Storia di Milano/Capitolo XVIII

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Capitolo XVIII

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[p. 60 modifica]Del governo del quinto duca Galeazzo Maria Sforza, e della minorità del duca Giovanni Galeazzo Maria, sesto duca

Quando uno Stato, anche vasto, sia accozzato insieme con male arti, con sorprese, con insidie, con tradimento, al morire del sovrano cessa il timore ne’ sudditi e ne’ vicini; e per poco che il successore sia debole o mancante d’artificio, si scompone, siccome avvenne della signoria che radunò il primo duca Giovanni Galeazzo. Ma quando per lo contrario la dominazione s’acquisti col valore personale, e si innalzi colla generosità delle virtù del sovrano, e siavi stato tempo bastante per imprimere nel cuore degli uomini la riverenza e l’amore che l’eroismo fa nascere, ancora dopo spento l’eroe, l’ammirazione e l’affezione de’ popoli aiutano il figlio, come parte viva di lui, e malgrado i difetti e la poca somiglianza che egli abbia col padre, lo coprono colla di lui gloria. Così accadde al nuovo duca Galeazzo Maria, il quale poco imitò il magnanimo suo padre. Uno de’ primi fatti di Galeazzo lo svela. La duchessa Bianca Maria, di lui madre, si era sempre dimostrata ottima moglie, ottima madre, donna di senno, di cuore e di mente non comune. Il duca Francesco perciò l’aveva onorata ed amata sommamente. Galeazzo doveva doppiamente il ducato di Milano a lei, e per nascita, e per l’accorgimento col quale aveva dirette le cose alla morte del duca Francesco; giacchè, qualora non vi fosse stata alla testa della signoria una donna del merito di lei, difficilmente Galeazzo Sforza, assente, [p. 61 modifica]avrebbe trovata aperta la via del trono, dove potè placidamente collocarsi. La Bianca Maria co’ saggi consigli e colla autorità regolava lo Stato unitamente al duca, quasi come correggente. L’ambizione, la seduzione di consiglieri malvagi fecero nascere la gelosia del comando; indi la visibile freddezza; finalmente la discordia palese tra il figlio ed una madre tanto benemerita. La vedova duchessa preferì la pace e il riposo ad ogni altra cosa, e divisò di portarsi a Cremona, città sua, perchè recata da lei in dote, siccome vedemmo; ed ivi, lontana dalle contese, passare il rimanente de’ giorni suoi, non avendo ella allora che quarantadue anni. Abbandonò la corte burrascosa di Milano; ma a Marignano con breve malattia terminò di vivere il giorno 23 ottobre 1468; e il Corio a tal passo soggiugne: se disse più de veneno che de naturale egritudine. Temeva il duca che, collocatasi a Cremona, ella potesse collegarsi co’ Veneziani a danno di lui. Simili orrori non sogliono avere molti testimonii, e lo scrittore contemporaneo non può trasmettere ai posteri se non la pubblica opinione. Talvolta una maligna voglia di penetrare ne’ misteri della politica segreta forma imputazioni calunniose alla fama altrui. Egli è però certo che tali nere vociferazioni non si spargono se non sopra di un principe di carattere non buono. Assolvasi Galeazzo dal parricidio, egli è sempre un ingrato verso di sua madre. Appena un anno dopo cessò di vivere Agnese del Maino, di lei madre ed ava del duca. [p. 62 modifica]

(1469-470) Il duca Galeazzo amava la pubblica magnificenza, e a tal fine comandò che si lastricassero le vie di Milano: il che non fu puocha graveza, ma quasi intollerabile danno, dice il Corio. Francesco di lui padre le fece riattare. Sarà stata una saggia provvidenza quella di lastricarle solidamente: ma tai riforme di lusso si fanno giudiziosamente e per gradi. (1471) La pompa del duca si palesò singolarmente nel maestoso viaggio ch’ei fece colla duchessa a Firenze l’anno 1471. Condusse egli un tal corredo, che oggidì nessuno de’ monarchi d’Europa penserebbe nemmeno a simile teatrale rappresentazione. Il Corio ce la descrive minutamente; ed io la racconterò, perchè simili oggetti danno idea del modo di pensare di que’ tempi. I principali feudatari del duca ed i consiglieri gli fecero corte, accompagnandolo nel viaggio con vestiti carichi d’oro e d’argento; ciascun di essi aveva un buon numero di domestici splendidamente ornati. Gli stipendiari ducali tutti erano coperti di velluto. Quaranta camerieri erano decorati con superbe collane d’oro. Altri camerieri aveano gli abiti ricamati. Gli staffieri del duca avevano la livrea di seta, ornata d’argento. Cinquanta corsieri con selle di drappo d’oro e staffe dorate: cento uomini di armi, ciascuno con tale magnificenza, come se fosse capitano: cinquecento soldati a piedi, scelti: cento mule coperte di ricchissimi drappi d’oro ricamati; cinquanta paggi pomposamente vestiti: dodici carri coperti di superbi drappi d’oro e d’argento: duemila altri cavalli e duecento muli coperti uniformemente di damasco per l’equipaggio de’ cortigiani. Tutta questa strabocchevole pompa andava in seguito [p. 63 modifica]del duca; ed acciocchè non rimanesse nulla da bramare, v’erano persino cinquecento paia di cani da caccia, v’erano sparvieri, falconi, trombettieri, musici, istrioni. Tale fu il fasto di quel memorando viaggio, che doveva recare incomodo ed ai sudditi del viaggiatore ed agli ospiti. Questa superba comitiva nell’accostarsi a Firenze venne accolta con somma festa e onore da quel senato. I nobili e i primari della città si affacciarono i primi: indi molte compagnie di giovani in varie fogge uscirono ad incontrare il duca; poi comparvero le matrone; poi le giovani pulcelle, cantando versi in laude de lo excellentissimo principe, dice il Corio. Indi, accostandosi alla città, ricevettero gli ossequi de’ magistrati; finalmente gli accolse il senato, che presentò al duca le chiavi della città. Entrò il duca con una sorta di trionfo, e venne collocato nel palazzo di Pietro dei Medici, figlio di Cosimo. Non accadde altra cosa degna d’essere raccontata; basti osservare che non poteva verun altro monarca essere onorato di più di quello che furono Galeazzo e la Bona in Firenze. Da Firenze passarono questi principi a Lucca; ove vennero accolti con somma pompa: anzi vollero i Lucchesi perfino aprire una nuova porta nelle mura della loro città, onde trasmettere ai tempi a venire memoria di questo magnifico ingresso. Da Genova poi ritornarono Galeazzo e la Bona a Milano. Oggidì, che i sovrani hanno nelle mani il potere per mezzo della milizia stabilmente stipendiata, non si curano più di abbagliare i popoli.

