Antonio Rosmini/XI

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Capitolo XI

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L’autorità del consiglio, e anco dell’ammonizione, gli veniva non solo dalla virtù e dal senno maturi nell’età giovanile, ma dalla condizione sua stessa di gentiluomo ricco in paese piccolo, della quale egli però non ha mai abusato; e questa direi una delle sue doti più preziose. A lui giovò grandemente l’educazione tutta domestica a svolgere liberamente l’ingegno fuor delle pastoie della scuola, fuor delle corruzioni e de’ chiassi del collegio, fuor delle gelosie e delle vanità che suscita il paragone fra condiscepoli inuguali di fortuna e di pregi, fomentate da quella pericolosa emulazione con che i maestri attizzano improvvidamente l’orgoglio e si fanno un’arte e un debito di seminare la passione fra i triboli della grammatica e le erbacce dell’umanità; fuori delle puerilità che s’attaccano da ragazzo a ragazzo quasi contagio pruriginoso. E ancora più gli giovò l’educazione domestica a tenergli l’animo verecondo e raccolto, a farlo amico de’ suoi maestri, a nutrirlo di quegli affetti che gli serenarono tutta la vita facendolo capace d’amicizie candide non meno che ardenti. La potenza dell’affezione era tanto in lui più feconda quanto più contenuta dalla virtù, e, quasi direi, meditata, e con gli apparecchi degli anni primi, non meno del suo sapere, educata. E siccome egli fu dotto perchè fin dal primo volle essere dotto per bene adempire gli uffizi della vita; così fu vero amico, perchè fin dal primo sentì l’amicizia come naturale istinto e come morale necessità, la coltivò com’arte bella, come difficile scienza e profonda.

Uscito agli studi dell’Università di Padova ov’io lo conobbi, diffuse su’ nuovi conoscenti che a lui ne paressero non immeritevoli quella ricchezza d’affezioni domestiche, la quale egli aveva raccolta in sua casa come uomo che risparmia saviamente per generosamente poi spendere. Tuttochè preso dall’amore degli studi, e rigido estimatore del prezzo del tempo, e’ ne donava con gioia a’ colloqui amici, i quali, massime se versassero in argomenti di filosofia, prolungava nella notte tarda; e le obbiezioni accettava non solo con sofferenza ma con diletto sì per lo zelo di comunicare ad altri la verità posseduta, sì per il merito di pur provarsi di comunicarla anche a chi gli appariva troppo lontano dal riceverla in sè o poco idoneo a riceverla mai, sì perchè quelle dispute vivacissime ma sempre pacifiche e gaie gli addestravano la parola e la mente, lo raffermavano nei suoi principii o gl’insegnavano come meglio dichiarare e temperare e ampliare (che talvolta si temperano ampliando), e gli aprivano a nuovi prospetti d’idee l’intelletto. Così i suoi diporti stessi e quei perditempi che richiede la vita corporea e la sociale, erano a lui meditazione continua; e l’affetto gli si smaltiva in idea.

Ma questo affetto, quantunque tenesse della tenerezza materna, non era mai scompagnato da un quasi paterno rigore; nè la tenerezza gli toglieva mai il sentimento de’ difetti altrui, nè il rigore lo faceva voglioso dell’importunamente correggerli, o nè anco del freddamente ammonirne, ma, bastandogli di dar modestamente a conoscere com’egli li conoscesse e non li approvasse, lasciava al tacito esempio e al tempo e a Dio e alla creduta bontà dell’amico l’agio e la libertà d’operare. Nè io mai vidi in altr’uomo, credente o no, tolleranza più vera perchè conciliata a benevolenza e a pietà riverente, perchè conscia de’ danni del male e del falso, e della bellezza del Vero, perchè fatta più meritoria dall’ardente amore del buono, e dalla cura incessante d’acquistarli e di diffonderli massime nelle anime che più prossimamente egli amava.

I quali la morte venne via via mietendo, non sì che non gliene restassero de’ primi, e che altri fidati non gli si aggiungessero via facendo, più atti forse a stimarlo, ma non tutti abbracciati con quella pienezza d’affezione che stringe le amicizie della prima giovinezza. E di quel vuoto fattosi intorno a lui si doleva il Rosmini, sebbene rassegnato e avente fede nel consorzio degli spiriti e nella immortalità dell’amore; e la memoria de’ cari perduti coltivava come pianta ospitale provvida d’ombre allo stanco viandante e di frutte odorate. Di Maurizio Moschini, giovane buono che fu suo lettore e attendeva a studi altri da’ suoi e incomparabilmente minori, conservò ricordanza religiosa; e in versi lo pianse; e lo fa interlocutore di suoi Dialoghi filosofici, ponendone, al modo che Agostino fa, il nome senza il casato, per gentile modestia, e come d’uomo che a tutti doveva essere noto siccome a lui. Ebbe amico tra gli altri Giovanni Stefani, amico a me e come fratello, il quale da trent’anni lontano dall’Italia, conservò e l’amicizia del Rosmini e l’anima pura e il cuore Italiano, e Italiano il senso del bello; e si rammaricava, ma non s’irritava, ch’egli, lo Stefani, non desse frutti quali doveva d’ingegno; tanto l’amicizia e la virtù lo facevano indulgente a’ difetti da’ quali più la sua natura aborriva. Gli fu scrittore ed amico D. Paolo Orsi, anima mite e serena: e io credo che il poter dettare a uomo con cui si consenta, e che del tuo pensiero che mano mano si venga svolgendo congioisca col cuore insieme e coll’intelligenza, gli sarà stato non pure alleviamento di fatica, ma benefica ispirazione. Gli fu maestro ed amico il fratello dell’altro, l’Ab. Pietro Orsi, acuto ingegno, pensatore ornato di lettere, cuore schietto; al quale il Rosmini dovette l’essere iniziato nelle dottrine tedesche con la scorta del senno Italiano; e nella Introduzione alla Filosofia ne ragiona con la gratitudine della quale mai le anime ricche non sono avare. In Milano ebbe amico non così stretto, ma ammiratore cordiale, tra gli altri, l’Ab. Polidori di Loreto, il cui fratello fu condiscepolo e amico d’un mio zio in quel collegio, ove andavano chierici di Dalmazia a educarsi; e io tra fogli di famiglia ritrovai lettere d’esso mio zio latine davvero per pensata eleganza, a questo Polidori che credo sia il Cardinale: ma non me ne sono mai accertato. Così le tradizioni delle nazioni varie e degli uomini lontani, delle lingue e delle sorti diverse, non il caso ma una provvida legge le viene conciliando, intessendo: e gli affetti e gli studi e le opere più differenti rinvengono nel passato una radice comune, e una ragione di sè.