica dal paradiso la veritá assoluta; e non la pensa, la scolpisce. Diresti che pensi con l’immaginazione, aguzzata dalla grandezza e veritá dello spettacolo. Nascono ardite metafore e maravigliose comparazioni. L’accordo della prescienza col libero arbitrio è una delle concezioni piú difficili e astruse; ma qui non è una concezione, è una visione, uno spettacolo: cosí potente è questa immaginazione dantesca:

                                         La contingenza, che fuor del quaderno
della vostra materia non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto eterno.
     Necessitá però quindi non prende,
se non come dal viso, in che si specchia,
nave che per corrente giu discende.
     Da indi, si come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista ’l tempo che ti s’apparecchia.
     

Il poeta procede per deduzione, guardando le cose dall’alto del paradiso, da cui dechina via via fino alle ultime conseguenze: forma contemplativa e dommatica, anzi che discorsiva e dimostrativa, e propria della poesia, presentando all’immaginazione vasti orizzonti in una sola comprensione:

                                         Guardando nel suo Figlio con l’amore,
che Luna e l’altro eternalmente spira,
lo primo ed ineffabile valore,
     quanto per mente o per occhio si gira,
con tanto ordine fe’, ch’esser non puote
senza gustar di lui chi ciò rimira.
     

Questa forma poetica della scienza, questa visione intellettuale, abbozzata nel Tesoretto, è condotta qui a molta perfezione. È un certo modo di situare l’oggetto e metterlo in vista, si che l’occhio dell’immaginazione lo comprenda tutto. Se ci è cosa che ripugna a questa forma, è lo scolasticismo con la barbarie delle sue formole e le sue astrazioni; ma l’immaginazione vi fa penetrare l’aria e la luce: miracolo prodotto dalle [p. 238 modifica]due grandi potenze della mente dantesca, la virtú sintetica e la virtú formativa. Veggasi la stupenda descrizione che fa Beatrice del moto degli astri, di poco inferiore alla storia del processo creativo, il capolavoro di questo genere. Qui la scienza della creazione è abbracciata in un solo girar d’occhio, con si stretta e rapida concatenazione, che tutto il creato ti sta innanzi come una sola idea semplice. Ci sono concetti difficilissimi ad esprimersi, come l’unitá della luce nella sua diversitá, e l’imperfezione della natura, che non ti dá mai realizzato l’ideale. I concetti qui non sono astrazioni, ma forze vive, gli attori della creazione, la luce, il cielo, la natura; e non hai un ragionamento: hai una storia animata, con una chiarezza e vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere persone poetiche:

                                         Ciò che non muore e ciò che può morire
non è se non splendor di quella idea,
che partorisce, amando, il nostro Sire.
     Ché quella viva luce che si mea
dal suo lucente, che non si disuna
da lui né dall’amor che in lor s’intrea,
     per sua bontate il suo raggiare aduna,
quasi specchiato, in nuove sussistenze,
eternalmente rimanendosi una.
     

Queste tre terzine sono una maraviglia di chiarezza e di energia in dir cosa difficilissima. Né minor potenza d’intuizione trovi nella fine, quando, paragonando l’ideale alla cera del suggello, aggiunge:

                                         Ma la natura la dá sempre scema,
similemente operando all’artista,
c’ha l’abito dell’arte e man che trema.
     

Ed anche la mano di Dante trema, ché fra tante bellezze ci è non poca scoria. Non di rado vedi, non il poeta, ma il dottore che esce dall’universitá di Parigi, pieno il capo di tesi e di sillogismi. Molte quistioni sono troppo speciali, altre sono infarcite di barbarie scolastica: definizioni, distinzioni, citazioni, [p. 239 modifica]argomentazioni. E questo è non per difetto di virtú poetica ma per falso giudizio. A lui pare che questo lusso di scienza sia la cima della poesia, e se ne vanta, e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca. — Tornate indietro — egli dice, — ché il mio libro è per soli quei pochi che possono gustare il pan degli angioli; — e sono i filosofi e i dottori suoi pari. Perciò il Paradiso è poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e di risposte fra maestro e discente.