(1472) Poichè ritornò dal viaggio, il duca pensò a dare una moglie al di lui figlio primogenito Giovanni Galeazzo, bambino ancora di quattro anni. Questa fu Isabella d’Aragona, figlia del duca di Calabria [p. 64 modifica]Alfonso e d’Ippolita Sforza, conseguentemente germana cugina dello sposo. Queste nozze si pubblicarono l’anno 1472. Il duca era strettamente collegato col cardinale di San Sisto, nipote ed assoluto padrone di papa Sisto IV: l’oggetto della reciproca unione era la loro fortuna. Il duca doveva adoperarsi per fare papa il cardinale colla rinunzia dello zio. Il cardinale, asceso al sommo pontificato, doveva innalzare lo Sforza incoronandolo re d’Italia, ed aiutandolo a ricuperare tutte le città già possedute dal primo duca. I Veneziani non potevano essere contenti di un tal progetto che loro toglieva tutta la terra ferma. Malgrado lo studio di celare questa trama politica, convien credere ch’essi ne avessero qualche contezza. Il cardinale, ch’era stato magnificamente accolto in Milano, bramò di vedere Venezia; e quantunque cercasse di dissuadernelo il duca, egli volle insistere e passarvi. (1473) A tale proposito dice il Corio: da quello senato fu grandemente honorato, e per la intrinseca amicizia quale enteseno Veneziani havere lui con Galeazzo Sforza fu affirmato havergli dato il veneno; impero che in termine de puochi giorni, pervenuto a Roma, abandonò la vita. Io non sono mallevadore de’ sospetti di que’ tempi: bastano però per far conoscere qual fede e quanta umanità regnassero, se così si giudicava dei governi. (1474) In mezzo ai sospetti di veleno, in mezzo alle asiatiche pompe, in mezzo ai gemiti de’ popoli, oppressi dalla mole di tributi corrispondenti a quelle, l’anno 1474, il 15 marzo, venne a Milano il re d’Ungheria e di Boemia Mattia I. Egli s’era reso padrone dell’Ungheria, scacciandone Casimiro, figlio del re di Polonia, e s’ [p. 65 modifica]era impadronito della Boemia, scacciandone Giorgio Podiebrad. Egli era stato in pellegrinaggio a San Giacomo di Galizia, e passava di ritorno a Milano. Galeazzo, che stipendiava cento cortigiani e cento camerieri, e pomposamente vestivagli, alloggiò l’ospite nel palazzo ducale colla magnificenza e profusione degna di lui. Mostrò a quel re il suo tesoro, valutato due milioni d’oro, oltre le gioie, le quali valevano circa un altro milione. Il re Mattia chiese un prestito dal duca: ed egli gli fe’ consegnare diecimila ducati, ossia zecchini. Dopo lautissimo ed onorevolissimo trattamento prese commiato il re; e poich’egli fu nell’Ungheria, si lusingò il duca ch’egli avrebbegli concesso di comprarvi dei cavalli. (1475) A tal fine spedì nell’Ungheria Bernardino Missaglia, suo famigliare, con molta somma di denaro. Il re fece imprigionare il Missaglia, e tolsegli i denari confidatigli dal duca; a stento finalmente gli permise di ritornarsene a Milano: così narra il Corio. (1476) La fama della casa Sforza era giunta a segno che persino il soldano d’Egitto spedì al duca ambasciatori; e questi vennero a Milano nell’ottobre del 1476, accolti, alloggiati, regalati splendidamente dal duca. Il duca Carlo di Borgogna tentava d’impadronirsi della Savoia. Nè alla Francia piaceva questo, nè al duca Galeazzo; una bellicosa e potente nazione vicina non conveniva; e Galeazzo aveva di più per moglie Bona, principessa di Savoia. Il [p. 66 modifica]duca Galeazzo si collegò col re di Francia, indi spinse l’armata contro de’ Borghignoni; e felicemente gli Sforzeschi fecero ritirare i nemici fino alle Alpi. Il rigido inverno non permise di portare più oltre l’impresa; onde il duca Galeazzo ridusse a quartiere i soldati, aspettando la primavera per ripigliare la guerra e discacciare affatto dall’usurpato paese i Borghignoni, e ritornarsene a Milano, ove di lì a poco morì.

Le circostanze della morte del duca Galeazzo Maria Sforza ci sono minutamente trasmesse dagli scrittori di quel tempo; e siccome sono feconde nelle loro conseguenze, io non le ometterò. Gli storici di quel tempo ci hanno lasciata memoria degli auguri sinistri pe’ quali credettero presagita la sciagura di quel sovrano. Mentre il duca Galeazzo Maria trovavasi in Abbiategrasso, comparve una cometa, e questo è il primo infausto presagio. Il secondo fu che in Milano il fuoco prese nella stanza in cui egli soleva abitare. Ciò inteso, Galeazzo quasi più non voleva riveder Milano; pure vi s’incamminò, e mentre da Abbiategrasso cavalcava verso la città, tre corvi lentamente passarongli sul capo gracchiando, il che cagionogli tanto ribrezzo, che, poste le mani sull’arcione, rimase fermo; poi volle superarsi, e proseguendo venne a Milano. Così allora si pensava; e tali pusillanimità cadevano anche in uomini di coraggio militare, come era il duca. Conciossiachè l’uomo ardisce di affrontare un pericolo conosciuto, e cimentarsi contro altri uomini; ma contro potenze invisibili ed invulnerabili il sentimento delle proprie forze lo abbandona. Ai soli progressi della ragione siamo debitori noi viventi della superiorità nostra. Per lei siamo liberati da una inesauribile sorgente d’inquietudini; per lei finalmente [p. 67 modifica]sappiamo che la nebbia impenetrabile entro cui sta celato il nostro avvenire, è un benefizio della Divinità; e sappiamo per lei che la sommissione rispettosa ai decreti della provvidenza è il più saggio ed utile sentimento dell’uomo.

