Antonio Rosmini/XVII

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Capitolo XVII

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XVI XVIII


L’ordine ch’egli segue ne’ suoi trattati, non sempre il perfettissimo prova anch’esso però la chiarezza e il vigore di quella mente; ed è tutt’altro da quel lavorìo che taluni ammirano ne’ Francesi, i quali sono meritatamente lodati per l’arte di comporre libri in modo chiaro e facile a leggere; ma non sempre corrisponde la profondità alla chiarezza, la sodezza alla facilità. La facciata del loro edifizio è sovente d’architettura regolare, ma non sempre le parti interiori si convengono con la facciata. Nel Rosmini l’ordine stesso delle idee manifesta la loro pienezza: le suddivisioni precise insieme e feconde, non isminuzzano; le tavole e i sunti raccolgono, non dissipano, la mente. Per riposarla, e perchè ciascuna delle dimostrazioni importanti s’abbia la sede propria, egli si ferma di tanto in tanto, e comincia un capitolo nuovo e lo intitola continuazione: poi, fatto un buon tratto del cammino, si volge indietro a misurare con l’occhio la via e a mostrare dall’alto a’ suoi compagni il prospetto soggiacente. Le sue ricapitolazioni sono insieme sunti di quel che resta a vedere, e preparano a nuove cose l’intelligenza. Se nelle note talvolta gli viene gettato qualche concetto che meglio andava nel testo: se verso il termine del suo viaggio gli accade di dover additare cose alle quali meglio era fermarsi quando ci si passava vicino: cotesto sempre novello svolgersi del suo pensiero, cotesta quasi prodigalità attesta la sua grande ricchezza, ed è difetto de’ rari.

A riconoscere quanta sia questa ricchezza, non c’è che da prendere i titoli e gli assunti di ciascun capitolo, di ciascun articolo dei suoi libri, e raffrontarli con quanto contengono le opere filosofiche d’antichi e moderni più meritatamente celebrate. Quand’anco la soluzione delle questioni non paresse così retta e nuova come forse parrà agli avvenire; il pur còrre questioni nuove, o le vecchie e l’una con l’altra intralciate, distinguere, ch’è una innovazione più difficile e più benefica forse; pur questo solo avrebbe ampliati i limiti della scienza, affinati gli organi alla vita dell’umano pensiero. Ognun sa come il discernere dove stia la difficoltà, sia la prima condizione del poter superarla; ognun sa come la storia della filosofia si componga di questioni nuove che fa l’uomo a sè stesso, o di presentate in modo nuovo, che coll’insolito prospetto riscuotono l’attenzione languida, e aggiungono alla ricerca del Vero la grata ansietà del dubbio onesto e il pungente sollecito della curiosità; come in questo sia il pregio principale della dottrina Socratica ammaestrante più con le interrogazioni che colle affermazioni; come Cristo stesso sovente istruisca interrogando; come nella domanda fatta bene, la risposta si trovi meglio che in germe racchiusa. Il Rosmini, più potentemente di Socrate, fa da levatrice al pensiero, perchè non solo sovviene al parto, ma alla formazione del concetto, e i concetti nati in luce difende e alimenta. Si paragoni il dubbio socratico perfezionato dal Rosmini, dubbio che conduce a certezza, colle asseverazioni del Bentham e degli uomini del secol passato, de’ cui principii il Bentham non fa che mostrare con vanto sincero lo scheletro arido come bellezza suprema e soprabbondante di vita. Si paragoni quel poco che il Rosmini come per digressione accennò delle sue idee cosmologiche con quanto ne ragiona di proposito l’Humbolt, uomo di sì ricco ingegno, di sì ricca esperienza e dottrina; e vedendo come da quella accumulazione di fatti il Tedesco non sappia o non voglia dedurre alcun principio fecondo, e nè anco di quelle leggi di seconda e di terza mano, la cui vista parrebbe possibile anco alle menti orbate d’ogni credenza, parrebbe anzi impossibile che non l’abbiano; e si sentirà di che doti abbia Dio forniti gl’ingegni italiani, non per inorgoglirne ma per tremare del facile abuso, e per ammirarle in chi più risplendono; si sentirà quanto aiuti la tradizione umile della fede ai voli animosi della scienza; si sentirà più dolore che il Rosmini sia morto innanzi d’esporre sul grande argomento delle leggi cosmiche le idee che fin dalla giovane età meditava. Le quali avrebbero vie meglio dimostrato quanta poesia s’ascondesse ne’ pensamenti di quell’anima austera: poesia che, anco quale traspare dalle opere che ne abbiamo, se già non fosse grazie al Cielo passata la stagione de’ poemi didattici, offrirebbe materia a ben più sereno e più imaginoso e più affettuoso poema che non sono quelli di Lucrezio gentiluomo romano, del Polignac principe Cardinale della Chiesa di Roma, e dello Stay gentiluomo raguseo e segretario de’ principi della Corte di Roma. Il Rosmini, che fu cardinale e non fu, ma non fu mai cortigiano se non di principe scaduto, gentiluomo povero nella ricchezza, e veneratore della sventura dovunque ella fosse; il Rosmini è più poeta nella filosofia che ne’ versi, e più nella vita che nella filosofia: e lo dimostra, fra le altre cose, quant’egli dice dell’applicare l’imaginazione, nella sua potenza più affine al sensibile, ch’egli chiama sensi immaginarii, alle meditazioni religiose; quello ch’egli ragiona intorno alla fantasia, e in ispecial modo intorno alla vita della materia che a noi pare inanimata, alle leggi degli enti e alla loro armonia.