La visione intellettuale è la beatitudine. L’esposizione della scienza riesce in cantici e inni; le ultime parole del veggente si confondono con gli osanna del cielo:

                                         Finito questo, l’alta corte santa
risonò per le spere un Dio lodiamo,
nella melode che lassú si canta.

     Siccome io tacqui, un dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e la mia donna
dicea con gli altri: — Santo, santo, santo. —
     

Cosi è sciolto questo mistero dell’anima. Adombrato ne’ simboli e allegorie del Purgatorio, qui il mistero è svelato: è la divina commedia dell’anima, il suo indiarsi nell’eterna letizia. La forza che tira Dante a Dio, si che sale come rivo,

                                    se d’alto monte scende giuso ad imo,      
è l’amore, è Beatrice, che all’alto volo gli veste le piume. Beatrice è in sé il compendio del paradiso, lo specchio dove quello si riflette ne’ suoi mutamenti. Puoi dipingerla quando prega Virgilio o quando, «regalmente proterva», rimprovera l’amante; ma qui è spiritualizzata tanto, che è indarno opera di pennello. La stessa parola non è possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile, se non ne’ suoi effetti su Dante e su’ celesti. Ecco uno dei piú bei luoghi:
                                         Quivi la donna mia vid’io si lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che piú lucente se ne fe’ il pianeta.
     
[p. 240 modifica]
                                         E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec’io, che pur di mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
     Come in peschiera che è tranquilla e pura
traggono i pesci a ciò che vien di fuori,
per modo che lo stimin lor pastura;
     si vid’io ben piú di mille splendori
trarsi ver’noi, ed in ciascun s’udia:
— Ecco chi crescerá li nostri amori. —
     

Spiritualizzato il corpo, spiritualizzata l’anima. L’amore è purificato: nulla resta piú di sensuale. Dante, che nel purgatorio senti il tremore dell’antica fiamma, qui ode Beatrice con un sentimento assai vicino alla riverenza. Quando ella si allontana, ei non manda un lamento: ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue pa role sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine, siccome, nel piccolo cenno che gli fa Beatrice, l’amore dell’uomo come ombra si dilegua nell’amore di Dio, ella lo ama in Dio:

                                         Cosi orai, e quella si lontana,
come parea, sorrise e riguardommi:
poi si tornò all’eterna fontana.
     

Come Dante non potè entrare nel paradiso terrestre a vedere il simbolo del trionfo di Cristo senza lo «scotto» del pentimento, cosí non può ne’ «gemelli» o stelle fisse contemplare il trionfo di Cristo che non dichiari la sua fede. Allora san Pietro lo incorona poeta, e «poeta» vuol dire banditore della veritá. San Pietro gli dice:

                                    E non asconder quel ch’io non ascondo.      

Cosi la Commedia ha la sua consacrazione e la sua missione. È la veritá bandita dal cielo, della quale Dante si fa l’apostolo e il profeta: è il «poema sacro». Con quella stessa coscienza della sua grandezza che si fe’ «sesto fra cotanto senno», qui si pone accanto a san Pietro e se ne fa l’interprete, congiungendo in sé le due corone, il savio e il santo, l’antica e la nuova civiltá, il filosofo e il teologo. [p. 241 modifica]

Dichiarata la sua fede, consacrato e incoronato, Dante si sente oramai vicino a Dio. Avea giá contemplata la divinitá nella sua umanitá, il Dio-uomo. Il trionfo di Cristo, la festa dell’Incarnazione, sembra reminiscenza di funzioni ecclesiastiche, co’ suoi principali attori, Cristo, la Vergine, Gabriello. Cristo e la Vergine sono, come nel santuario, invisibili; la festa è tutta fuori di loro e intorno a loro. Succede il trionfo degli angioli, e poi nell’empireo il trionfo di Dio.

