Tacito abburratato/V. - Discorso decimo

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IV. - Discorso settimo
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V

DISCORSO DECIMO

Argomento.

Fine anni Poppaeus Sabintts concessit vita, modicus originis, principum amicitia consulatum ac triumphale decus adeptns; maximisque provinciis per quatuor et viginti annos impositus, nullam ob eximiam artem, sed quodpar negotiis, neque supra erat. ( Annalium, liber VI).

Alla madre di Apollonio tianeo, mentre era gravida di lui, comparve in sogno Proteo, e cosí le disse: — Me medesimo tu, o donna, partorirai: cioè a dire, in quella guisa ch’io far posso tutto ciò ch’io voglio, perciocché ogni cosa e fiera ed uomo ed acqua e pietra e fuoco posso farmi, cosí ancora sia che da te nasca un uomo, il quale col sapersi confrontar con tutti i luoghi e tempi e affari e geni, essendo al tutto eguale, avrá l’arbitrio in mano pur d’ogni cosa. — Or, per avverar il vaticinio, quale fu egli? Fu Apollino un di que’ saggi, sopra cui l’antichitade piú che sopra qualunque altro, inarcò le ciglia. Mischiò insieme pratica e speculativa con sí nobil tempra, che divennero fomento, non impedimento l’una dell’altra. Scorse il mondo al pari di Alessandro, ma non pago, come questi, di girarne sol la superficie e porlosi sotto le piante, con perfezione di conoscimento penetrollo nel midollo, e messolosi in capo, quindi trasse l’arte di esser nuovo Proteo con esser tutto.

E cotale abilitade oserá Tacito cacciarla da quell’arti, che del titolo di egregie ed eccellenti vanno superbe? nulla eximia arte sed quod par negotiis, nec supra erat? E qual mai fu l’arte sí miracolosa che potè con essa un gran profeta toglier [p. 236 modifica] sue ragioni a morte, fuor che il combaciarsi tutto a parte a parte col fanciullo che giacea spento? Ed onde ha l’occhio l’esser gemma delle nostre membra, e l’esser non men mondo piccolo dell’uomo, che sia l’uom del mondo, fuorché dal saper la sua pupilla, niun colore avendo, adattarsi a tutti, e con un punto nero egualmente pareggiarsi alla circonferenza di gran cielo e di stretto anello? Quindi i concetti e le parole nostre allora solamente sono meritevoli del piú bel nome che abbellisca Iddio medesimo, ch’è l’esser vere, quando sono queste a quelli e quelli a’ concepiti oggetti con proporzionata paritade corrispondenti. Ed onde ha l’intelletto umano il titol quasi di divino, fuorché dal poter egli omnia fieri, ad ogni cosa pareggiandosi, giusta il filosofo?

Vediam, signori, se vi aggrada, l’ammirabil pregio di quest’arte, prima dalla malagevolezza, per cui ella solamente dall’uom saggio come somma de’ suoi vanti vien posseduta, poi da la felicitá e miseria umana, che al possesso o privazione di essa suole seguire. Necessario si è a quest’arte il malagevolissimo conoscimento di se medesimo. Perciocché chi pari mai può esser ad una faccenda, s’egli non misura prima, e poi raffronta ad essa le forze sue? Ante omnia necesse est se ipsura aestimare, dice Seneca, quia fere plus nobis videmur posse quam possumus.

Nonnio panopolitano, conciosia che si sentisse bulicar in capo un iperbolico cervellonaccio, che nel cavo della luna far potea da capitan Cardone, misurando il proprio suo talento, a che appigliossi? A cantar di Bacco, cioè a dir di un Dio che, quando prende a far le sue prodezze in capo a un uomo, fa un pallon del mondo stesso per trastullarsi. Ma poi che avrá l’uomo conosciuto se medesimo, non è perciò ch’ei facilmente riuscir debba a varie cose proporzionato. La Natura, come sia determinata ad unum, per lo piú non dona all’uomo abilitá per piú di un mestiere, anzi a ben guidarne un solo d’ordinario piú persone fan di bisogno. In ordine allo stesso fine l’uno è provveduto solamente di fecondo ingegno per trovare i mezzi, e l’altro, che d’invenzion mancando, nella scelta è fortunato, [p. 237 modifica] ha però d’uopo poscia di piú attivo, e piú vivace, che metta in opra; ciò accadendo nelle azioni umane, che gli egizi costumavano nel fabricar le statue, mentre ad un artefice del capo, all’altro della mano, del busto all’altro davan cura, commettendo poscia que’ distinti pezzi con aggiustatissima corrispondenza. Fatto sta, che ad esser pari alle faccende, oltre le forze, deesi aver anche riguardo del decoro, conciosia che molte volte sia possente di far l’uomo ciò ch’ei far non deve.