La vigilia di Natale, verso sera, il duca, secondo l’usanza, scese nella gran sala inferiore del castello, dove stava d’alloggio; ed a suono di trombe e con istupendissimo apparato vi scese colla duchessa Bona e co’ suoi figli. I due fratelli del duca, Filippo ed Ottaviano, portarono il così detto zocco, e lo collocarono sul fuoco. Gli altri tre fratelli del duca erano assenti. Ascanio, in Roma; e Lodovico e Sforza, duca di Bari, erano rilegati da Galeazzo nella Francia. Così si soleva in que’ tempi radunare la famiglia al Natale. Il giorno vegnente poi nuovamente radunossi con varii cortigiani, e il duca in circolo parlò della casa Sforza; e noverando i fratelli suoi, i cugini, i figli in numero di dieciotto, tutti di età fresca, osservò che per secoli non sarebbe finita. Pranzò in pubblico. Il giorno poi di santo Stefano dal castello s’incamminò a cavallo con tutto il corteggio per ascoltare la messa nella chiesa collegiata di detto santo, ove giunto, da tre nobili giovani venne con più pugnalate ucciso al momento. I congiurati furono Giovanni Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti. I due primi erano cortigiani del duca. Giovanni Andrea finse di voler far largo al duca; ed avventandosegli pel primo, lo ferì nel ventre, e gl’immerse nuovamente il coltello nella gola. Frattanto Girolamo lo trafisse alla mammella sinistra, poi nella gola, indi nelle tempie. Carlo, nel tempo stesso, nella schiena, e nella spalla lo colpì con due ferite, pure mortali. Il duca appena potè esclamare: oh nostra donna! e cadde all’istante [p. 68 modifica]là nella chiesa. Così terminò la sua vita di duca Giovanni Galeazzo, il giorno 26 dicembre del 1476, dopo dieci anni di sovranità, all’età di trentadue anni. La serie di questa congiura è nota, e si è anche più conosciuta col dramma: la Congiura contro di Galeazzo Sforza; tragedia di sentimenti grandi, arditi, liberi; piena di lezioni utili ai principi, utili ai sudditi; che ci rappresenta la tirannia co’ suoi tratti odiosi, il fanatismo pericoloso, quando anche nasca da nobili principi; che interessa e sviluppa un’azione che è la sola della nostra storia posta sul teatro, e la presenta col costume de’ tempi; tragedia che sgomenta le anime gracili, e scuote deliziosamente le energiche. La storia è adunque, che in Milano eravi un uomo d’ingegno, erudito, eloquente e di sentimenti arditi, che aveva nome Cola Montano: si dice ch’ei fosse Bolognese. Egli viveva col mestiere delle lettere, ed era un rinomato maestro, alla scuola di cui varii giovani nobili andavano per istruirsi. Taluno, assai versato negli aneddoti, mi asserì che questo Cola Montano fosse stato dileggiato dal duca Galeazzo Maria. Concordemente la storia c’insegna che Montano ne’ suoi precetti sempre instillava nel cuore de’ suoi nobili alunni l’odio contro la tirannia, la gloria delle azioni ardite, la immortalità che ottiene chi rompe i ferri alla patria, e la renda libera e felice. Egli animava gli alunni suoi a mostrare una virile fermezza, [p. 69 modifica]ad amare la vigorosa virtù, a cercar fama con fatti preclari. Poichè co’ discorsi e cogli esempi della virtù romana ebbe trasfuso il fanatismo nelle vene bollenti degli scolari, egli coglieva l’occasione che il duca colla pompa accostumata passasse davanti la scuola; e trascegliendo i più ardenti ed audaci, mostrava loro un Tarquinio nel duca, ed una mandra di schiavi, buffoni effeminati ne’ suoi magnifici cortigiani, veri sostegni della tirannia e pubblici nemici. Confrontavali co’ Cartaginesi, co’ Greci, co’ Metelli, co’ Scipioni romani. Giunti al grado del fervore al quale cercò di ridurli, collocò alcuni di essi al mestiere delle armi sotto Bartolomeo Coleoni, acciocchè imparassero a conoscere i pericoli, ad affrontarli, a ravvisare le proprie loro forze. Condotta la trama al suo termine, finalmente furono trascelti quei che egli giudicò più adattati; e furono appunto Giovanni Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti. Si pensò con un colpo ardito di liberare la patria, mostrando quando sarebbe facile l’impresa, purchè i cittadini si ricordassero soltanto d’essere uomini. Avanti la statua di sant’Ambrogio venne congiurata la morte del tiranno Galeazzo Maria, usurpatore del trono, oppressore della libertà che pur godevasi ventisei anni prima, nimico della patria, impoverita colle enormi gabelle ed insultata col lusso di un principe malvagio. Così formossi segretamente la trama, che scoppiò prima che alcuno ne sospettasse. Giovanni Andrea Lampugnano, appena fatto il colpo, cadde poco lontano dal duca, ucciso da un domestico ducale. Girolamo Olgiato, che aveva ventitre anni, si sottrasse col favore della confusione, [p. 70 modifica]e ricoveratosi presso di un buon prete, aspettava di ascoltar per le vie della città gli applausi per l’ottenuta libertà, ed impaziente attendeva il momento per mostrarsi come liberatore della patria. Ma udendo invece gli urli e lo schiamazzo della plebe, che ignominiosamente strascinava per le strade il cadavere del Lampugnano, s’avvide troppo tardi dell’error suo, perdè ogni lusinga, e venne imprigionato. Dal processo che se gli fece, si seppe la trama. Non mi è noto qual fosse il fine di Cola Montano. L’Olgiato morì nelle mani del carnefice con sommo coraggio. Il ferro che colui adoperava, era poco tagliente; ma egli animò il carnefice, e lo s’intese pronunziare queste parole: stabit vetus memoria facti. Bruto, Cromwel, Olgiato hanno fatto a un dipresso la stessa azione. Il primo viene spacciato per un modello di virtù gentilesca: il secondo ha la celebrità di un atroce ambizioso: il terzo non ha nome nella storia. Le circostanze decidono della fama, singolarmente nelle azioni violente, le quali si biasimano, ovvero si lodano a misura del male, o del bene che produssero poi. Il Corio, che ci lasciò descritto il fatto, era testimonio di veduta; e come cameriere ducale, era nel seguito del suo sovrano, quando venne ucciso. Ei ci racconta i vizi del duca, anzi i suoi delitti. Galeazzo interpellò un povero prete che faceva l’astrologo, per sapere quanto tempo avrebbe regnato. Il prete diegli in riscontro ch’ei non sarebbe giunto all’anno undecimo. Galeazzo lo condannò a morir di fame. Egli per gelosia fece tagliar le mani a Pietro da Castello, calunniandolo come falsificatore di lettere. Egli fece inchiodare vivo entro di una cassa Pietro Drego, che così venne seppellito. Egli scherzava con un giovine veronese, suo favorito, e lo scherzo giunse a [p. 71 modifica]tale di farlo mutilare. Un contadino che aveva ucciso un lepre contro il divieto della caccia, venne costretto ad inghiottirlo crudo colla pelle, onde miseramente morì. Travaglino, barbiere del duca, soffrì quattro tratti di corda per di lui comando, e dopo continuò quel principe a farsi radere dal medesimo. Egli avea un orrendo piacere rimirando ne’ sepolcri i cadaveri. Univa a tutte queste atrocità una sfrenata libidine, anzi una professione palese di scostumatezza, costringendo a prostituirsi anche a’ suoi favoriti quelle che cedevano alle brame di lui. Avidissimo di smungere danaro ai sudditi, gli opprimeva colle gabelle, non mai bastanti alle profusioni del di lui fasto. Oltre la splendidissima corte, teneva il duca Galeazzo Maria duemila lance e quattromila fanti stabilmente al di lui soldo. Il Corio dice ch’egli amasse gli uomini probi e colti, e fosse sensibile alle belle arti: io non trovo che tali inclinazioni sieno combinabili colle antecedenti, e sicuramente nessun vestigio ne è rimasto del suo regno. Egli fu ben diverso dal buon Francesco di lui padre! I fratelli Baggi, Pusterla e del Maino avevano ucciso Giovanni Maria Visconti, duca di Milano, in San Gottardo, e vennero applauditi. Il destino del Lampugnano e dell’Olgiato fu opposto. Credo che la gloria del duca Francesco, la prudenza della duchessa Bianca Maria, l’eccesso del fasto di Galeazzo, e la memoria delle miserie sofferte nell’interregno della repubblica sieno state le cagioni della diversità. Sì l’uno che l’altro attentato furono commessi nella chiesa; come nella chiesa, anzi nel più sacro momento del rito, un anno dopo a Firenze Giuliano de’ Medici ebbe il medesimo destino.