L’empireo è la cittá di Dio, il convento de’ beati, il proprio e vero paradiso. Beatrice raggia si, che il poeta si concede vinto, piú che tragedo e comico superato dal suo tema, e desiste dal seguire

                                    piú dietro a sua bellezza poetando,
come all’ultimo suo ciascun artista.
     

Ivi è la luce intellettuale, che fa visibile

                                    lo Creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
     

La luce ha figura circolare, come il giallo di una rosa, le cui bianche foglie si distendono per l’infinito spazio, e sono gli scanni de’ beati. San Bernardo spiega e descrive il maraviglioso giardino. Il punto che piú splende è lá dove sono

                                    gli occhi da Dio diletti e venerati,      

dove è la Vergine e gli angioli. Quel punto è la pacifica orifiamma del paradiso, la bandiera della pace. Il giardino, la rosa, l’orifiamma sono immagini graziose, ma inadeguate. Queste metafore non valgono la stupenda terzina, dove san Bernardo è rappresentato in forma umana e intelligibile:

                                         Diffuso era per gli occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio,
quale a tenero padre si conviene.
     

Il paradiso, appunto perché paradiso, non puoi determinarlo troppo e descriverlo senza impiccolirlo. La sua forma adeguata è il sentimento, l’eterno tripudio: ciò che è ben còlto in quella [p. 242 modifica]plenitudine volante di angeli, che diffondono un po’ di vita tra quella calma. Il vero significato lirico del paradiso è nell’inno di {{AutoreCitato|Dante Alighieri|Dante} a Beatrice e nell’inno di san Bernardo alla Vergine, ne’ quali è il paradiso guardato dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo. I beati stessi diventano interessanti, quando tra quella luce vedi spuntare

                                                   ... visi a caritá suadi...
ed atti ornati di tutte onestadi,
     
o quando «chiudon le mani» implorando la Vergine.

Anche Dio ha voluto descrivere Dante, e vede in lui l’universo, e poi la trinitá e poi l’incarnazione, congiunzione dell’umano e del divino, in cui si acqueta il desiderio, il «disiro» e il «velle»:

                                    si come ruota che igualmente è mossa.      

Dante vede, ma è visione di cui hai le parole e non la forma; ci è l’intelletto, non ci è piú l’immaginazione, divenuta un semplice lume, un barlume. La forma sparisce; la visione cessa quasi tutta; sopravvive il sentimento:

                                                             ... Quasi tutta cessa
mia visione, ed ancor mi distilla
nel cuor lo dolce che nacque da essa.
     Cosi la neve al sol si disigilla;
cosí al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di sibilla.
     

L’immaginazione, morendo, manda in questi bei versi l’ultimo raggio. A1I’«alta fantasia» manca la possa; e insieme con la fantasia muore la poesia.