Cosí il can magnanimo dal re dell’Albania donato ad Alessandro il grande, come che atto si sentisse troppo bene a vincer gli orsi e i cinghiali, non per tanto disprezzandoli, come alla dignitá del suo coraggio non proporzionati, riserbò solo al lione e al liofante l’arricciar de’ velli, il tonar latrando, lo scagliarsi e azzannare e con lotta vincere. Dono veramente degno di quell’Alessandro, il quale anch’egli solamente quando vide torreggiarsi inanti sopra un elefante il gigantesco e regio Poro, disse: — Tandem par animo meo periculum video. Cum bestiis simiul, et cum egregiis viris res est. — Che direm noi per contrario di quel Domiziano, che non pescator di regni, come Policrate, ma di mosche cacciatore, meritava di esser, qual canina mosca, via cacciato appunto dall’impero, mentre, pur qual mosca, nella tavola del mondo porsi sul boccon piú prezioso, che fu Roma, gli era riuscito? Che direm di quella grinza e iscanfarda e fetida vecchiaccia, contro cui si stomaca il satirico, poich’ella, niun riguardo avendo alle montagne delle spalle e alle concave e arate delle gote, usurpava amoreggiando quel ζοή καί ψυχή, (vita e anima, vuol dire), solo a giovanetti e teneri amator concesso, qualor voglion render le amorose gioie piú spiritose? Che diremo di quel duca mantovano, il quale, intento a misurare i piedi e accordar le voci quando si doveano por le schiere in ordinanza, componea sonetti e gli metteva in musica, nel tempo stesso che i nemici, acciò anche musico pregiato e ottimo poeta in esser povero apparisse, stavangli occupando il Monferrato, e poi, le chiavi dello stato per sé tolte, a lui lasciavan quelle della musica, e le lor vittorie festeggiavan con le leggiadrissime canzoni ch’ei [p. 238 modifica] componeva? Certamente niun di questi è da chiamare eguale a ciò ch’essi faceano, mentre non doveano farlo, benché sapessero.

Oh, tu stringi in troppo brieve numero di affari il saggio, se tu vuoi, che ne’ negozi egli non pure abbia riguardo alle sue forze, ma eziandio al suo grado. Dove per contrario dee poter in lui ciascuno ritrovar, non falsamente, come in palagio dell’incantatore Atlante dall’Ariosto finto, ma veracemente ciò ch’egli brama. Omnibus omnia factus sum, diceva san Paolo, vera norma della vera sapienza: con miglior ragione assai, che non diceva Ovidio: Formasque apte fingetur in omnes.

Né ciò alla maniera solamente de’ sofisti, che mostrando di esser pari a tutto, come Gorgia allor che nel teatro disse: — Proponite quicquid libuerit, — altro non han poi del personaggio, che vestir pretendon, fuori che la scorza, ma cosí fondatamente, che derivin le operazioni diversissime, ch’egli produce a pro de’ propri o altrui vari bisogni, da principio interno; in quella guisa, che da un solo sasso della Tracia scaturiscono trentotto fonti, parte caldi parte freddi, e perciò adattati a stomachi e a sete di tutte guise, simbolo per certo dell’uom saggio, vivacissimo sopra di ogni altro. Or non niego io, che convenga al saggio di esser tutto a tutti, ma che ciò sia contro il suo decoro, questo sí niego. L’uom volgare, perciocché né sa far pari se medesimo alle cose, né le cose a sé, sol dee por mano a quelle, che Natura, o ver Fortuna, adattò al suo grado: all’incontro il saggio tenga pur in mano od oro o argento o creta o bronzo, di ogni cosa Fidia nobilissimo saprá far Giovi. Omnis Aristippum decuit color. Si disdice a principe obbligato a scettri il trattar lire e formar canti, se in Neron ciò miri, che l’adopera come giullare; ma non si disdice in Alessandro, che a cantar d’Achille, e quindi a trarne piú coraggio che dagli oricalchi il suo Bucefalo, sol se ne vale. Qui mirava quei che disse, senno non minor richiedersi nell’ordinanza di un convito che di uno esercito, quasi stromenti e campo da mostrarsi generale esperto possano essere non meno i piatti e i bicchieri che gli scudi e l’aste, o ver la mensa che la [p. 239 modifica] campagna. Porgerai alla virtú del saggio teatro angusto? Anche in pochi palmi un Polifemo ei saprá dipingere. Cercherai con le ricchezze vincer del suo animo la moderazione? Argento utetur tanquam fictilibus. Premerai con povertá del suo cuor l’altezza? Fictilibus utetur tanquam argento. Gli darai vilmente a custodire, come a quel di Luciano, le cagnoline? La viltá torrá al mestiere, come tolta al carcere da Socrate fu l’ignominia.

E ciò onde sommamente appare, quanto cosí nobile arte giovi a far beato, si è che il saggio, solamente suo posseditore, per suo mezzo opera questa sí utile, ma poco meno che impossibil maraviglia del sapersi convenir con cose tanto differenti, cosí agevolmente, ch’egli è come il pesce stella, il quale suol render molli le piú dure cose, sol ch’ei le tocchi. Nulla è tanto insuperabile alla forza, che non possa restar vinto dalla destrezza. Que’ smisuratissimi elefanti, che agli arieti de lo stesso Pirro poliorcetico starebbon saldi piú che del guardingo Acrisio la ferrata torre, annodati dalle spire dei pieghevoli serpenti vanno per terra. E quel fiume, che se tu l’affronti in un sol letto, scuote alteramente il giogo de’ piú forti pomi, e inghiottirebbe a un sol sorso un’oste intiera, benché fatta tutta d’ippomedonti, scematagli da Ciro la possanza col moltiplicarli i rami, fatto si rimira scherzo e scherno a’ piedi delle donzelle. Tutto sta l’aver non meno l’animo pieghevole, che s’abbiano ammirabilmente i taprobani le ossa, in ritrovar la vena nello affar che si maneggia, come chi trovatala in un sasso il frange, benché sia durissimo, col nudo pugno. Le pitture vogliono essere riguardate alla propria luce, le faccende vogliono essere prese nel proprio verso. Il quadro di Passone, se i! voltavi per un capo ti rappresentava un bel cavallo voltolantesi per terra nella polve con le gambe all’aria, se per l’altro, un corridor ne’ giuochi olimpici volante per la meta, e coronato dalla polve ch’ei facea sorgere con le sue piante. Ma qual Giove omerico giammai con occhio sí sagace e destro riguardava ora alla Tracia e or a’ Misi, come il saggio tutto a un tempo, a conseguire la sudetta agevolezza, mira le [p. 240 modifica] occasioni, le persone, i luoghi, e tutte le altre circostanze nell’operare? Se gli affari, ch’egli ha per le mani, sono vari, ei per adattarsi ad essi ha tutti que’ colori, onde la volpe si pregiava di aver l’animo fregiato quando il pardo facea pompa innanzi ad essa delle macchie della sua pelle.

