Antonio Rosmini/IX

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Capitolo IX

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VIII X


Il Rosmini aveva educato il senso del bello non solo nelle armonie e ne’ colori e ne’ rilievi e nelle strutture della parola, e nel congegno de’ grandi concetti; ma giovanetto ancora era iniziato all’esercizio del disegno1 e proponeva farne studio e sollievo agli studi: senonchè il suo volo lo sospinse più in alto: e meglio che imitare un fiore o le forme d’un poggio, e far che spiri da esse il sentimento d’un’idea, meglio fu consacrarsi a perfezionare gli spiriti, e il regno delle idee dilatare; meglio che disegnare masse d’ombre o di luce, architettare edifizii di scienza che offrissero ricetto ospitale alle anime stanche, e dal cui pinnacolo poter dominare con l’occhio la soggiacente natura. All’ammirazione continua e quasi domestica dei grandi esemplari dell’arte, l’aveva formato Ambrogio suo zio, del quale egli parlava sovente con gratitudine di discepolo e riverenza di figlio. Questi, e Modesto padre d’Antonio, erano stati nel Collegio di Siena, nel quale convenivano gentiluomini da tutta Italia; e senza tanti vanti di ventosa unità avevasi forse l’istinto dell’unità più che adesso; e l’Italia, per la men servile ripetizione di cose e parole straniere, per la conformità degli studi e delle credenze, per lo spontaneo accordarsi de’ principi anco stranieri che la reggevano a novità fruttuose, per lo stesso men disputare che facevasi d’unità, era moralmente più una. E da’ colloquii dello zio avrà forse il Rosmini attinto, meglio che da’ libri e da’ consigli de’ maestri imitatori del linguaggio toscano per soverchia fedeltà infedeli, il gusto delle toscane eleganze. Aveva Ambrogio in sua casa collezione ricchissima di stampe belle di tutti i tempi e delle varie maniere; e istillava nel nipote l’amore segnatamente di Raffaello, nella cui vista assidua l’occhio e il sentimento di lui si educavano come in colloquii d’amico. L’espressione morale vagheggiava egli però fin d’allora; e di lì l’esteriore eleganza vedeva fiorire, come da causa gli effetti. Fece poi nel 1823 il viaggio di Roma, e conobbe Pio VII; e raccontava come il buon vecchio si compiacesse in ragionare di Napoleone, non come del suo carceriere, con quella pace ch’è propria de’ non ingenerosi anche offesi, con l’equità ch’è debita massime a’ vinti, con la riverenza affettuosa che la virtù vera sente verso le grandi facoltà largite da Dio anco a chi non sempre ne faccia buon uso: e forse il prete, senza renderne ragione a sè stesso, sentiva di non essere stato mai tanto re quanto allora che re non era, e invece di rancore provava, mista a pietà, gratitudine verso il potente caduto che gli aveva fatto sperimentare un nuovo genere di più quieta e più cristiane potenza.

Le memorie dell’arte rimasero sempre al Rosmini care: e quando nel 1831, ch’era uscito già il Nuovo Saggio e la Metafisica lo aveva tutto, quando ci incontrammo in Firenze lung’Arno, egli si ricordò del ponte dell’Ammannati come di memoria patria; e quando nel quarantotto stette in Roma a più lungo soggiorno, scriveva di quella città com’uomo che le cose meglio conosciute con nuovo studio rinnovella nel proprio pensiero, e con la triplice fede nel vero e nel buono e nel bello ricrea i monumenti e risuscita i secoli. Ma il suo sentire dell’arte era tutto italiano: e comparando la scultura italiana con le prove del più insigne fra gli stranieri, il Thorvaldsen, in quegli atteggiamenti, in que’ lineamenti cercati dal Danese, sebbene formatosi alla scuola d’Italia, notava non so che d’inamabile nella stessa bellezza, non so che d’incompiuto e di manco. Perchè la bellezza compiuta era a lui quella che accogliesse meglio in sè le più comuni forme del genere rappresentato, e che idoleggiando l’universale, richiamasse con più verità maggior copia d’oggetti cioè d’idee, parlasse quindi a maggior numero d’intelletti e di cuori, e maggiore dovizia di concetti e di sentimenti creasse. Nè però quella forma d’arte che dicesi gotica, intorno alla quale sì nuove cose argomentò Carlo Troja con dotta divinazione, era ineloquente a’ suoi occhi; quantunque egli ammirasse nell’architettura palladiana quell’armoniosa pace e semplicità che all’occhio insieme ed all’anima è lieto riposo. Così tuttocchè innamorato della casta poesia di Virgilio, sentiva nel Messia del Klopstock un’aura di sacra mestizia spirare tra quelle fronde per troppa spessezza languide; e forse la tenerezza che gliene veniva all’animo era un presentimento de’ suoi proprii immaculati e sereni dolori.

Note

  1. Lo dice in questi versi stampati nel 1818 al suo condiscepolo abate De Apollonia di Romans nel Friuli:

     
    De’ cari genitori e colti amici
    Fra le soavi, aperte, allegre braccia
    La pura a respirare aura natia;
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Vissi tranquilli dì, vissi a me stesso,
    Alla natura io vissi; essa medesima
    Colle candide man cibi, conditi
    Di campestre appetito (o dolci cibi!),
    E salubri bevande mi porgea.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Quanti aspetti ella prende, e come cangia
    Semplicemente vaga e forme e modi,
    In sì superba e ricca gloria, umile!
    S’io mi rivolgo della mia casetta
    Dalla parte ove pria l’allegra aurora
    Sparge le rose, e seco suol di spesso
    Condurmi il coro delle amiche Muse;
    Il dorso ignudo del Volanio monte,
    Che sol picciola selva nutre ai piede,
    D’una bella orridezza il guardo appaga.
    E corre a mezzodì di colli ameni
    Con perpetua catena. . . . . . . . . . .
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . .e boschi antichi,
    Ed or squarciati e rosseggianti fianchi,
    Nude pendici inospite e selvagge,
    E di sonanti acque cascate, ed erti,
    Ch’attorcigliano i monti, aspri sentieri,
    E ovunque vaghi paesetti sparti,
    O biancheggianti solitarie case,
    Che dolce e lungo essere potranno un giorno
    Del mio pennello, io spero, amore e cura.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Sia che di scelte e saporose frutta
    A frugal desco entro la mia capanna
    Co’ buoni amici garrulo m’onori.
    Oh perchè non son sempre i dì sereni?
    Perchè del primo, egual, tepido autunno
    Non sempre le tranquille ore vissute
    Fra quelle dolci mie latèbre amene?
    Sebben che parlo? Ah desio vano aduno.
    E non so forse che la vacua villa
    Bella par più, perchè ci tien, fuggiti
    Dalla rëál della città prigione?
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    E ’l Sagittario d’antepor, consiglia
    La città più guardata e più ben chiusa
    All’aperta, ventosa, umida villa,
    Ora ch’e’ già l’inverso anno contrista,
    E con perpetue pioggie infredda e bagna
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .