Appressamento della morte/Canto II

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Canto II

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Canto I Canto III


 

Parve di foco una vermiglia lista
A l’orizzonte a galla sopra ’l mare,
Ch’atava in quell’orror la dubbia vista:

Come di state dopo ’l nembo pare
5Sul mar la notte luce di baleno
Che lambe l’acqua e l’ombre fa più rare;

O come ride striscia di sereno
Dopo la pioggia sopra la montagna,
Allor che ’l turbo placasi e vien meno.

10Ed i’ vedeva gente molta e magna
Passar non lunge innanzi a quel chiarore,
Che n’era piena tutta la campagna.

E primier vidi sogghignando Amore
Svolazzar su la gente di suo regno
15Tanta ch’e’ di quaggiù parea signore.

Iva misera turba che fu segno
A suoi strali roventi, e parea tutta
Atteggiata di doglia e di disdegno.

Questi son que’ che ne la fera lutta
20Di nostra vita vinse la gran possa
Di quel desio che pianto e morte frutta.

Quest’è la turba che nel mondo ingrossa
Al volger d’ogn’istante, e non vien manco
Per volar d’ora o spalancar di fossa.

25Fermo i’ guardava, e quel che m’era al fianco
(E ’l potea ben senza mirarmi in viso)
Scorse il dubbiar de lo ’ntelletto stanco.

E disse: Questa è gente che di riso
Non ebbe un’ora in vostra vita lassa,
30Pur sempre ebbe a cercarlo il pensier fiso.

E nutrì speme pazza e voglia bassa,
Locando suo desire in cosa vana,
Ed amò ben che quando giugne, passa.

Quel vergognoso là che s’allontana,
35È ’l Prence tristo per lo cui delitto
Tant’alta venne la virtù Romana.

Appio è quel là che conto a voi fe’ ’l dritto,
Pel cui malvagio amore un’altra volta
Roma fu lieta e suo tiranno afflitto.

40Antonio è quel che lamentar s’ascolta,
E di suo fato no ma par si lagne
Sol che sua donna scaltra gli sia tolta.

Vedi Parisse più vicin che piange
Ilio in faville e la reggia diserta
45E morti i frati e serve le compagne

E d’erba e sassi la città coverta:
E fu cagion di tanta doglia Amore.
E vedi quel ch’ha sì gran piaga aperta.

È Turno, e per Lavinia è ’l suo dolore,
50Per chi di morti fe’ sì gran catasta
Quel ch’al Tebro menò le Teucre prore.

Vedi Sanson colà che mal contrasta
A Dalila, e ’l gran Re ch’anco si dole
Che sapienza contr’Amor non basta.

55Mira quell’alme quivi che van sole
Con la faccia scarnata e ’l ciglio basso,
E movon lente e senza far parole.

Vestali furo, e sotto flebil sasso
Menolle dura legge e crudo foco
60Di per loro a compor lo corpo lasso.

Vedi quanti ha malconci ’l tristo gioco,
E perduti ha ’l furor di voglia insana,
Che tempo lungo a noverargli è poco.

Guata quel truce là ch’a la Cristiana
65Fede aprì ’l lato, e che nel suol Britanno
Di giusto sangue fe’ tanta fontana,

E per Amor, di Re venne tiranno,
E mandò giù tant’alme a l’aria bruna,
Sì ch’ancor dura e sarà eterno ’l danno;

70Per chi d’Anglia tal frotta si rauna
E mugolando s’addossa e si preme
Qual sozzo gregge a la ’nfernal laguna.

D’infinita sciaura Amor fu seme,
Che non sua sol ma van mill’alme ognora
75Per lui ’ve ’l tristo eternamente freme.

Oh miser’Anglia che tanta dimora
Fai ne l’Errore, e non ti basta ’l lume
De la mental tua lampa a uscirne fora,

E già tutto conosci forchè ’l Nume,
80E cieco nasce e non vi pensa e more
Tuo popol gramo vinto dal costume.

Poi sospirando disse: Or vedi, Amore
Com’è crudele al mondo, e com’è duro
Far ch’e’ non giunga a palpeggiarti ’l core.

85Sapienza non è sì saldo muro
Che nol dirompa forza di suo strale,
E chi men l’ha provato è men sicuro.

E se l’alma infermò di tanto male
E sente l’aspra punta, ov’è la pace?
90E se pace non è, viver che vale?

Sì come chi per poi soggiunger tace,
Quel tacque, ed i’ mi vidi un mesto avante
Giovane e tal che d’ello anco mi spiace.

Tanto mi vinse suo flebil sembiante
95Che l’Angel di suo nome interrogai,
Benchè mio dir sonava ancor tremante.

E quel rispose: Da sua bocca udrai
Contar suo fallo e di suo fallo i danni.
E l’approcciammo, ed i’ l’addimandai.

100Ugo fui detto, e caddi in miei verd’anni,
E me Ferrara tra suoi forti avria,
Se non fosse ’l mio padre infra’ tiranni,

Disse e ristette e quasi si pentia,
Poi seguitò: Mi trasse al punto estremo
105Non so se di mio fato o colpa mia.

I’ membro l’ora, ed in membrarla fremo,
Che prima vidi le sembianze ladre
Per ch’in eterno fra quest’alme gemo.

Vidi la donna misera che ’l padre
110Erasi aggiunta, ma che ’l tristo letto
non fe’ bello di prole e non fu madre.

E cura inquieta mi sentii nel petto
Che parea dolce, ma la voglia rea
Vanezza e tedio femmi ogni diletto.

115Io fea contesa e forse ch’i’ vincea,
Ma un dì fui sol con quella in muto loco,
E bramava ir lontano e non volea,

E palpitava, e ’l volto era di foco,
E al fine un punto fu che ’l cor non resse,
120Tanto ch’i’ dissi: t’amo, e ’l dir fu roco.

Vergogna allor sul ciglio mi s’impresse,
E la donna arrossar vidi e gir via
Senza far motto, come lo sapesse.

Poi nulla i’ fei, ma tanto più che pria
125Divampò ’l foco al soffio di speranza,
Ch’arder le vene e i polsi i’ mi sentia.

Allor che tratto di mia queta stanza
Fui d’armato drappello in su la sera
Con ferità ch’ogni mio dire avanza,

130E dentro muta torre in prigion nera
Chiuso che ’ndarno il genitor chiamava,
Immobil tra catene come fera.

Stupido e sol rimasi in quella cava
Ricercando mia colpa, ed oh dolore
135In ricordarmi di mia voglia prava!

Era giunta la notte a le tard’ore
Che tace e per le vie gente non passa,
Quando fioco romor sentii di fore.

(O Italia mia dolente, o patria lassa
140Che quant’alta a’ bei giorni tanto cruda
Fosti a’ più neri, e tanto ora se’ bassa,

Ben sei di luce muta e d’onor nuda,
Che tigre fosti quando era tua possa,
E or se’ pietosa ch’uom per te non suda!)

145Orrendo un gel mi sdrucciolò per l’ossa,
E mancar sentii ’l fiato e ’l cor serrarse
Quand’a l’uscio udii dar la prima scossa.

Sonaro i ferri al suo dischiavacciarse,
E seguì di persona un calpestio,
150E di lontana fiamma un chiaror parse.

Come chi vide ’l lampo che fuggio,
Aspetta lo fragore e sta sospeso,
Tal senza batter ciglio mi stett’io.

E ’l genitore entrar che tenea steso
155Il destro braccio e ne la man mirai
Un ferro e ’n la sinistra un torchio acceso.

Morta è, disse, tua druda e tu morrai.
Su le ginocchia i’ caddi in quel momento:
Piagneva e volea dir: mio padre, errai.

160Ma la punta a mia gola e’ ficcò drento,
E caddi con la bocca in su rivolta,
E ’l vital foco tutto non fu spento.

Parvemi che l’acciaro un’altra volta
Alzasse, e di vibrarlo stesse in forse;
165Poscia com’uom che di lontano ascolta,

L’udii cercar de l’uscio: indi ritorse
Il passo, e ’n cor piantommi e lasciò ’l brando,
Perchè l’ultimo ghiaccio là mi corse.

E svolazzò lo spirto sospirando.