Le ceraste hanno il color di quell’arena, sopra cui serpeggiano, onde contro lor piaghe non è riparo. Il saggio, col confarsi al luogo dov’ei si trova, tocca sempre il segno dove ha la mira. Né è pericol mai, ch’egli si lasci uscir di bocca, come scioccamente sacciutello disse Isocrate, trovandosi a un banchetto, e intento a romper il silenzio: — Le cose, dove io vaglio, non son qui proporzionate, e in quelle che qui son proporzionate, nulla vagl’io; — perch’il saggio è nuova e ingegnosa iena, che sa esser ora femina ed or maschio, nell’usar ora la fortezza ora la piacevolezza secondo i luoghi.

Ma oltre ogni altra cosa, a conseguir cosí grande arte egli ha riguardo alla qualitá del tempo e delle persone. Quanto a queste egli non cede punto agli amatori, che per testimonio di Plutarco fanno a tutti i giovani adattare un titolo proporzionato, nominando il pallido melato, virile il negro, il candido figliuol de’ dèi. Cosí anch’egli co’ millantatori canterá di Orlando, metterá Aristotele o Platone in catedra tra letterati, con gli amanti avrá il Petrarca, e il Ramusio co’ marinari. Se gli si ribelleranno i servi, avrá flagelli e scuriade per domarli, piú che brande od aste, non men de’ sciti. Se contradirángli i regi, vinceralli nella lite, senza aver bisogno poi di via fuggirsi come il segretario di quel re di Spagna: perciocché saprá nel contradir valersi di maniera al pari amabile di quella di Favorino, a cui Filostrato quasi a miracolo attribuisce il saper lui contender con l’imperatore e vincerlo, senza perciò far perdita della sua grazia. Non incontrerá giamai la nota data da Luciano a quel filosofastro, che in convito nuziale alla presenza degli sposi biasimava il prender moglie o commendava raccomunarla, e da Tacito a quell’altro sputasenno, che negli squadroni, giá schierati a fronte, giá ubriachi dal desio del sangue, pretendea con lezioni di moral filosofia spianar le tumide procelle [p. 241 modifica] dell’irascibile. Ma per ispianarsi la conquista, tanto nobil quanto malagevole, dell’esser par negotiis, l’osservazion de’ tempi sopra tutto gli fa profitto: pregio che, sí come sopra ogni altro, che il facesse dio della destrezza, era vantato da Mercurio con la lira di tre corde, le stagioni tre dell’anno simboleggianti, cosí ancora piú di ogni altro facea meritare il titolo di dèi a’ re di Persia, che col far la primavera in Susa, il verno in Babilonia, la state in Media, di saper accomodarsi e osservar i tempi significavano. Sa ben egli, come che non abbia quelle sette anella, che segnate col vocabolo di sette stelle Apollonio in dito variavasi, secondo ch’era ciascun di essi anelli con ciascun de’ giorni della settimana caratterizzato (dono fattogli dal re Iarca): sa ben egli, dico, riconoscer di ogni tempo e di ogni congiontura l’ascendente predominante. Onde se Tetide amerá d’indurre Achille a vestir gonna, meglio egli di ogni altro la consiglierá a tentar l’impresa, non quando il feroce giovinetto ancor si gira in mente la spelonca e i virili ammaestramenti di Chirone e le inumane fiere de’ boschi Tessali, ma quando, fittaglisi giá nel cuore la sembianza dilicata della bella Deidamia, conosce altro partito, ad ottenere di esser uom con essa, non trovarsi piú adattato che l’esser donna; posciaché, se prima, qual cavallo che, per lungo tempo avezzo a libero diletto di campagne e boschi, sdegna sottometter al signoril morso l’alta cervice, lui ancora inesorabil rende

          genitorque roganti,
          nutritorque ingens, et cruda exordia magnae
          indolis:

combattuto per contrario dalla madre quando giá l’amata il vince,

          mulcetur, laeiusque rubet, visusque superbos
          obliquat, vestesque manu leviore refellit.

Credi tu, che s’ei di notte avrá da andar furtivo tra nemici a luna piena, qual Eurialo vestirá armatura lucida e tersa? Credi tu, che ritrovandosi col principe, cum venari volet ille, poemata [p. 242 modifica] panget? Non certamente, perciocché egli ha appreso da destrisbiuia prudenza, che se nella natural filosofia dal tempo si misura la prestezza o la tardanza delle cose, il medesimo la lor avversitá e prosperitá misura nella morale; onde, tutto che la poesia sia per se stessa cosa cosí dolce, che ha piú di una volta poste le api sulle bocche de’ poeti, non per tanto, usata fuor di tempo, è cosí amara, che Giuvenale dopo aver esaggerato una compiuta Iliade di miserie, non seppe a tanti mali imporre per epilogo, che in brieve giro racchiudesse il valor di tutti, altro che recitantes Augusto mense poëtas. Nelle Vite de’ Sofisti, da Filostrato leggiadramente scritte, Alessandro, un di essi, introduce in una declamazione un tale, il quale vedendo che gli sciti, dopo che, lasciata la primiera usanza dell’aver per patria il mondo, s’erano in cittá fermati, anch’essi s’ammalavan tutti, tra moltissime ragioni, onde si studia ricondurli al costume antico della vagabonda vita, questa dice loro: — Concreto Istro ad meridioni tendebam, soluto auleta ad septemtrionem pergebam incolumi corpore, et non prout nunc affecto. Quid enim grave pateretur homo, qui horas sequitur? — Io, tirando ciò secondo il mio proposito, dirò altresí: e che di grave, di difficile, o di disastroso può avvenir ad uomo, che seguir sa l’ore, cioè a dir che sa servir a’ tempi? Servitú con cui tu lor comandi, niente men che si facessero i bracmani a’ que’ due dogli, l’uno in sé accogliente i venti, l’altro le piogge, de’ quali, giusta che voleano le giornate torbide o serene, sapean valersi: onde in quella guisa, che Plutarco assomigliò alla tramontana il lusinghiero, che in qualunque parte, o sia levante od occidente od austro vogli scior la vela, sempre soffia a tuo favore, cosí ancora per qual via che il saggio par negotiis ami di guidarli, egli si sa render ogni vento tramontana, cioè a dir sa prenderlo in maniera, che lo ha propizio. Dicono i distillatori, non trovarsi cosa sí arida o sciapita, che per via di fuoco non si possa estrarne ed olio e sale ed acqua. Dirò anch’io, non ritrovarsi cosí rea faccenda, che col prenderla pe ’l verso, riguardando alle persone, a’ luoghi, a’ tempi, l’uom accorto buona in qualche modo ed utile non se la faccia. Eumelo elèo nei [p. 243 modifica] giuochi delfici armonia piú dolce assai trar seppe da una cetra logora di legno vile, che Evangelo da una tutta d’oro, tutta di gemme. — Guai a noi, posciaché Serse è tanto che fan velo al sol le sue saette, — dice il Trachinio; — Buon per noi, che all’ombra combatteremo, — risponde Dienece. Ecco un uomo, che da nembi gravidi di morte sa cavar stromenti di amenitá. Spinge Faraon deluso dietro i fuggitivi ebrei gli egiziani armati per farne strage. Ecco di quelle armi stesse, che portavano le loro offese, fanno al petto e al capo le difese lor gli ebrei dopo di averne dispogliato gli annegati persecutori. Chi di genio mai piú tetro o malinconico di Euripide, che non mai si aggira fuor che co’ suoi tragici coturni intorno a sangue e lutti e ombre e ferri e veleni e morti? E pure il facetissimo Aristofane nelle sue Cereali sa in ridicolo mutarlo in guisa, che servir potrebbe per decano de’ buffoni in qualunque corte. Non è da meno certamente il par negotiis nel sapere, ape ingegnosa, trar dal timo amaro mele soave. Per lo che egli può non men chiamarsi pienamente fortunato, che chiamar si possa pienamente sano chi è possente a far di ogni malvagio cibo perfetto sangue. Questa è l’ammirabile arte, con la quale Socrate, dopo di aver per la cittá, camaleonte saggio, per curar ogni costume, ogni color vestito, riportava però sempre a casa il volto stesso (come dice Seneca) con cui ne uscí; senza che l’aver giovato agli altri punto avesse nociuto a lui. Questa è la stupenda gloria della nave trionfai di Magaglianes, la qual dopo aver nella vastezza dell’oceano e del mezzogiorno aperto per lo mar sentieri non piú solcati, girò il mondo, e per opposto calle si ridusse dal levante a’ lidi sivigliani, quivi le ancore gittando, ove giá sarpolle. E perché solcando tutta la rotonditá dell’elemento, a contrasti d’onde e venti ed uomini, agli assalti di non piú veduti mostri, all’influenza di non piú provate stelle pari riuscí, di vittoria degnamente guadagnò il nome.

E ben oggi ancora saprei io tal nave proveder, se bisognasse, di nocchiero di lei degno, qual sarebbe alcuno, troppo a me ben noto, che sa tutto a un tempo regger di negozi un [p. 244 modifica] mondo, robusto Atlante, e quasi gentil moro giocare le canne, aver l’occhio, non pur alle vele, ma alle banderuole ancora nelle tempeste, pettinar la zazzera, ed entrar nella battaglia, come gli spartani, cioè a dir con generosa sprezzatura; come il taprobano, che secondo il siculo Diodoro ha divisa lingua, tutto a un tempo favellar di gale con le dame, di ragion di stato co’ politici, ordinar conviti in un giardino quando egli dispon maneggi per tutto un mondo, scherzar co’ giovanetti de’ piacevoli negozi degli amori iloro quando picchiatigli all’orecchio i pesantissimi interessi de’ piú gran prencipi. Per contrario vedasi alcun’altro, che, per non marcir nell’ozio, voglia anch’egli far faccende: sí impacciato, avviluppato, tribolato scorgeremlo dal trovarsi senza questa pregiatissima arte di esser par negotiis, che dipender da lei sola la civil felicitade non negheremo. Quel nemo sua sorte contentus, fonte di ogni nostro male, per cui optat ephippia bos piger, arare caballus: nasce forse altronde, che dall’essere negotiis impar? Perciocché per tal disparitá non ritrovando l’uomo in un negozio quel riposo, ch’egli, quasi pietra, nel suo centro, vi sperava, tosto sottoponsi all’altro, e poscia all’altro, quasi a tutti ei basti, non bastando a niuno. Simile agli sfortunati eunuchi, i quali, perché sembrano atti da esser uomo e donna, e noi son poi né all’un né all’altro, furono perciò appellati da Luciano duplicis nostrae ambiguum aenigma. Titulo, che a mio giudizio assai confassi a certi, che impares negotiis, pari riputandosi, entran da per tutto senza mai da nulla uscire, sempre tengono le mani in pasta né mai fan pane, corron, calabroni vani, a tutti i fiori, né mai fan mèle. Miseri somari, che stan fitti nel pantan fino alla gola dal gran peso di faccende, che o son vili, o se son nobili, essi qual somari apunto non ne san godere, e altrui portando il vino, bevon poi l’acqua.

Dal non esser par negotiis poi deriva l’esser sopra de’ negozi, ovvero con usar intorno a cose vili somma cura: in quella guisa che diremo, sopra un pezzo di vil piombo star quello scultore, che per ingegnosamente bulinarlo logora gli occhi; ovvero con usar intorno a cose di gran pregio gran [p. 245 modifica] trascurezza: in quella guisa che diremo, sopra un pavimento pien di gemme star colui, che lo calpesta. L’una e l’altra delle quali cose sono le due fecondissime sorgenti dell’umana infelicitá. E nel vero, per parlar della primiera in prima, puossi trovar mai disparitá piú sfortunata, quanto per predar de’ farfalloni aver di Briareo le mani, e esser piú assai monco del roman Pasquino a coglier poma d’oro fino negli orti espèri? accender mille torchi per cercar in terra un quattrinuzzo di vil rame, e per trovar un preziosissimo diamante né pur ardere un sol moccolo da bagattino?

Non v’incresca, o miei signori, di venirne meco per fino al palagio di Domiziano, poiché, se facundus comes est vehiculum in via, né facondia trovasi piú saporita, quanto quella di cui cuoco è la maldicenza, Giuvenale stesso, lingua che ha piú denti che una sega, s’offerisce con la satira sua quarta per carrozziere. Riguardate un poco lá chiamarsi in fretta all’adunanza i principali e piú assennati senatori e consiglieri di tutta Roma. Eccoli in un real salone di giá a cerchio per consultare. Oh che toghe maestose, oh che barboni venerabili, oh che raggrottate ciglia, che di un mondo di pensieri sono gli Alcidi! Udite, che periodi uguali allo sputare nello esser tondi; riguardate gli efficaci movimenti degli sguardi e delle dita, sopra le cui punte sembra che si affilin gli entimemi, da’ cui lampi sembra che gli affetti piú veementi tutti fiammeggino, Dio buono! qual sará mai egli l’argomento di consulta tanto seria, di assemblea cosí magnifica, di consiglieri e personaggi tanto qualificati? Certamente,

          de Cattis aliquid, torvisque Sicambris,
        ... tanquam ec diversis partibus orbis
          anxia praecipiti venisset epistola penna

.

Sí sí; sonosi ribellati i popoli dell’Aquilone, si consulta il modo di riporli a giogo. L’Istro o il Nilo o ’l Gange hanno allagate gran provincie: vuolsi incatenarli nel lor letto in guisa, che non possan piú sfogar su gl’innocenti campi le frenesie; è tornato certamente in campo il mal tentato ghiribizzo di [p. 246 modifica] giunger con stupendo taglio l’Eritreo col Mediterraneo, o l’Arcipelago col Ionio. In somma alcuna cosa, par d’importanza a queste, qui si discorre. Appunto. Non vedete voi quell’Adriatici spatium mirabile rhombi, quel pesce vasto, al quale deest patinae mensura, mentre despicit convivia cauda, lá nel mezzo, minacciando d’ingoiare gl’ingoiatori? Sopra di esso, per qual guisa s’abbia a cucinare, va la consulta. Da qual mar crediamo sará venuto? Alla grassezza io ’l faccio nato nella Mareotica palude, dove il freddo e l’oliosa feccia de’ gran fiumi sí ben gl’impingua. — Faremlo in pezzi? — dice un de’ piú giovani, e per conseguente meno esperimentati. — Absit ab illo dedecus hoc, — Montan risponde, un de’ piú canuti: — apparecchisi tegame immenso,

          quae tenui muro spatiosum colligat orbem.
          Debetur magnus patinae, subitusque Prometheus.

Ma s’ha egli a friggere nella padella, od arrostir sulla graticola co’ costumati intingoli, od avventurar a qualche nuova foggia non piú provata? Qui dubbiosi arrestatisi i Catoni, e di sí grave punto la decision rimettono allo stesso imperatore, che va intanto difendendo con l’usato stilo dalle mosche la nobil bestia.

Voi ridete, o miei signori? Ohimè, che de nobis fabula narratur. Quanti, oh quanti se ne trovano Domiziani, che mostrando di trattar la signoria de’ mari, trattan di condire i pesci, e che in que’ loro gabinetti stillatisi il cervello solamente per prender mosche.

