Typee/X

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IX XI

Meditazioni della mezzanotte – Visitatori mattutini – Un guerriero in assetto di guerra – Un selvaggio Esculapio – Pratica dell’arte di guarire il prossimo – Servitore personale – Descrizione di un’abitazione della valle – Ritratto dei suoi abitatori.

Vari e contrastanti erano i pensieri dai quali fui oppresso durante le silenziose ore che seguirono gli eventi fin qui narrati. Toby, esausto dalle fatiche sopportate, dormiva di un sonno greve al mio lato; ma io, pel dolore che sentivo alla gamba, non riuscivo a chiuder occhio, sicchè rimasi terribilmente sveglio a riflettere sulla nostra spaventosa situazione. Era dunque possibile che, dopo tutte le nostre vicissitudini, fossimo realmente finiti nella terribile vallata di Typee, e in potere dei suoi abitanti, spietata e feroce tribù di selvaggi?

Typee o Happar? Rabbrividii riflettendo che non v’era ormai più possibilità di dubbio, e che, tolta la speranza di una fuga, ci troveremmo d’ora innanzi in quelle medesime condizioni che tanto mi avevano terrorizzato alcuni giorni prima. Quale sarebbe stato il nostro pauroso destino? È vero che fino a quel momento non eravamo stati trattati male, anzi ci avevano ricevuto con benevolenza ed offerto ospitalità. Ma quale affidamento fare sulle passioni incostanti che guidano i selvaggi? La loro incostanza e la loro duplicità sono proverbiali. Non poteva darsi che, sotto tali lusinghiere apparenze, gli isolani nascondessero qualche truce disegno, e che la loro amichevole accoglienza fosse solo il preludio di un’orribile catastrofe? Queste le previsioni che turbavano la mia mente, mentre giacevo senza poter trovar riposo sopra il mio letto di stuoie, circondato dalle forme oscuramente accennate di coloro ch’io tanto temevo.

Verso l’alba, spossato da sì penosi pensieri, caddi in un sonno agitato; e nel destarmi con un salto da un sogno pauroso, vidi curvi su di me, i volti degli indigeni.

Era giorno alto, e la casa era piena di giovani donne, ornate fantasticamente di fiori, le quali, mentre io m’alzavo, mi fissavano con curiosità e con infantile piacere. Dopo aver destato Toby, esse si sedettero intorno a noi sulle stuoie, e si abbandonarono a quelle puerili indagini che sono sempre state attribuite al sesso che si suol chiamare adorabile.

Poichè queste semplici creature non erano accompagnate da nessuna bisbetica governante, le loro azioni erano del tutto inconvenzionali e prive di ogni artificioso ritegno. Lungo e minuto fu l’esame del quale esse ci onorarono, e la loro allegria era così chiassosa ch’io ne fui assolutamente intimidito, mentre Toby, da parte sua, si dimostrava addirittura offeso da tanta famigliarità.

Queste vivaci ragazze erano anche assai buone o gentili; scacciavano gli insetti che ci si posavano sulla fronte; ci offrivano svariati cibi; e dimostravano di aver compassione delle mie sofferenze. Ma ad onta di tutte le loro blandizie, mi sentivo non poco scandalizzato, parendomi che alquanto oltrepassassero i limiti del femminile decoro.

Dopo essersi divertite sinchè ne ebber voglia, le nostre giovani visitatrici si ritirarono, lasciando il posto a un’orda di visitatori dell’altro sesso che si diedero il cambio presso di noi fino al meriggio, finchè quasi tutti ormai gli abitanti della vallata avevano potuto bearsi della nostra vista.

Finalmente, quando cominciarono a diradarsi, ecco che un superbo guerriero inchinò le alte piume del suo copricapo sotto il basso arco della porta ed entrò in casa. Mi avvidi subito che doveva trattarsi di qualche distinto personaggio, poichè gli indigeni si volsero verso di lui colla massima deferenza facendo largo al suo passaggio. Il suo aspetto era imponente. Lunghe e splendide penne di uccelli tropicali miste a sgargianti piume di gallo, erano disposte in capace e ritto semicerchio sul suo capo, con le estremità inferiori fissate in un cerchio di perline iridescenti che gli stringevano la fronte. Intorno al collo portava parecchie enormi collane di zanne di cignale, lustre come avorio, disposte in modo che quelle più grosse e più lunghe posavano sull’ampio torace. Nei capaci fori delle orecchie aveva infilzati due denti di tricheco finemente lavorati, le cui cavità, rivolte in avanti, erano piene di foglie fresche, mentre l’estremità opposta era scolpita con strane figure ed emblemi. Tali barbari ornamenti, così guerniti alle due estremità e curvati a punta dietro gli orecchi rassomigliavano non poco a un paio di cornucopie.

I fianchi del guerriero erano cinti da una fascia di tappa scura pendente davanti e dietro in fiocchi intrecciati; mentre bracciali di ricciuti capelli umani ne recingevano i polsi e le caviglie e completavano questo straordinario abbigliamento. Nella destra egli stringeva una lancia magnificamente scolpita, lunga quasi quattro metri, fatta col fulgido legno «Koar»; una delle estremità finiva in una punta acuminata, l’altra si appiattiva come la pala d’un remo. Dalla cintura gli pendeva obliquamente una pipa tutta decorata, con la canna tinta di rosso e guernita, allo stesso modo del vaso, di tante striscioline svolazzanti di finissima tappa.

Ma la cosa più notevole nell’aspetto di questo splendido isolano, era lo svariato tatuaggio che ne copriva le nobili membra. Le linee, le curve, le figure più strane erano disegnate sull’intero suo corpo, e per la loro grottesca varietà e profusione avrebbero potuto paragonarsi ai complicati disegni che talvolta si osservano nei più costosi merletti. Di tutti questi tatuaggi, i più semplici e notevoli erano quelli che decoravano il volto. Due larghe striscie di tatuaggio, divergenti dalla sommità del suo cranio rasato, attraversavano obliquamente entrambi gli occhi, tingendone le palpebre, e finivano quasi sotto le orecchie, dove si univano con un’altra striscia che, in linea retta, passava sulle labbra e formava la base di un triangolo. Questo guerriero, per la perfezione delle membra ben proporzionate, poteva certo essere considerato come uno dei più nobili esemplari della natura, e forse anche i disegni che ne decoravano le sembianze, denotavano la sua alta posizione.

Non appena entrato in casa, egli si sedette a una certa distanza dal posto in cui Toby ed io riposavamo, mentre gli altri selvaggi lanciavano occhiate da noi a lui, come se attendessero qualche cosa che però non avveniva. Osservando meglio il guerriero, mi parve che i suoi lineamenti mi riuscissero famigliari, e quando potei vederlo in pieno viso e incontrai di nuovo lo stesso sguardo indagatore della sera prima, riconobbi subito il nobile Mehevi. Appena chiamatolo, egli avanzò verso di me nel modo più cordiale, e salutandomi affettuosamente, parve gioire non poco dell’effetto che il suo barbaro assetto di guerra aveva prodotto su di me.

Immediatamente allora decisi di acquistarmi, se possibile, la simpatia dell’individuo, certo com’ero ch’egli doveva essere un uomo di grande autorità nella sua tribù, e che, pertanto, avrebbe potuto esercitare una potente influenza sul nostro eventuale destino. Nè i miei sforzi furor vani chè anzi egli non avrebbe potuto dimostrare sentimenti più amichevoli, sia verso di me che verso il mio compagno. Distesosi sulle stuoie vicino a noi, cercò di farci comprendere la simpatia e l’amicizia da cui era animato; e pareva assai mortificato delle difficoltà quasi insuperabili che c’erano a comprenderci. Egli aveva un gran desiderio che lo illuminassimo circa i costumi e gli usi speciali dei nostri lontani paesi, ai quali, con l’appellativo di Maneeka, alludeva di frequente. Ma ciò che più di tutto pareva interessarlo, erano le recenti gesta dei «Franee», come chiamava i francesi, nella vicina baia di Nukuheva. Questo sembrava un tema inesauribile per lui, sul quale non era mai stanco di interrogarci. Ma ben poco potevamo raccontargli, tranne che avevamo vedute sei navi da guerra ancorate nella baia quando ne eravamo partiti. Allorchè ebbe udito quest’informazione, Mehevi, coll’aiuto delle dita, si diede a fare un lungo calcolo, come se volesse computare esattamente il numero dei francesi facenti parte della squadra.

