Antonio Rosmini/XXI

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Capitolo XXI

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A gran Sole grande occhio, dice il proverbio toscano: e a dire dell’ingegno e dell’animo del Rosmini vorrebbesi animo e ingegno pari. Egli in gioventù ridiceva, dando a sentire quant’alto lo sentisse, quel che Agostino dice d’un giovane: Horrori mihi erat ingenium illud. E gl’ingegni grandi, a lui che sapeva e amava ammirare, mettevano un lieto sgomento; come quando il poeta fra le bellezze della terra e dell’acque e del Cielo sereno dice pien di spavento1: Costei per fermo nacque in Paradiso, meglio dell’altro: Che di vederli in me stesso m’esalto. Il Rosmini, con la coscienza di sè umile ed alta indovinava gl’ingegni ignoti a sè stessi, e li aveva in riverenza come cosa divina; sempre però distinguendo il divino dall’umano, e non solo astenendosi dal piaggiare o dal condiscendere, ma con la lode stessa ispirando umiltà. Quel ch’egli insegnò de’ gradi del bene, cioè dell’essere, lo sentì per istinto; e a ciascun grado commisurava la stima e l’affetto, avendone in sè la norma suprema. La qual cosa e’ significa con una sentenza che par suonare ironia, come sogliono le cose vere dette con semplicità, ma è seria molto: E potrei io rendere all’uomo la stima ch’egli si merita se non m’avessi l’idea dell’uomo? e mi saprei io punto che l’uomo val più del bue, che non debbo sommettere a questo quello, se nell’idea che ho della natura umana non ne leggessi la dignità? Sapeva egli apprezzare un pregio, anche solo che fosse: e un giorno che parlavasi di certa scoperta elettrica fatta dal veronese Zamboni (che villeggiava anch’egli in autunno a Rovereto, e facevano di quella terra un’Accademia tra urbana e arcadica, tra grave e gioviale, ma di cordialità ai letterati d’oggidì inusitata e incredibile), dimostrando io di non ammirare quella scoperta come gloria durevole, e altri sdegnandosi della mia irriverenza, egli senz’aria di riprendere nè me nè l’altro, rispose con voce piana: immortalità di cartone. Con questo discernimento egli pregiava il Cesari più che non si facesse da tanti, e riconosceva in lui molto più sapere che dalle opere sue non appaia. Così discernendo i germi del bene nel male stesso, e i difetti negl’ingegni ammirati, non si lasciava nè abbagliare all’affezione nè allo zelo offuscare.

Della probità sua nel recare le sentenze d’altri autori, nel non dissimulare le avverse, nell’ingegnarsi di conciliarle alle proprie senza sforzo prima di combatterle, nell’attribuire a ciascuno il merito suo, nel riconoscere debito ad altri anco il germe di quella verità ch’egli ha poi fecondata (germe impercettibile talvolta, che potevasi senza punto vergogna lasciare nascoso); di tale probità superfluo fare lungamente parola. Nessuno forse penetrò più addentro di lui nelle dottrine dell’Aquinate, ingegno sereno ancor più che profondo, anima generosa non meno che pura, che i suoi ardori raccolse sotto la fredda e bruna scorza dell’argomentazione, come la terra, che nella sua faccia ha massi e acque e rena, cela dentro le fiamme. La filosofia italiana, da’ Pittagorici al Galluppi, ha da Rosmini l’onore debito, anzi più grande onore di quel ch’ella seppe acquistare a sè stessa; perchè il Rosmini è tal mente e tal cuore che non solo non tiene di potersi far bello dell’altrui, ma non può a meno che non doni del proprio ad altrui, come corpo lucente, che non sarebbe lucente se gli altri non raggiasse di sè. Di coloro de’ quali e’ non può accettare in intero le opinioni, attenua con rispettoso linguaggio i difetti, dicendo per esempio: colsero il principio, ma non lo espressero bene. Anco a coloro da cui dissente, dà lode, se, pure errando, come pare a lui, abbian fatta punto avanzare la questione: giacchè nella ricerca e del Vero e del Bene due sono i processi, sapere ove stia il punto da cogliere, e coglierlo; e l’uno e l’altro processo ha i suoi gradi. Non è però che a’ più benemeriti egli non serbi più riconoscenza, e più ammirazione ai più grandi: ammirazione che il più sovente si esprime con una modesta ma efficace parola: appunto come ne’ suoi colloqui il Rosmini quando cadesse di dover comparare uomo con uomo, non faceva paralleli lunghi ne’ quali la lode dell’uno tornasse in depressione dell’altro, ma con un levar delle ciglia, con un accento anzi più sommesso che più forte rendeva onore a certe grandezze incomparabili, e senza volerlo metteva a posto certe beate petulanze.

Note

  1. DANTE: Chi guarderà giammai senza paura — Negli occhi d’esta bella?... Un del trecento: V. Cr. tutte spaventaro, udite le parole della sapienza. Ne’ fioretti l’obstupuit dello Speculum, nota il Frediani ch’è reso da si spaventò. All’incontro in Orazio nil admirari suona non si sgomentare di nulla. E in Virgilio: exultantiaque haurit corda pavor pulsans è il batticuore non della paura, ma dell’ansiosa speranza: giacchè pavor da pavio. E così nel consuonare de’ contrapposti l’unità dello spirito umano è da ammirarsi con vero spavento.