Il merito principale nell’aver conservata la città tranquilla [p. 72 modifica]in mezzo a tale scossa improvvisa, l’ebbe Francesco Simonetta, che si chiamava Cicho Simonetta. Egli era stato il primo ministro e l’amico del duca Francesco; uomo di Stato e di molta virtù, e tale che, allorchè Gaspare Vimercato, a cui Francesco in parte doveva e Milano e Genova, ardì parlargliene svantaggiosamente, il duca freddamente risposegli: essere tanto necessario a lui ed allo Stato Cicho, che s’ei morisse, ne avrebbe fatto fabbricare uno di cera. La vedova duchessa Bona lasciò che Cicho disponesse ogni cosa. Egli si servì del conte Giovanni Borromeo per tenere in calma la città. Il Borromeo possedeva la fiducia di ognuno, e il Corio dice che questo perhumanissimo conte era tanto abituato alla buona fede, che il pretendere da lui cosa alcuna contro la ragione, o contro la virtù, sarebbe stato lo stesso che volere strappare dalle mani d’Ercole la clava, suo malgrado. Fu tumulato Galeazzo Maria coll’ordinaria pompa ducale. La vedova lo fe’ vestire col manto d’oro; e fece chiudere nel sarcofago tre preziose gemme. Il figlio primogenito Giovanni Galeazzo venne proclamato duca, sebbene in età di sei anni. Simonetta abolì tutte le gabelle imposte recentemente. Confermò gli stipendiati. Fece compra di grano, e ne fece largizioni alla plebe, che penuriava; e ciò sotto nome della duchessa Bona, dichiarata tutrice del nuovo duca. Simonetta reggeva tutto come segretario di Stato.

V’erano due supremi consigli. Quello di Stato si radunava nel castello avanti il sovrano o la tutrice; quello di giustizia si radunava nella corte ducale di Milano. Lodovico e Sforza, fratelli del defunto duca, immediatamente dalla Francia, ove tenevali rilegati il fratello Galeazzo, volarono a Milano; lusingandosi, [p. 73 modifica]come zii del duca, di prendere le redini del comando. Simonetta li destinò con onore a presedere al consiglio supremo di giustizia. Fremevano vedendosi così delusi; ma il marchese di Mantova e il legato pontificio, venuti per ufficio alla corte di Milano, tentarono di calmare i loro animi; e restò concluso che si pagassero ogni anno dodicimila e cinquecento ducati a ciascuno degli zii del duca, e che si assegnasse a ciascuno un palazzo in Milano, e così uscissero dal castello. I fratelli del duca Galeazzo, zii del vivente, erano cinque, cioè Sforza, Filippo, Lodovico, Ascanio e Ottaviano.

(1477). Genova si ribellò. Dodicimila uomini vennero spediti per sottometterla. Se ne confidò il comando a Lodovico ed Ottaviano, fors’anco per allontanarli. L’impresa riuscì bene, poichè, malgrado la vigorosa resistenza de’ Genovesi, gli Sforzeschi se ne impadronirono; e il giorno 9 di maggio 1477 resero i Genovesi nuovamente omaggio al duca. Ritornarono a Milano Lodovico ed Ottaviano colla benemerenza di tale vittoria. Simonetta teneva l’occhio sopra di essi. Venne imprigionato un confidente di questi due principi, da cui seppe le trame che ordivano contro lo Stato. I due fratelli pretesero che il loro confidente venisse liberato; e ciò non ottenendo, posero mano alle armi, e sollevarono più di seimila persone in Milano. La duchessa e Simonetta stavasene nel castello; e in esso, dalla parte esterna, fecero entrare tutte le genti d’armi vicino a Milano, il che bastò per far deporre le spade. Ottaviano non volle fidarsi del promesso perdono, e se ne fuggì; e, giunto a Spino, vicino a Lodi, [p. 74 modifica]temendo di essere arrestato, si avventurò a passar l’Adda, e vi si affogò cadendo da cavallo, il che avvenne l’anno 1477. Egli aveva 18 anni; il di lui cadavere si ritrovò poi, e venne tumulato in Duomo. Simonetta fece formare un processo della sedizione, e risultò che gli zii del duca avevano tramato di togliergli lo Stato. Indi vennero relegati, Sforza, duca di Bari, nel regno di Napoli, Lodovico a Pisa, ed Ascanio a Perugia.

Sforza, trovandosi nel regno di Napoli, mosse il re Ferdinando in favor suo e de’ fratelli; e naturalmente la principessa Ippolita, sorella de’ relegati, vi avrà contribuito. Il re Ferdinando di Napoli animò i Genovesi a sottrarsi e prendere il partito degli esuli fratelli; animò gli Svizzeri a fare delle incursioni nel Milanese; Sforza duca di Bari, malgrado la relegazione, da Napoli passò nel Genovesato, ed ivi morì. (1479) Il ducato di Bari dal re di Napoli venne infeudato a Lodovico Sforza, detto il Moro, il quale con ottomila combattenti da Genova s’innoltrò nel Milanese, ed occuponne tutta la porzione sino al Po. Ciò accadde l’anno 1479. Lodovico però faceva dovunque gridare: viva il duca Giovanni Galeazzo, e protestava di aver mosse le armi in soccorso del nipote per liberarlo dalla tirannia del Simonetta e da’ cattivi consiglieri. Il duca era fanciullo di dieci anni. La duchessa Bona era una bella principessa, e non per anco avea passata l’età della debolezza, ed era più donna che sovrana. Eravi alla corte certo Antonio Trassino, ferrarese, uomo di bassi natali, e stipendiato come scalco; giovane però di ornata ed elegante figura, al quale la duchessa senza riserva confidava tutto ciò che si faceva dal Simonetta e nel consiglio. Il Simonetta, sendosene avveduto, trascurava quell’indegno favorito; [p. 75 modifica]ma non osava di più. Trassino, che si vedeva rispettato da ognuno e dal solo Simonetta disprezzato, lo abborriva. Questo Trassino fu il mezzo per cui Lodovico segretamente si riconciliò colla duchessa. Improvvisamente Lodovico staccossi dal suo esercito, e comparve nel castello di Milano il giorno 7 di settembre 1479; il che sorprese il Simonetta. La duchessa e il duca lo accolsero come un cognato ed uno zio amico, e venne alloggiato nel castello. Cicho Simonetta venne accolto da Lodovico con apparente amicizia e stima, come un vecchio ministro benemerito; ma egli non si lasciò ingannare, e nel momento in cui potè abboccarsi colla duchessa, le disse: Signora, io perderò la testa, e voi lo Stato. (1480) E in fatti, il giorno 30 di ottobre del 1480, a Pavia, gli venne troncata la testa all’età di settant’anni; al quale destino, sebbene ingiusto, si piegò colla costanza e magnanimità che doveva coronare la virtuosa di lui vita. Cicho era fratello di Giovanni Simonetta, autore della storia sforzesca. E in vita e in morte Cicho si mostrò degno di essere stato l’amico di Francesco Sforza. Si fecero allora i quattro versi seguenti:

Dum fidus servare volo patriamque ducemque,

Multorum insidiis proditus, interii.

Ille sed immensa celebrari laude meretur,

Qui mavult vita, quam caruisse fide.

Come poi venisse abbandonato a così indegno destino un ministro tanto illibato ed illustre, ce lo dice il Corio; cioè per la fazione de’ nemici, i quali giunsero a prendere le armi contra lo stesso Lodovico, avendo alla testa Federico marchese di Mantova, Guglielmo marchese di Monferrato, Giovanni Bentivoglio ed altri illustri personaggi, i quali obbligarono Lodovico a far imprigionare il [p. 76 modifica]Simonetta, che, malgrado la protezione e gli uffici di altri principi, venne abbandonato alla vendetta de’ nemici che gli avea conciliati la passata fortuna, e fors’anco la stessa sua virtù.

