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Le mie prigioni/Cap XXXI

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Capo XXXI

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Cap XXX Cap XXXII


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Capo XXXI.

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Io non posso parlare del male che affligge gli altri uomini; ma quanto a quello che toccò in sorte a me dacchè vivo, bisogna ch’io confessi che, esaminatolo bene, lo trovai sempre ordinato a qualche mio giovamento. Sì, perfino quell’orribile calore che m’opprimeva, e quegli eserciti di zanzare che mi facean guerra sì feroce! Mille volte vi ho riflettuto. Senza uno stato di perenne tormento com’era quello, avrei io avuta la costante vigilanza necessaria, per serbarmi invulnerabile ai dardi d’un amore che mi minacciava, e che difficilmente sarebbe stato un amore abbastanza rispettoso, con un’indole sì allegra ed accarezzante qual’era quella della fanciulla? Se io talora tremava di me in tale stato, come avrei io potuto governare le vanità della mia fantasia in un aere alquanto piacevole, alquanto consentaneo alla letizia?

Stante l’imprudenza de’ genitori della Zanze, che cotanto si fidavano di me; stante [p. 103 modifica]l’imprudenza di lei, che non prevedeva di potermi essere cagione di colpevole ebbrezza; stante la poca sicurezza della mia virtù, non v’ha dubbio che il soffocante calore di quel forno e le crudeli zanzare erano salutar cosa.

Questo pensiero mi riconciliava alquanto con que’ flagelli. Ed allora io mi domandava:

— Vorresti tu esserne libero, e passare in una buona stanza consolata da qualche fresco respiro, e non veder più quell’affettuosa creatura? —

Debbo dire il vero? Io non avea coraggio di rispondere al quesito.

Quando si vuole un po’ di bene a qualcheduno, è indicibile il piacere che fanno le cose in apparenza più nulle. Spesso una parola della Zanze, un sorriso, una lagrima, una grazia del suo dialetto veneziano, l’agilità del suo braccio in parare col fazzoletto o col ventaglio le zanzare a sè ed a me, m’infondeano nell’animo una contentezza fanciullesca che durava tutto il giorno. Principalmente m’era dolce il vedere che le sue afflizioni scemassero parlandomi, che la mia pietà le fosse cara, che i miei consigli la persuadessero, e che il suo cuore s’infiammasse allorchè ragionavamo di virtu e di Dio.

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— Quando abbiamo parlato insieme di religione, diceva ella, io prego più volentieri e con più fede. —

E talvolta troncando ad un tratto un ragionamento frivolo, prendeva la Bibbia, l’apriva, baciava a caso un versetto, e volea quindi ch’io gliel traducessi e commentassi. E dicea: — Vorrei che ogni volta che rileggerà questo versetto, ella si ricordasse che v’ho impresso un bacio. —

Non sempre per verità i suoi baci cadeano a proposito, massimamente se capitava aprire il Cantico de’ Cantici. Allora, per non farla arrossire, io profittava della sua ignoranza del latino, e mi prevaleva di frasi in cui, salva la santità di quel volume, salvassi pur l’innocenza di lei, ambe le quali m’ispiravano altissima venerazione. In tali casi non mi permisi mai di sorridere. Era tuttavia non picciolo imbarazzo per me, quando alcune volte non intendendo ella bene la mia pseudo-versione, mi pregava di tradurle il periodo parola per parola, e non mi lasciava passare fuggevolmente ad altro soggetto.