Fu appunto dopo aver compiuto quest’operazione mentale, che egli parve accorgersi del gonfiore della mia gamba. La esaminò immediatamente colla massima attenzione, e tosto inviò un giovinetto, lì presente, con un messaggio per qualcuno.

Dopo poco il ragazzo ritornò accompagnato da un uomo anziano che si sarebbe potuto facilmente scambiare per lo stesso vecchio Ippocrate. il suo capo era calvo come la lucida superficie di una noce di cocco a cui anche assomigliava pel colore, mentre una lunga barba argentea gli scendeva sul petto, raggiungendo quasi la sua cintura di corteccia d’albero. Gli cingeva la fronte una corona di foglie intrecciate, che doveva servire a proteggergli la debole vista dal vivido bagliore del sole. S’aiutava nel suo incedere con un bastone lungo e sottile, mentre nell’altra mano teneva un ventaglio formato dalle verdi foglie dell’albero di cocco. Una svolazzante tunica di tappa, annodata sulla spalla, ne avvolgeva la curva persona e faceva risaltare il suo venerabile aspetto.

Mehevi lo salutò e gli fece segno di sedersi vicino a noi; quindi, scoprendo la mia gamba, lo invitò ad esaminarla. Il cerusico fissò lungamente Toby e poi me e quindi si pose al lavoro. Dopo aver osservato diligentemente la gamba, cominciò a manipolarla; e supponendo probabilmente che la malattia avesse privato l’arto di ogni sensibilità, si diede a pizzicarla, a tamburellarla e a scuoterla in tale maniera da farmi urlare dal dolore; ma per quanto cercassi di oppormi a questo straordinario trattamento, non era facile sfuggire dagli artigli del vecchio stregone. Egli si era impossessato della mia gamba come di un oggetto che da lungo tempo avesse desiderato di avere in suo potere, e mormorando qualche suo misterioso incantesimo, continuava imperturbabile. Mehevi intanto, animato evidentemente dallo stesso sentimento che prova una madre per un figliuolo sofferente che si dibatte sulla sedia operatoria d’un dentista, mi teneva fermo con la sua mano poderosa e anzi incoraggiava quel miserabile a torturarmi.

Fuor di me per la rabbia e pel dolore, urlavo come un demente, mentre Toby assumendo tutte le pose che potevano impressionare quegli indigeni, invano cercava di farli smettere. Ignoro se infine il mio carnefice si arrendesse alla vigorosa pantomima di Toby, oppure se fosse obbligato a fermarsi per la stanchezza; fatto sta che a un tratto cessò le operazioni, e siccome contemporaneamente il Capo allentò la sua stretta, io mi abbandonai lungo disteso, senza più fiato e senza forze.

La mia disgraziata gamba era ormai nello stato in cui può essere una bistecca dopo aver sottostato alle rudi battiture precedenti la cottura. Il mio dottore, che s’era rimesso dalle fatiche sopportate per me, e come volesse fare ammenda per il dolore che mi aveva procurato, prese ora alcune erbe da una piccola borsa che gli pendeva dalla cintola, e bagnatele d’acqua, le applicò sulla parte infiammata: curvo su di essa, mormorava intanto qualche cosa, non so se un incantesimo o qualche parolina confidenziale, a un demonio immaginario alloggiato nel mio polpaccio. La gamba venne ora da lui fasciata con delle foglie, e ringraziando la Provvidenza, potei finalmente riposare.

Mehevi poco dopo si alzò per partire; ma prima d’andarsene diede alcuni ordini a uno degli indigeni chiamato Kory-Kory; e da quanto mi riuscì comprendere, doveva avergli affidato la speciale mansione di curarsi, d’allora in poi, della mia persona. Non sono ben certo se proprio allora io comprendessi tutto ciò, ma la condotta che tenne in seguito il mio fidato servitore, mi convinse pienamente che così doveva essere.

Partito Mehevi e partito il medico di famiglia, rimanemmo soli con dieci o dodici indigeni, che da quanto potevamo capire, componevano la famiglia di cui Toby ed io eravamo ormai ospiti. E poichè l’abitazione presso la quale ci avevano condotti al nostro arrivo, rimase sempre la mia dimora per tutto il periodo in cui restai nella vallata, mentre naturalmente mi trovai in rapporti di grande intimità coi suoi abitanti, mi pare opportuno farne sin d’ora una breve descrizione, pensando che essa potrà anche servire per tutte le altre abitazioni della vallata, e riuscirà a dare qualche idea degli indigeni.

Presso un lato della valle, a circa mezza strada da un breve promontorio lussureggiante di verzura, erano stati innalzati, per un’altezza di circa due metri, diversi successivi strati di grosse pietre, disposte in modo, che la loro piana superficie corrispondeva nella forma all’abitazione che v’era costruita sopra. Sulla pila di questi sassi, di fronte alla casa, restava però scoperto un angusto spazio (detto dagli indigeni «phiphi») che, cinto da un basso stecconato, poteva paragonarsi a una specie di veranda. L’intelaiatura dell’abitazione era formata da grossi bambù piantati verticalmente e qua e là assicurati mediante i sottili rami dell’Hibiscus, disposti trasversalmente e legati con corregge di corteccia.

Il retro della casa, costruito coi rami intrecciati dell’albero del cocco e con le foglie sapientemente intessute, era alquanto inclinato e si protendeva dall’estremo limite del «phi-phi» sino a un sei metri dalla sua superficie; mentre il tetto in pendio – coperto dalle lunghe foglie affusolate del palmetto – scendeva ripido fino a circa un metro da terra, con le grondaie inclinate sul fronte della casa. Questo era costruito di canne leggere ed eleganti, formanti una specie di paravento a trafori, adorno con molto buon gusto di legature di legno variegato, le quali servivano a tenerne insieme le varie parti. I lati della casa erano costruiti nella stessa maniera; offrendo così i tre quarti per la circolazione dell’aria, mentre l’intera costruzione era impermeabile alla pioggia. In lunghezza, quella pittoresca costruzione poteva misurare dodici metri, mentre la larghezza non eccedeva i quattro metri; e nell’insieme, colle sue pareti di canne intrecciate a reticolato, essa ricordava una immensa uccelliera.

Curvandosi un poco, si passava attraverso una angusta porta aperta sulla facciata, e ci si trovava dinanzi a due tronchi d’albero di cocco, lunghi, diritti e ben lustrati, che si stendevano per tutta la lunghezza dell’abitazione; l’uno posto in fondo contro il muro, e l’altro parallelo ad alcuni metri di distanza. Lo spazio tra essi racchiuso era coperto da gran numero di stuoie lavorate a vivi colori e quasi tutte d’un disegno differente. Esso serviva da salotto e da dormitorio, simile, sotto certo aspetto, al divano dei paesi orientali. Qui gli indigeni dormivano durante la notte e indolentemente giacevano gran parte del giorno. Il resto del pavimento era formato dalla superficie liscia e lucida degli stessi grandi lastroni di pietra che componevano il «phi-phi».

Dal trave di sostegno della casa pendevano un gran numero di grossi pacchi ravvolti in ruvida tappa, di cui alcuni, contenevano abbigliamenti festivi, e altri svariati oggetti ornamentali, tenuti in gran conto. Tali pacchi si potevano afferrare per mezzo di una funicella che, passando sulla trave, era attaccata ad un’estremità all’involto, mentre l’altra estremità, fissata a una parete, serviva ad abbassarlo o a rialzarlo a seconda del bisogno. Contro la parete di fondo, facevano pompa di sè svariati giavellotti, lance ed altre armi selvagge. All’esterno della casa, fabbricata sull’area di fronte, formante una specie di piazza, stava una piccola baracca usata quale ripostiglio o dispensa e in cui erano diversi articoli di uso domestico. A qualche metro di distanza dal «phi-phi» sorgeva una vasta tettoia costruita con i rami dell’albero di cocco, e in essa si preparava il «poee-poee» e si compievano tutte le operazioni culinarie.

Questo per la casa e le sue dipendenze, e tutti saranno d’accordo con me che una dimora più comoda e più adatta per quei climi, non potrebbe certo immaginarsi. Era fresca, ben ventilata, scrupolosamente pulita, e costruita a un’altezza che la riparava dall’umidità e dalle impurità del suolo.

Ma ora è tempo ch’io parli degli abitanti della casa, e qui desidero dare la precedenza a Kory-Kory, il mio fedele e provato servitore. Poichè il suo carattere si svolgerà gradatamente nel corso della mia narrazione, per ora mi accontenterò di accennare soltanto al suo aspetto fisico. Kory-Kory, quantunque fosse il più devoto e bravo servitore del mondo, era purtroppo assai brutto. Poteva avere un venticinque anni; era alto circa un metro e ottanta, robusto e ben fatto. Ma il suo aspetto era veramente straordinario. Il capo aveva tosato con cura, ad eccezione di due spazi circolari, della dimensione di uno scudo, vicino al vertice del cranio, dai quali i capelli, lasciati crescere a sorprendente lunghezza, erano intrecciati a guisa di due nodi prominenti, il che lo faceva sembrare adorno di un paia di corna. Aveva il viso depilato, tranne che sul mento donde pendevano due ciuffi radi ed irsuti, e sopra il labbro superiore dove ce n’erano altri due.

Kory-Kory, allo scopo di migliorare l’opera della natura, e chi sa, forse spinto dal desiderio di aggiungere qualche vezzo alla incantevole sua espressione, aveva voluto abbellire il proprio viso con tre larghe righe longitudinali di tatuaggio, le quali, simili a quelle strade di campagna che vanno innanzi imperterrite senza badare agli ostacoli, gli attraversavano il naso, gli scendevano sino agli occhi e costeggiavano perfino gli angoli della bocca. Ognuna di esse divideva completamente la sua fisionomia: l’una si stendeva in linea retta cogli occhi, l’altra attraversava il viso nella vicinanza del naso, e la terza passava lungo le sue labbra da un orecchio all’altro. La sua fisionomia, con tutto quel tatuaggio, mi ricordava sempre quei disgraziati che avevo osservato talvolta mentre guardavano con aria contrita attraverso le sbarre di una prigione; mentre il suo corpo, tutto coperto con figurazioni di pesci ed uccelli, nonchè di una varietà di esseri fantastici, mi faceva pensare a un museo di storia naturale.

Ma temo di essere senza cuore a parlare così di quel povero isolano, cui in gran parte devo, per le sue cure affettuose, d’essere ancora al mondo.

Credi, Kory-Kory, che io non intendo offenderti in quel che dico circa gli ornamenti di cui sei ricoperto; ma in verità i miei occhi non avevano mai contemplato prima d’allora nulla che ti rassomigliasse, ed è perciò che mi dilungo alquanto sull’argomento. Ma quanto a dimenticare i tuoi fedeli servigi o non apprezzarli come meritano, è questa una colpa che, non dubitare, non potrà mai essermi imputata.

Il padre del mio affezionato servitore, era un indigeno di corporatura gigantesca, che nel passato doveva aver posseduto una forza fisica prodigiosa; ora però le sue nobili membra cominciavano a risentire degli assalti del tempo, sebbene nessuna malattia avesse lasciato la sua traccia nel vecchio guerriero. Marheyo – tale era il suo nome – sembrava essersi ritirato dalla vita pubblica della vallata, e non accompagnava più che ben raramente gli indigeni nelle loro diverse spedizioni. Egli impiegava tutto il suo tempo a costruire una piccola tettoia vicino alla casa, e sebbene, da quel che sembrava, vi fosse impegnato da quattro mesi, non pareva essere andato molto avanti; e certo egli doveva essere alquanto rimbambito, poichè anche in altra guisa manifestava le anomalie caratterizzanti la senilità.

Ricordo in modo speciale che egli possedeva un paio di ornamenti per le orecchie, fabbricati coi denti di un mostro marino. Questi orecchini egli se li metteva e toglieva almeno cinquanta volte al giorno mentre andava o ritornava dal suo piccolo capanno in costruzione, e ciò sempre colla più grande tranquillità. Talvolta li infilzava nelle orecchie e poi afferrava la sua lancia, che, come lunghezza e leggerezza era simile a una canna da pesca, e così equipaggiato percorreva a gran passi le boscaglie vicine quasi dovesse scontrarsi con qualche guerriero nemico. Ma ben presto se ne ritornava, e dopo aver nascosto la sua arma sotto le grondaie della casa e aver fasciato i suoi ornamenti con gran cura in un lembo di tappa, riprendeva le sue più pacifiche operazioni colla stessa calma come se non le avesse mai interrotte.