Non è solo (a me crediate) al mondo quello storico li Luciano, che per poco tutto quanto il libro consumò in descrivere lo scudo del capitano. Non è solo quell’innamorato Diabolo, che in Plauto stipula un contratto con cautele e salvaguardie tante e tali, che sicuramente tu diresti trattarsi ivi di acquistar ragioni sopra alcun reame, e poi si tratta sol di far, che una cotale sgualdrinella, sforacciata e logora piú che un crivello, per un anno solamente non sia d’altri, ma tutta sua. [p. 247 modifica]

L’acquistar quel titol fracido e tarlato di antiquario sembrati negozio pari a cotanti anni spesi nel formar migliaia di alberi, che nulla fruttano, nel riempir di gente morta tanti volumacci, che con l’altrui nobiltá fanno apparire te facchino per la schiena che bisogna a maneggiarli, nell’affaticar senza discrezion le iscrizioni di cotante tombe, che omai sazie del tuo tedio son per farti un bel gambetto, acciò diventi, di loro antiquario, loro anticaglia? Pur men mal di questi, che studiando il dar alcuna vita a’ morti, altro pericolo non corre finalmente che il fetor del fiato, mentre mai non parla d’altro che di cadaveri; ma colui, che per dar morte a’ vivi corre a stuzzicarla in campo contro se medesimo, per tutte quelle guise che machinar sappia il ferro e ’l piombo e ’l fuoco e ’l ghiaccio e l’aria e l’acqua e ’l fuoco e la fame e ’l morbo, può egli pareggiar tutti sí fatti mali con quel lauro sterilissimo, ch’egli vuol coglierne? Niente piú, secondo me, di quel che possa quel Zizzalardone appareggiar a tanti fondi di marina rivoltati sottosopra, a tanti cieli, a tante selve insanguinate con la strage delle proprie fiere, a tanti saporiti ghiribizzi della cucinesca architettonica, due sol brievi dita di palato, trentacinque palmi di budella, mezzo di stomaco. Che direm noi per contrario di quell’avarone, il quale non osa di ingrassare, per non logorar in vesti panno soverchio: che direm qualora per l’acquisto o la ricuperazione di un po’ poco di quel fango, cui non so se prezioso rendano i tormenti ch’ei soffrisce o fa soffrire, non pur perde il sonno il cibo i giorni e gli anni, ma la patria ed i figliuoli, e muta climi, varca mari carichi di mostri di corsari e di procelle, approda a’ lidi non men barbari di sito che di abitanti? Sono pari quattro soldi a infiniti affanni?

          Scilicei hoc fuerat, propter quod saepe relicta
          coniuge, per montem adverstum, gelidasque cucurri
          Esquilias, fremeret foedus cum grandine vernus
          Juppiter, et multo stillaret penula nimbo.

E poiché di donne ho favellato, saprei io di buona voglia, se colei, che logora non meno le ore piú pregiate della vita [p. 248 modifica] con lo specchio, che il piú bello aprile della pelle co’ belletti, e fa non men carbone i denti, che neve il volto, e martire di vanitá, quasi cangiata in biscia da quei tossichi, ch’ella maneggia di continuo, giunge fino a scorticarsi per trasformarsi: saprei (dico) volentieri, se con tante spese, tanti stenti, tanti strazi di angustiate membra, di spelate carni, di divelti peli, di vecchiezza anticipata compri a giusto prezzo quelle idolatrie, che per lo piú, non men che sia la sua bellezza, son mentitrici. E tu, o giovane amatore, párti forse di esser pari co’ tuoi mezzi al fin che tu pretendi, se per impetrar da questa solo una ora buona, che sovente spara nel mandarti via in buon’ora, puoi soffrir cento malanni, macerando sotto un ciel nevoso e buio, sopra un limitar gelato e duro la persona con vigilie cosí lunghe e infaticabili, che se l’ottava parte sola tu ne avessi dedicato a’ libri, saresti un Pico? Per non dir di te infelice, ma non giá compassionabil cortigiano, che per impetrar un ghigno, od un parlar di spalla da una porpora, sovente rossa, perché si vergogna di colui, cui pende indosso, sofferisci tanti strazi, che se ne opponesti una leggiera particella a’ tuoi peccati dentro un chiostro, saresti un santo?

— Che fai, Cesare? — gridan le cesariane schiere presso Lucano. — Solo in una oscura notte, sotto un cielo pien di fulmini, in un mar tutto spumante, sopra un legno piccolo, sdrucito, e fragile, guidato da un nocchiero, ingombro ancor dal sonno, con gli Acrocerauni scogli avanti gli occhi, non per meritar la lode di gran generale, ma di diligente messaggiero?

     Pudet eheu libi? causa petendae
     haec fuit Hesperiae? visum est committere quemquam
     tam saevo crudele Mari?

Di pericoli sí disperati, a’ quali non sarebbe degno prezzo un mondo intero, il sará l’aver passato un golfo senza ir traverso?

          Tantum, quid numina lassas?
          Sufficit ad fatum belli favor iste, laborque
          Fortunae. —

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Cosí è, signori. Noi ci affatichiamo solamente in non far nulla, e, scarafaggi vili, somma diligenza adoperiamo in rotondar pallotte, che son letame. E di tutto il mondo puossi ciò affermare, che colui dicea di un cotal luogo della Grecia, tutto affaccendato intorno a que’ suoi giuochi. Poco savia è una cittade, che con tanta diligenza scherza. Non cosí fan gli elefanti, i quali se concedono un de’ lor due denti al cibo, serban l’altro alle battaglie: dove noi non riserbando nulla degli studi nostri e delle nostre forze a impieghi veramente confacenti ad uomo, quindi nasce l’altra sorte di disparitade, cioè a dir quell’esser superiore alle faccende, che consiste in porsi sotto i piedi con la trascuraggine le cose, che dovrebbono esserci tenute dalla diligenza sempre del capo in cima. Simili a que’ semplici fanciulli, che né pur darebbon d’occhio ad un carbonchio sodo e fino, mentre spendon tutto il fiato in cotai bolle di sapone e d’acqua, che, se ben dipinte vagamente, sol per minim’aura vengon nulla; ché a sí fatte bolle appunto furono gli oggetti delle brame de’ mortali assomigliati da Luciano.