Poco tardò a verificarsi il rimanente del vaticinio del Simonetta. (1481) Il favorito della duchessa Trassino, accecato, siccome avviene alle anime basse, dalla prospera fortuna, mancando ai riguardi ch’egli doveva verso Lodovico, venne scacciato nel 1481, e portò seco a Venezia un tesoro di gioie e di denaro. La duchessa si avvilì talmente, che rinunziò a Lodovico la tutela con un atto solenne, sperando con ciò di rimaner libera, ed uscendo dallo Stato rivedere il favorito: ma il primo uso che Lodovico fece del potere confidatogli, fu d’impedirle l’uscita dallo Stato, e ad Abbiategrasso venne arrestata. Così Antonio Trassino, senza saperlo, fu quegli per cui la casa Sforza poi perdette lo Stato, i Francesi occuparono il ducato, gl’Imperiali gli scacciarono; e si formò un nuovo ordine di cose per tutta l’Italia, come in appresso vedremo. Le debolezze di una donna, e la bella figura di uno scalco fecero maggior rivoluzione nel destino d’Italia, di quello che non avrebbe fatto un gran monarca od un conquistatore.

(1482) L’Italia si pose in armi l’anno 1482, e per due anni ne sopportò i mali. Il re di Napoli Ferdinando e i Fiorentini erano collegati cogli Spagnuoli. I Veneziani, il papa e i Genovesi erano riuniti nel contrario partito. Il papa abbandonò poscia i Veneziani e si unì agli Sforzeschi. Non nuoce punto l’ignoranza di questi minuti avvenimenti guerreschi; anzi la scienza di essi è atta soltanto a caricare [p. 77 modifica]confusamente la memoria, a scapito degli avvenimenti degni della nostra attenzione. V’era in Milano un partito contrario a Lodovico il Moro; alcuni per compassione della duchessa Bona, altri per avversione al carattere ambizioso di Lodovico, altri per vendicare le ceneri del virtuoso Simonetta, altri in fine per la naturale lusinga di viver meglio. (1485) Venne cospirato di togliere dal mondo Lodovico Sforza; e fu concertato che il giorno 7 di dicembre l’anno 1485, venendo egli, secondo il costume, alla chiesa di Sant’Ambrogio, quivi fosse trucidato. Il colpo andò a vuoto; atteso ch’egli vi fu bensì, ma entrovvi per una porta alla quale non eranvi le insidie. Se ciò non accadeva, egli spirava trafitto come il fratello, come il duca Giovanni Maria, come Giuliano, fratello di Lorenzo de’ Medici. Non credo che i Gentili abusassero a tal segno de’ sacri templi.

(1489) Il duca di Bari Lodovico il Moro, poichè Giovanni Galeazzo, suo nipote, duca di Milano, giunse all’età di venti anni nel 1489, pensò di accompagnarlo colla principessa Isabella di Aragona, a cui era già stato promesso dal defunto duca. Ermes Sforza e il conte Gian Francesco Sanseverino furono destinati ambasciatori alla corte di Napoli per tal solenne inchiesta. Il Calco ce ne rappresenta la pompa. Erano questi accompagnati da trentasei giovani nobili milanesi. Fra essi vi fu una gara meravigliosa nel cambiare vestiti magnifici; chi dieci, chi dodici e chi sedici domestici conduceva seco, nobilmente vestiti di seta, con gemme e perle all’armilla del braccio sinistro. L’usanza di queste armille, ossia braccialetti gemmati, costava assai; poichè i padroni ne avevano al loro braccio del valore di settemila fiorini d’oro, ossia zecchini. Il Calco dice che veramente sembravano [p. 78 modifica]tanti sovrani, e portavano collane pesantissime d’oro della grossezza di un pollice. Questa comitiva giunse a Napoli, ed era composta di circa quattrocento persone. Tutto ciò che mostra il costume dei rispettivi tempi, debbe aver luogo nella storia. Perciò riferirò il magnifico pranzo che si presentò in Tortona alla sposa, a guisa di un’accademia poetica. Ogni piatto era presentato da una persona vestita poeticamente, e l’abito era relativo alla cosa che presentava. Giasone compariva portando il vello d’oro rapito in Colco. Febo offeriva il vitello rapito dalla mandra di Admeto. Diana poneva sulla mensa Atteone trasformato in cervo; e come la Dea avea cambiato un uomo in un animale, augurava che questi si trasformasse in uomo nel seno d’Isabella. Orfeo presentò diversi uccelli, ch’ei diceva essergli volati intorno per l’armonia della sua cetra or ora, mentre sull’Appennino cantava le divine sue nozze. Atalanta portava il cinghiale caledonio, da tanti secoli custodito, offrendo volentieri a sì illustre principessa quel trionfo, riportato in faccia di tutta la gioventù della Grecia. Iride venne poi offrendo un pavone tolto dal carro di Giunone, e rammentò il destino di Argo. Ebe, figlia di Giove e ministra di nettare ed ambrosia tolta dalla cena de’ Numi, porse i vini più pregiati. Apicio dagli Elisii portò i raffinamenti del gusto, formati di zucchero. I pastori d’Arcadia presentarono varie cose di latte, giuncate, ricotte, caci, ecc. Vertunno e Pomona posero sulla mensa frutti rarissimi, perchè era inverno. Poi le Najadi, Dee dei fonti, portarono pesci. Glauco portò frutti e pesci marini. Il Po, l’Adda, Silvano offerirono [p. 79 modifica]i pesci de’ fiumi e laghi maggiori. Terminata la mensa, proseguì uno spettacolo composto degli attori medesimi, allusivo alle nozze. I costumi erano allora, come si scorge, ingentiliti e quasi troppo ricercati e rimoti dalla natura. Però si conosce che generalmente doveva essere colta la nobiltà del paese, e sapere la favola e gustare la poesia. La maggior parte di questi personaggi presentò le vivande cantando versi appropriati. Ciò hassi dal Calco. La sposa da Vigevano venne al castello di Abbiategrasso; d’onde sul canale detto Naviglio grande passò a Milano il giorno primo di febbraio del 1489, accompagnata dalla duchessa Bona, dal duca di Bari Lodovico, da don Fernando d’Este e da molti altri signori e matrone della più illustre nascita, e dagli oratori di quasi tutt’i principi d’Italia. Il giorno 2 febbraio uscirono gli sposi dal castello in abito bianco; ed alle staffe eranvi il conte Giovanni Borromeo e Gianfrancesco Pallavicino, primari vassalli. Lodovico il Moro cavalcava in seguito alla testa dei principali ministri. Le vie erano tutte coperte dal castello al Duomo di parati magnifici. Così celebraronsi le nozze del sesto duca Giovanni Galeazzo Sforza. Queste nozze ci fanno dubitare che allora forse Lodovico non avesse in mente il progetto di usurparsi il ducato di Milano.