Ma ad onta delle sue eccentricità, Marheyo era un vecchione dei più paterni e affettuosi, in ciò rassomigliando non poco a suo figlio Kory-Kory. La madre di questo era la padrona della famiglia e una massaia emerita delle più laboriose. Non conosceva, è vero, l’arte di fare gelatine, marmellate, creme, ciambelle e altre simili inutili ghiottonerie; ma era abilissima nel preparare 1’«amar», il «poee-poee» e il «kokoo» ed altra roba sostanziosa. Era d’un’attività sorprendente; sempre in moto per la casa, come una padrona all’arrivo d’un ospite inaspettato. Non era mai stanca di dare dei lavori da fare alle ragazze, lavori che le bricconcelle il più delle volte trascuravano. La si vedeva ficcare il naso in ogni angolo, frugare nei fagotti di vecchia tappa, o magari fare un gran fracasso fra le calebasse. Talvolta, accosciata in terra dinanzi a un grande catino di legno, impastava il «poee-poee.» con terrificante veemenza, menando il pestello di pietra con tale forza come se volesse mandare in pezzi il recipiente; oppure altra volta, correva per la vallata alla ricerca di foglie speciali che usava per qualcuna delle sue misteriose operazioni, e faceva ritorno a casa curva e sudata con un carico sotto il quale molte altre donne si sarebbero abbattute.

A dir il vero, la madre di Kory-Kory era l’unica persona laboriosa in tutta la valle di Typee, nè avrebbe potuto darsi maggiormente d’attorno se fosse stata una povera vedova, con una nidiata di bimbi da allevare, in una delle più impervie regioni del mondo civilizzato. Infatti la brava signora faceva un gran numero di lavori assolutamente inutili; ma si sarebbe detto che lavorasse così per irresistibile impulso, le membra sempre irrequiete, come se nel suo corpo vi fosse un infaticabile meccanismo che la mantenesse in perpetuo moto.

Non si creda però che essa fosse una borbottona o una bisbetica; possedeva invece il cuore più buono di questo mondo e a me, sopratutto, mi trattava in modo veramente materno. Quante volte mi offrì qualche boccone prelibato, qualche pezzo di pasticceria esotica, proprio come avrebbe fatto una madre amorosa con un bimbo ammalato!

Oltre gli individui da me descritti, appartenevano alla casa tre giovanotti, fannulloni e chiassosi che non s’occupavano d’altro se non d’amoreggiare colle fanciulle della tribù, o d’ubbriacarsi con l’«arva» e col tabacco insieme a compagni, scapestrati al par di loro.

Tra gli ospiti permanenti della famiglia vi erano pure alcune amabili damigelle, le quali invece di strimpellare il pianoforte o di leggere romanzi come signorine più evolute, sostituivano a queste occupazioni la manifattura di una fine qualità di tappa; la maggior parte del tempo lo passavano però a passeggiar con le amiche o a pettegolare in casa dei vicini.

Faceva tuttavia eccezione la vaga ninfa Fayaway, che era la mia preferita. La sua figurina snella e flessuosa era un portento di grazia femminile. Aveva il colorito olivastro su cui talvolta appariva un velo di trasparente vermiglio. Il volto era d’un bellissimo ovale ed ogni suo tratto possedeva una rara perfezione di disegno. Se le sue tumide labbra si schiudevano al sorriso, scoprivano denti di abbagliante nitore; e quando la rosea sua bocca si apriva a un gaio riso, essi rassomigliavano ai semi lattei che l’«arta», dolce frutto della vallata, se spaccato in due parti, lascia scorgere in riga dai due lati, incastonati nella sua polpa rossa e succosa. I suoi capelli di un bruno fosco, si dividevano irregolarmente sul sommo del capo, e le scendevano naturalmente ricciuti, sugli omeri e sul petto. Se si fissavano le azzurre profondità dei suoi strani occhi allorchè essa era assorta in qualche pensiero, parevano placidi come le acque d’un lago, sebbene altrettanto inscrutabili; ma se invece essi fulgevano per qualche viva emozione, a chi li fissava parevano stelle. Le manine di Fayaway erano morbide e delicate come quelle d’una contessa; poichè è bene saperlo: una totale astensione da ogni rude lavoro, è un privilegio dell’adolescenza e della prima giovinezza delle donne Typees. I suoi piedi, quantunque completamente esposti, erano piccoli e di forma aggraziata come quelli che spuntano dalla veste di una dama di Lima. Quanto poi alla pelle della giovane creatura, a cagione delle continue abluzioni e per l’uso di unguenti emollienti, essa era morbidissima e di un nitore addirittura abbagliante.