Ed oh! volesse questi per un sol ottavo d’ora darmi in imprestanza la ricetta, con la quale Mercurio insieme con Caronte, nel suo Dialogo de‘ contemplanti, soprapose non nien facilmente, che si facciano i fanciulli i noccioli, l’un sopra l’altro Pelio e Ossa, e quindi ravvisarono distintamente in che si affanni il mondo: acciocché anch’io co’ suoi talari, o pur con gli stivali di Liombruno, fatti voi volare in cima di Alpi e Apennini e Pirenei l’un sopra l’altro accavallati, addur potessi in testimonio della veritá del mio discorso i vostri occhi stessi. Mirereste tutte le lor selve scese ad impalcar l’Oceano ed il Mediterraneo con le numerose antenne, e le campagne tramutate in folti boschi con le lance inalberate di tanti eserciti. Vedrete con maritime battaglie naufragate sopra l’acque per via di fuoco, con fiumane ne’ conflitti della terra tramutate in mari per via di sangue, recitarsi da’ cristiani, per diporto del sedente turco fiere tragedie. — Ecco lá, — direste, — il catalan ribelle, che, via scosso il giogo naturale, un forastier d’imporsene va ricercando. Ecco lá la Lusitania tutta sollevata per [p. 250 modifica] precipitarsi o precipitare. Ve’ il francese, in cui dura ostinato piú del suo natio costume il fuoco delle ardite furie, mercé l’aure favorevoli della fortuna. Ve’ l’eretica idra che alla morte dell’ispano Alcide si ringalluzza. Ve’ dall’onda Baltica persino all’Adriatica ribellioni, estorsioni, distruzioni, abominazioni, impietá, congiure, incendi, assedi, assalti, pestilenze, fami, mortalitá. — E perché, Dio buono, tanti mali, tanti affanni, tanti estermini? A qual meta tendesi per degno guiderdone di tanti stenti? Se all’acquisto della terra tutta, oh sciocca generazione degl’infelicissimi mortali, or non è questa un punto solo, il quale a noi sol perché abbiamo gli animi di picciolissime formiche grande rassembra: Un pagano stesso nol vi dice apertamente con isgridarvi? Punctum est istud, in quo navigatis, in quo bellatis, in quo regna disponitis? E per un sol punto di vitali linee incidonsi tanti millioni? E per un sol punto perdonsi tante fortune? E per un solo punto giuocansi tante anime in un trar di dado? Un sol punto merita, che i favoriti in que’ lor dorati gabinetti, senza aver né dí né notte mai riposo, provino piú aspre che i cilici le lor porpore, giaccian sulle molli piume assai piú duramente, che sugli eculei, teman ne’ gemmati vasi il tossico per le congiure degl’insidiatori, o ’l provino per l’amarezza cagionata nel palato dall’altre cure, abbian dormendo dalla breve imagine di morte un abbozzato saggio de’ supplici, che gli aspettano dopo la vita? Un sol punto merita, che da’ soldati si soffrisca quante piover può miserie tutto un cielo, s’oprin quanti può insegnar misfatti tutt’un inferno, e si venda il corpo e d’anima a cotanti soldi, che non bastino a comprar né tanto pan che regga vino, né cotanta terra che cuopra ucciso? Un sol punto merita, che i letterati scannin con la propria spada la giustizia, logorando i dí e le notti a torcere, carnefici togati, il collo delle mal menate leggi, acciocché dalla loro torturata confessione ottengali le usurpazioni titolo di ereditadi, le invasioni di prevenzioni, le estorsioni di tributi, le ribellioni di difese, e di politica prudenza l’impietade e l’iniquitá? Un sol punto merita che i prencipi, pastori sí ma Polifemi, ciechi al custodire e inumani allo [p. 251 modifica] scuoiare il gregge lor commesso, sordo abbian l’orecchio od impietrito il cuore a’ gemiti, che mandati le provincie e i regni sotto il peso insopportabile delle angherie, delle violenze, delle feritadi, delle libidini? Un sol punto? Un punto solo? Folle, mentecatto, scemo; un punto, dissi? Mento: non un punto solo, non di questo divisibil punto alcuna piú notabil parte, qual sarebbe l’Asia, o l’Africa, o l’Europa, non un regno, o una provincia, no, ma quattro mura cascaticcie di un antico castelluccio, pochi palmi di terreno incolto meritan che per l’acquisto loro si faccia tanto. E pe ’l cielo? Per fondarsi seggio su quel cielo, a cui nascemmo e contro cui (miseria nostra) ognor viviamo?

Ditel voi per me, o proscioglitori sacri delle umane colpe, se sul vostro viso udite tutto il giorno dir un bel dí no ad un miserabile digiuno, in ordine ad assolver i peccati loro, quelli che inghiottiron volentieri, per commetterli, vigilie e stenti e ghiacci e fuochi e ferri, se fu bisogno? Ditel voi, custodi degli erari sacri, se di mille ricamate, aurate e ingemmate vesti, onde trionfa il mondo indosso a vane femine, una sola delle men pregiate giunse ad adornar gli altari, sol se dopo di esser logorata da un’etade, o proibita da una prammatica? Ditelo voi, santi, che nelle solennitadi vostre stesse foste in certo modo astretti a militare in pro di Satanasso contro voi medesimi, dite se nelle taverne tracannossi, crapulossi e sulle danze bagordossi tutto il giorno intiero a’ vostri nomi, senza che un sol quarto di ora si adorasse in chiesa le vostre imagini?

