Elegie romane/IV/Ave, Roma
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AVE, ROMA
Esule anch’io, pensoso di te, di te sempre pensoso,
2Roma, non fra gli intonsi barbari Ovidio sono;
ne mi colpì lo sdegno di Cesare, ma la funesta
4dea che la tua campagna orrida e sacra tiene.
Mi visitò nel sonno la livida Febbre; e il mortale
6tossico, me misero!, tutto il mio sangue tiene.
Lugubre è il mio perire, se ben non sia questo il feroce
8Ponto e non la scitica freccia nei cuore io tema.
Sotto sereni cieli più duro è l’esilio a tal cuore
10cui più nessuna cosa che amò rimane.
Stanca è la carne e spira già l’anima, in questa incompresa
12pace. Oh lasciate un’Ombra verso la morte andare!
Tutto è sereno. Il flutto è docile. Incurvasi il lido
14come una lira, dove sorgono emerocàli
simili agli asfodeli che illustrano i clivi de l’Ade,
16candidi. Ma non questa pace il morente chiede.
Chiede il silenzio immenso, eterno, che sta su l’immoto
18fascino del deserto onde tu sorgi, o Roma.
Quale alto monte, quale oceano infinito, qual somma
20tenebra vince tanta solitudine?
Quivi la morte sia. Ti vegga da lungi più grande
22d’ogni più grande cosa il morituro e — Ave —
dica — o tu, Roma, tu dolce e tremenda! Ave, o Roma
24unica, o dell’anima nostra unica patria!