Lodovico reggeva lo Stato come governatore a nome del duca, e nelle monete eravi da una parte l’immagine del duca: Johannes Galeaz Maria Sfortia Vicecomes Dux Mediolani Sextus, e dall’altra l’immagine di Lodovico colla leggenda: Ludovico Patruo gubernante. Ma questo governatore sotto varii pretesti rimosse dalle fortezze i castellani affezionati del duca, e sostituì uomini interamente dipendenti da esso Lodovico. (1491) Poi pensò ad ammogliarsi; e l’anno 1491, [p. 80 modifica]al 31 gennaio, condusse a Milano la sua sposa la principessa Beatrice d’Este. Ella aveva diecisette anni, Lodovico contava il quarantesimo. Si fecero pompe grandissime per queste nozze, e il Calco le descrive. Allora l’abito de’ dottori collegiati era più allegro di quello che ora lo sia; purpureis vel coccineis togis fulgentes comparvero in quelle feste; e gli abiti delle matrone erano falcatis infra ubera pectoribus, ac pallio, ritu gabino, dextro ab humero lævum in latus subducto. Avevano le matrone un lungo strascico, ed era pomposo, elegante e grave il loro vestito, in guisa che ballavano con graziosa lentezza: modice et venuste, dice il Calco. Per questi sponsali si fecero pure magnifiche giostre; et il pretio de sì illustrata giostra per egregia virtute hebbe Galeazo Sanseverino e Giberto Borromeo.

Poste a convivere insieme le due principesse, cioè la duchessa Isabella e la principessa Beatrice duchessa di Bari, nacquero de’ dissapori. Isabella, come moglie del duca regnante, pretendeva d’essere sola sovrana; e che Beatrice fosse considerata suddita. Isabella era figlia di un re. Beatrice, moglie del tutore del duca, considerava la duchessa come la pupilla. L’avo d’Isabella era Ferdinando, nato da illegittima unione. Le meschine vicende della casa di Aragona nel regno di Napoli erano argomenti di cronologia contraposti all’illustre sangue estense. (1492) Il fatto di tai domestici partiti fu [p. 81 modifica]che Lodovico il Moro si rese padrone dell’erario, e passò a disporre il tutto da sè. Promuoveva alle cariche, faceva le grazie, appena lasciava al nipote il nome di duca. Il duca Giovanni Galeazzo e la duchessa Isabella scarsamente erano alimentati e penuriavano di ogni cosa, sebbene fosse già stata feconda la duchessa d’un bambino, nato in febbraio 1491. Posta in tale angustia la Isabella, trovò modo di renderne informato Alfonso, di lei padre. Il re di Napoli spedì a Lodovico il Moro i suoi oratori, i quali, con somme lodi innalzando quanto come tutore aveva fatto, conclusero chiedendogli che abbandonasse il governo dello Stato al duca Giovanni Galeazzo, che già contava il vigesimoterzo anno dell’età sua. Lodovico trattò con onorificenza gli oratori del re Ferdinando, avo della duchessa: ma sul proposito di rinunziare al governo non die’ risposta alcuna.

(1493) Dopo di ciò Lodovico il Moro attentamente osservava i movimenti del re di Napoli. Seppe che si allestiva un’armata contro di lui, e si preparava una flotta a cui doveva comandare Alfonso, padre della duchessa, principe valoroso e prudente. A un tal nembo avrebbe potuto resistere Lodovico colle forze proprie, se avesse potuto fidarsi de’ sudditi che governava. In ogni governo vi è sempre un buon numero di malcontenti, essendo le voglie de’ popoli sempre maggiori del potere sovrano; [p. 82 modifica]e questi malcontenti avrebbero abbracciato il partito del loro sovrano, l’oppresso duca Giovanni Galeazzo, di cui la condizione moveva a pietà, sì tosto che si fosse avvicinata un’armata a sostenerlo. Conveniva suscitare un potente nemico all’Aragonese re di Napoli, e distoglierlo così dal pensiero degli Stati altrui, per difendere il proprio. Carlo VIII, re cristianissimo, era nel bollore dell’età; aveva ventiquattro anni; amava le imprese grandi; era capace di riscaldarsi l’animo. Lodovico, che avea vissuto alcuni anni nella Francia e conosceva la nazione, formò il progetto di far prendere le armi al re Carlo, per ricuperare il regno di Napoli. Spedigli come ambasciatore Carlo Barbiano, conte di Belgioioso, il quale lo animò a scacciare da Napoli gli usurpatori aragonesi, e rivendicando le ragioni della casa di Angiò, unire quel regno alla corona di Francia. Il re aveva già in mente di frenare i Turchi, che minacciavano la cristianità: e nessun paese era a ciò più vantaggioso, quanto il napoletano. Oltre a ciò si rappresentò al re Carlo, che il denaro di Lodovico, le sue milizie erano agli ordini suoi; i desiderii de’ Napoletani erano per lui; i principi d’Italia, il papa, i Fiorentini, i Veneziani, tutti avrebbero favorita l’impresa. Così offerivasi a Carlo VIII di rinnovare nell’Italia la memoria di Carlo Magno. Già i Turchi minacciavano la Dalmazia e l’Ungheria. La gloria di salvare i regni cristiani era riserbata al primogenito fra i cristiani, il re di Francia. In tal guisa il conte di Belgioioso destramente persuase il re. Vinse colle maniere accorte e col denaro di Lodovico alcuni primari favoriti. L’impresa venne decisa, e il re, convocati gli Stati a Tours, pubblicò la guerra pel regno di Napoli; ed ivi anticipatamente distribuì i feudi di quel [p. 83 modifica]regno, e si appropriò il titolo di re di Gerusalemme e di Sicilia, oltre quello di re di Francia. Alcuni ministri francesi, per comandare più liberamente colla lontananza del re, applaudirono. Vi era chi conosceva non essere facile l’impresa; essere il re Ferdinando avveduto; essere valoroso Alfonso di lui figlio; aver essi il fiore della milizia al loro stipendio; essere tuttora dubbioso qual partito prenderebbero il papa, i Fiorentini e i Veneziani; doversi temere l’imperatore Massimiliano e il re di Spagna Ferdinando, pronti forse ad invadere la Francia, se ella rimaneva sprovveduta.

Lodovico si adoperò per togliere le dissensioni fra Massimiliano imperatore e Carlo VIII. Senza di ciò poteva il re cristianissimo venir costretto a retrocedere per difendere la Francia. Massimiliano era animato contro il re Carlo, che gli aveva ripudiata la figlia, e tolta la sposa ed una provincia. Lodovico cominciò a dar timore a Massimiliano, che Carlo VIII in Roma non si facesse incoronar dal papa imperatore; giacchè quell’augusto non per anco avea fatta cotesta cerimonia. Indusse il re Carlo ad usare tutti gli ossequi all’imperatore. Finalmente Lodovico coll’imperator Massimiliano concluse di dargli in moglie la principessa Bianca Maria di lui nipote, figlia del duca Galeazzo. Concertò coll’imperatore di essere egli dichiarato duca di Milano; e quattrocentomila fiorini d’oro, ossia zecchini, vennero pagati all’imperatore. Le nozze della Bianca Maria seguirono nel Duomo di Milano il giorno l° dicembre 1493, avendo qua spediti i suoi procuratori Massimiliano. Così Lodovico liberò il re Carlo dal timore di una sorpresa de’ Cesarei. Colla Spagna pure seguì l’accordo; per cui si cedettero a Ferdinando ed Isabella Perpignano e Roncilione. Assicuratosi per [p. 84 modifica]tal modo Carlo VIII la quiete interna, si dispose a passar le Alpi. Lodovico il Moro era un usurpatore, ma lo era grandiosamente. Egli si era sottratto alla morale, ed erasi scelta per giudice quella funesta ragion di Stato, che suol preferire i misfatti illustri alla oscura virtù. Arbitro fra l’imperatore e il re di Francia, dà una nipote per moglie al primo; fa passare il re nell’Italia. La scena ch’ei rappresentò sul teatro di Europa, è da monarca assai superiore alla condizione di un semplice duca di Milano. Poichè il re Ferdinando di Napoli vide il fulmine che stavagli imminente, spedì a Lodovico il Moro Camillo Pandone, pregandolo acciocchè volesse allontanare il re Carlo dalla impresa, e promettendogli di essere pronto dal canto suo a guarentire a Lodovico tutto quello che più gli fosse piaciuto pel Milanese. Il conte Carlo di Belgioioso da Parigi volò in cinque soli giorni nella Lombardia; ed a nome del re di Francia venne a proporre a Lodovico una perpetua confederazione, offerendogli anche il principato di Tàranto. Ma il saggio conte, da ministro fedele, cercò di sconsigliare Lodovico, mostrandogli l’incertezza della impresa e il pericolo dell’Italia e suo, qualora mai riuscisse. Lodovico, accettando i consigli del conte e le offerte del re Ferdinando, avrebbe potuto gloriosamente usurpare il dominio; egli volle nondimeno persistere nel primo impegno. Perchè poi ricusasse quell’ottimo partito e preferisse una guerra pericolosa al godimento tranquillo dello Stato, non lo dice la storia. Forse egli non si fidò del re Ferdinando, nè [p. 85 modifica]delle forzate offerte di lui; sicchè, passato il timore, non dovesse nuovamente vederselo nemico. Forse egli ascoltò le personali passioni più che non si conviene ad un sovrano; e l’odio contro la casa di Aragona, o la benevolenza verso gli amabili Francesi, presso i quali era vissuto, prevalsero ai sentimenti che doveva adottare come uomo di Stato. Il vero motivo non si sa: unicamente ci è noto che Lodovico promise al re Carlo di Francia cinquecento uomini d’arme, quattro navi, dodici galere, il suo erario e la sua persona. (1494) Inutilmente il papa Alessandro VI spedì emissari nella Francia per frastornare la venuta del re. Lodovico se ne avvide: ed animò il re Carlo a non differire, acciocchè i Napoletani, il papa e i Fiorentini non avessero tempo di radunare un’armata e disputargli i difficili passi degli Appennini. Il re Carlo VIII si ritrovò in Asti il giorno 11 di settembre 1494. Poi, il giorno 14 ottobre, nel castello di Pavia venne magnificamente accolto da Lodovico il Moro. Ivi il re visitò il duca Giovanni Galeazzo, ammalato di consunzione, e non senza qualche suspecto, dice il Corio; l’infermo raccomandò alla pietà del re Francesco suo figlio e la duchessa sua moglie; e fra pochi giorni terminò la sua vita al 22 ottobre nella età di venticinque anni. Il di lui figlio Francesco poi visse nella [p. 86 modifica]Francia e fu abbate di Marmoutiers. Lodovico somministrò al re non poca somma di denaro. Corio dice della morte del duca, che parve ad ognuno crudele cosa che, non attingendo anche il vigesimoquinto anno di sua etate, come immaculato agnello, senza veruna causa fusse spinto dal numero de’ viventi. Il re di Francia si mostrò sensibile a tal morte. Volle in Piacenza, ove lo seppe, onorare il defunto con funerali, e vestì gran numero di poveri col danaro suo; il che fu forse cagione onde fosse da Lodovico fatto trasportare in Milano e tumulare in Duomo colle cerimonie consuete l’infelice nipote, che fu il sesto duca di Milano; non perchè abbiavi comandato giammai, ma perchè ne portò il titolo; e le monete coniate ed i diplomi spediti furono in di lui nome e colla di lui effigie.