Ma mi par di udirvi dire, ch’io vi diedi intenzione di condurvi sopra i monti accavallati col segreto di Luciano, perché vagheggiaste il mondo, e poscia in quella vece io solo son salito in pulpito per predicarvi. Oh come male vi apponete, per vita mia! Altro avreste udito, s’io stimato avessi buono il dimostrarvi, quanto sia dannosa questa nostra mostruosissima disparitale intorno alle faccende del far tutto per lo nulla, nulla pel tutto, col vestir il personaggio di predicatore. Credete voi, ch’io tralasciando il lungamente star su l’ali degli universali, non avrei potuto scendere su gl’individui, e con misura esatta [p. 252 modifica] far a voi toccar con mano le vergognosissime disparitadi, ch’usa ognun di noi nell’operar suo? Credete ch’io con ferro, d’ambe parti avuto, non avrei saputo far fin nelle viscere piú intime la notomia di quella dama, cui la lena non vien meno per danzar il dí di Carnovale dalla sera all’alba piú leggiera che una piuma, con tal veste intorno, che le spalle di un atleta ne gemerebbono, e, a dir un quarto d’ora sol di messa, se non ha la sedia ben agiata tosto trangoscia? Di quel cavaliere, che per ispiegar a un vile oggetto impuri affetti sa con infocata lingua fabricar ingegnosissime adorazioni, e per chiederne perdono al cielo a pena sa lasciar cader da un labro senza cuore un misero «misericordia» tutto di ghiaccio? Di quel poeta, che per infiorar oscenitadi avrá ferrata testa a sostener giornate intiere di vano studio, e poscia l’ha di vetro sol ch’ei si applichi un quartuccio di ora a far il necessario esame di coscienza? Di quel padre di famiglia, che per lasciar ricchi di moneta i figli sulle spazzature stesse fa piú fini conti che un’algebrista, e il lasciarli adorni di bontade e di virtú non istima un zero? Di quella matrona, che non fida ad altri che a serrati scrigni e alla propria chiave le sue perle, le smaniglie, i bossoli, i profumi e tutte le altre ciancie della vanitá donnesca, e commette la custodia e la pudicizia di tre o quattro figlie, giá mature, a venal fantesca, mentr’ella fuor di casa fino a mezza notte, assai piú sciolte, che un Orazio intorno all’arpa, ha intorno a’ gonellini quelle mani, che nella sua casa son per maneggiare il fuso o l’arcolaio o l’ago, tutte chiragra?

E ’l peggio è, che questi fôran solamente scherzi del proemio della predica: che s’io poscia fossi gionto a’ fulmini e a’ tuoni della perorazione, guai a voi, che sol per un uccello o un pesce, onde piú abbiate ad essere coll’ingrassato ventre benemeriti de’ vermi, tanto argento spenderete quanto egli pesa, e a comprar un libro, che fecondi il cuore con celesti semi, siete avari di dieci soldi; guai a voi, che per rapir l’onore di una dignitá, non da’ vostri omeri, non ricusate di soffrir intollerabili vergogne, e per restituir l’onore, tolto ingiustamente altrui da vostre ingiurie, ricusate il nobile rossore di una [p. 253 modifica] ragionevolissima soddisfazione; guai a voi che date a mangiar l’oro nelle briglie a cavalli stessi, e a’ mendichi poverelli negate un pane; guai a voi, che uomini a’ cani, e cani agli uomini, pe ’l freddo e per la nuditá di quelli logorate anche la seta e la bambagia, e dinegate a carni umane assiderate sol quattro cenci; guai a voi, che non soffrite un motto solo da un altro uomo, e pretendete che da voi debba soffrir bestemmie lo stesso Iddio; guai a voi, che per un’ombra falsa di mondana riputazione faticate gli anni intieri nelle scuole della feritade a studiar arti di ingegnosa morte, e piú tenendo in pregio il titol di scomunicati che di cristiani, avete cuor di entrar in mortal duello, e per la riputazion del cielo avete cuor di far ad un amico leggerissima correzione: guai a voi se fosse predica, non accademico discorso, questo ch’io faccio.

Deh, uditori nobilissimi, non trascuriam per Dio quest’arte sí pregiata, sopra cui tutto il ben esser nostro solo si fonda. Che ci spaventa? Forse la sua malagevolezza? Ben ragione avreste quando io pretendessi, che nell’esser pari a molte e a diverse e malagevoli azioni la esercitassimo. Ma che? non chieggo che noi siamo gran filosofi, gran musici o grandi oratori o gran poeti o gran capitani, onde addur possiamo per iscusa la rozzezza dell’ingegno, la durezza della vena, o ver l’asprezza della voce, o della complessione la debolezza. Chieggo solo, che siam buoni. Niuna cosa è tanto facil quanto l’esser pari alla bontade. Purché noi vogliamo, senza far isforzo di esser pari ad essa, ella a noi farassi pari per se medesima. Non ricordate voi colá in Boezio, ch’ella or s’inalzava con la testa fino al cielo, e or fino alla terra rannicchiavasi, sol per mostrarci, ch’ella si confá con gli uomini d’ogni misura? Udite Seneca, ammirabilmente: Nulli praeclusa est virtus, omnes admittit, omnes invitat, ingenuos, libertinos, servos, reges, et exules. Non eligit domum, nec censum, nudo homine contenta est. Con la virtú, dice lo stesso, facilis ad beatam vitam via. Inite dunque illam bonis auspiciis, ipsisque diis bene iuvantibus.