Cosi finisce la storia dell’anima. Di forma in forma, di apparenza in apparenza, ritrova e riconosce se stessa in Dio, pura intelligenza, puro amore e puro atto. Ed è in questa concordia che l’anima acqueta il suo desiderio, trova la pace. Nell’Inferno signoreggia la materia anarchica: le sue forme ricevono d’ogni sorte differenze, spiccate, distinte, corpulente e personali. Nel Purgatorio la materia non è piú la sostanza, ma un momento: [p. 243 modifica]lo spirito acquista coscienza di sua forza e, contrastando e soffrendo, conquista la sua libertá: la realtá vi è in immaginazione, rimembranza del passato da cui si sprigiona, aspirazione all’avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme sono fantasmi e rappresentazioni dell ’immaginativa anzi che obbietti reali: pitture, sogni, visioni estatiche, simboli e canti. Nel Paradiso lo spirito, giá libero di grado in grado, s’india; le differenze qualitative si risolvono, e tutte le forme svaporano nella semplicitá della luce, nella incolorata melodia musicale, nel puro pensiero. Quel regno della pace che tutti cercavano, quel regno di Dio, quel regno della filosofia, quel «di lá», tormento e amore di tanti spiriti, è qui realizzato. Il concetto della nuova civiltá, di cui avevi qua e lá oscuri e sparsi vestigi, è qui compreso in una immensa unitá, che rinchiude nel suo seno tutto lo scibile, tutta la coltura e tutta la storia. E chi costruisce cosí vasta mole, ci mette la serietá dell’artista, del poeta, del filosofo e del cristiano. Consapevole della sua elevatezza morale e della sua potenza intellettuale, gli stanno innanzi, acuti stimoli all’opera, la patria, la posteritá, l’adempimento di quella sacra missione che Dio affida all’ingegno: acuti stimoli ne’ quali sono purificati altri motivi meno nobili, l’amor della parte, la vendetta, le passioni dell’esule; ci è lá dentro nella sua sinceritá tutto l’uomo, ci è quel d’Adamo e ci è quel di Dio. A poco a poco quel mondo della fantasia diviene parte del suo essere, il suo compagno fino agli ultimi giorni, e vi gitta, come nel libro della memoria, l’eco de’ suoi dolori, delle sue speranze e delle sue maledizioni. Nato, a immagine del mondo che gli era intorno, simbolico, mistico e scolastico, quel mondo si trasforma e si colora e s’impolpa della sua sostanza, e diviene il suo figlio, il suo ritratto. La sua mente sdegna la superficie, guarda nell’intimo midollo; e la sua fantasia ripugna all’astratto, a tutto dá forma. Onde nasce quella intuizione chiara e profonda che è il carattere del suo genio. E non solo l’oggetto gli si presenta con la sua forma, ma con le sue impressioni e i suoi sentimenti. E n’esce una forma, che è insieme immagine e sentimento: immagine calda e viva, sotto alla quale vedi il colore [p. 244 modifica]del sangue, il movere della passione. E con l’immagine tutto è detto; e non vi s’indugia e non la sviluppa, e corre lievemente di cosa in cosa, e sdegna gli accessorii. A conseguire l’effetto, spesso gli basta una sola parola comprensiva, che ti offre un gruppo d’immagini e di sentimenti; e spesso, mentre la parola dipinge, non fosse altro, con la sua giacitura, l’armonia del verso ne esprime il sentimento. Tutto è succo, tutto è cose: cose intere nella loro vivente unitá, non decomposte dalla riflessione e dall’analisi. Per dirla con Dante, il suo mondo è un «volume non squadernato». È un mondo pensoso, ritirato in sé, poco comunicativo, come fronte annuvolata da pensiero in travaglio. In quelle profonditá scavano i secoli, e vi trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Lá vive, involto ancora e nodoso e pregno di misteri, quel mondo, che, sottoposto all’analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi «letteratura moderna».





  1. Ecco esempi di ariditá e di sottigliezze:
                                                                                     ... e quale io allor vidi
    negli occhi santi amor, qui l’abbandono (xviii, 8-9).
    E gli occhi avea di letizia si pieni,
    che passar mi convien senza costrutto (xxiii, 23-4).
         E tal nella sembianza sua divenne
    qual diverrebbe Giove, s’egli e Marte
    fossero augelli e cambiassersi penne (xxvii, i3-5).
         Poscia tra esse un lume si schiari,
    si che, se ’l Cancro avesse un tal cristallo,
    il verno avrebbe un mese di un sol di (xxv, i00-2).
         
  2. xxiii, 79-84.
  3. v, i33-8.
  4. xxiii, i-9.
  5. x, i39-44.
  6. iii, i22-3.
  7. xx, 73-5.
  8. ii, 3i-6.
  9. xxxi, 7-9.
  10. xxx, 6i-9.
  11. Vedi i canti xiii, ii, xxx, xxxiii, x, xxviii e xxix, xxvii, vii, xiv, xxv, xxvi.