Può darsi ch’io riesca a dare un’idea di alcune particolari caratteristiche della bellezza di Fayaway, ma nel suo assieme tale bellezza supera ogni mio potere di descrizione. Come infatti descrivere le grazie fresche ed ingenue di una figlia della natura che sin dall’infanzia respirò in un’atmosfera di perpetua estate, nutrendosi dei semplici frutti del suolo, e che sempre potè godere della più sconfinata libertà, scevra da ogni preoccupazione e da ogni cura?

Se mi si domandasse se le vaghe sembianze di Fayaway fossero del tutto esenti dall’orribile tatuaggio, sarei obbligato a rispondere negativamente. Ma i professori di quest’arte barbara, così spietati per le muscolose membra dei guerrieri della tribù, sembravano comprendere che non erano necessarie le risorse del loro mestiere per aumentare i vezzi delle fanciulle della vallata.

Infatti le donne presentavano pochi abbellimenti di questo genere, e Fayaway, come tutte le altre fanciulle sue coetanee, ne presentava ancor meno delle donne più avanzate in età. Di ciò darò ragione più avanti. Quanto a Fayaway, tre piccoli puntini, appena grossi come testine di spilli, decoravano il suo labbro superiore, e, a una certa distanza non si discernevano neppure. Inoltre sulla spalla, proprio dove comincia il braccio, erano disegnate assai vicine due righe parallele non più lunghe di tre centimetri, e nello spazio tra esse compreso si vedevano figurine di delicata esecuzione. Queste sottili striscie di tatuaggio mi richiamavano sempre al pensiero quei galloni dorati portati dagli ufficiali in bassa uniforme e che tengono il posto delle spalline per denotarne il grado.

Questo era tutto il tatuaggio di Fayaway. La mano audace che era giunta a tanto in quella profanazione, si era a un tratto fermata, forse perchè le era mancato il coraggio di proseguire.

Ma mi accorgo di non avere ancora descritto l’abbigliamento di Fayaway.

Fayaway – devo pur confessarlo – si atteneva fedelmente al primitivo ed estivo costume del Paradiso Terrestre. Ma quanto le stava bene quel costume! Faceva risaltare alla perfezione il suo bellissimo corpo, e nulla poteva meglio convenire allo speciale tipo della sua avvenenza. Di solito il suo abbigliamento era identico a quello dei due giovanetti da noi incontrati al nostro primo entrar nella valle. Altre volte, quando girava per la selva, o andava a visitare le sue conoscenze, indossava una tunica di tappa bianca che dalla vita giungeva un poco al disotto delle ginocchia; se poi doveva rimanere esposta lungo tempo al sole, essa si difendeva invariabilmente dai suoi raggi con un mantello dello stesso tessuto, raccolto mollemente intorno alla persona. Quanto al suo vestito di gala, lo descriverò più avanti.

Come le belle signore dei nostri paesi amano adornarsi di fantastici gioielli, appendendoli alle orecchie, o circondandosene il collo o avvincendone i polsi, così anche Fayaway e le sue compagne avevano l’abitudine di ornarsi in modo consimile.

Flora era il loro gioielliere. Talvolta portavano collane composte di piccoli garofani, infilati a guisa di rubini in un sottil filo di tappa, oppure sfoggiavano agli orecchi due bianchi boccioli, gli steli infilati nei fori come gambi di orecchini, e i candidi petali riuniti davanti simili a due perle. Sovente la loro fronte era cinta di un serto di fiori, e pure di fiori artisticamente intrecciati avevano adorni polsi e caviglie. In verità, le fanciulle dell’isola amavano pazzamente i fiori e mai non si stancavano di adornarsene.

Quantunque ai miei occhi Fayaway fosse indiscutibilmente la più bella fra le belle di Typee, pure debbo dire che la descrizione da me fattane può applicarsi a quasi tutte le fanciulle della vallata. Da questo giudichi il lettore quale accolta di belle creature rallegrasse quei luoghi.