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Pagina:Serao - La conquista di Roma.djvu/415

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La Conquista di Roma 411

nato da un sol pensiero, è vero, ma infine avendo tutte le apparenze dell’esistenza. I colleghi lo incontravano, discutevano con lui di politica, egli li ascoltava, macchinalmente, rispondeva loro, come un musicista che suona a orecchio; fingeva d’interessarsi ancora alla sua vecchia passione, — era ancora vivere, quello. Ma, ora, fra lui e la politica, fra lui e la vita, una grande divisione era accaduta: egli compariva un minuto solo a Montecitorio, di buon mattino, per quell’abitudine di aprir la posta, poi il quartierino di Piazza di Spagna ingoiava quel pensiero e quell’azione, sequestrava l’attività e l’attenzione di Sangiorgio. Tanto che, alla sera, quando si metteva in giro, per cercare donn’Angelica, egli ricascava nella vita, come un trasognato, non sapeva nulla, non aveva inteso e visto niente, non aveva parlato con nessuno, non aveva letto i giornali, aveva l’aria rimbecillita: tanto che sul conto suo cominciavano a correre di questi giudizi:

«Quel Sangiorgio! pareva una forza, ma che delusione....»

«Tutti così i meridionali: gran fuoco di paglia che non illumina, nè riscalda...»

«Uomo finito, Sangiorgio...»