Asolani/Libro primo/XIII

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Libro primo - Capitolo XIII

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Le quali maniere di maraviglie, come che tutte s’usino nell’hoste che Amor conduce, pure l’ultima, che io dissi, v’è più sovente che altra e, tra molta dissonanzia d’infiniti dolori, ella quasi giusta corda più spesso al suono della verità risponde, sì come quella che è la più propria di ciascuno amante e in sé la più vera, ciò è che essi la lor vita cercano e abbracciano la lor morte tuttavia. Con ciò sia cosa che mentre essi vanno cercando i diletti loro e quelli si credono seguitare, dietro alle lor noie inviati e d’esse invaghiti sì come di ben loro, tra mille guise di tormenti disconvenevoli e nuovi alla fin fine si procacciano di perire, chi in un modo e chi in altro, miseramente e stoltamente ciascuno. E chi negherà che stoltamente e miseramente non perisca chiunque, da semplice follia d’amore avallato, trabocca alla sua morte così leggiero? Certo niuno, se non quei che ’l fanno; a’ quali spesse volte tra per soverchio di dolore e per manchamento di consiglio è così grave il vivere, che pure non che la schifino, anzi essi le si fanno incontro volentieri: chi perché ad esso pare così più speditamente che in altra maniera poter finire i suoi dolori, e chi per far venire almeno una volta pietà di sé ne gli occhi della sua donna, contento di trarne solamente due lagrime per guiderdone di tutte le sue pene. Non pare a voi nuova pazzia, o donne, che gli amanti per così lievi e istrane cagioni cerchino di fuggire la lor propria vita? Certo sì dee parere; ma egli è pure così. E non che io in me una volta provato l’abbia, ma egli è buon tempo che, se mi fosse stato conceduto il morire, a me sarebbe egli carissimo stato e sarebbe ora più che mai. A questo modo, o donne, s’ingegnano gli amanti contro al corso della natura trovar via; la quale, avendo parimente ingenerato in tutti gli uomini natio amore di loro stessi e della lor vita e continua cura di conservarlasi, essi odiandola e di se stessi nimici divenuti amano altrui, e non solamente di conservarla non curano, ma spesso ancora, contro a se medesimi incrudeliti, volontariamente la rifiutano dispregiando. Ma potrebbe forse dire alcuno: ’Perottino, coteste son favole a quistione d’innamorato più convenevoli, sì come le tue sono, che a vero argomentare di ragionevole uomo. Perciò che se a te fosse stato così caro il morire, come tu di’, chi te n’averebbe ritener potuto, essendo così in mano d’ogni uomo vivo il morire, come non è più il vivere in poter di quelli che son già passati? Queste parole più follemente si dicono che i fatti non si fanno di leggiere’. Maravigliosa cosa è, o donne, ad udir quello che io ora dirò; il che, se da me non fosse stato provato, appena che io ardissi d’imaginarlomi, non che di raccontarlo. Non è, sì come in tutte l’altre qualità d’uomini, ultima doglia il morire ne gli amanti; anzi loro molte volte in modo è la morte dinegata, che già dire si può che in somma e strema miseria felicissimo sia colui che può morire. Perciò che aviene bene spesso, il che forse non udiste voi, donne, giamai, né credevate che potesse essere, che, mentre essi dal molto e lungo dolor vinti sono alla morte vicini e sentono già in sé a poco a poco partire dal penoso cuore la lor vita, tanto d’allegrezza e di gioia sentono i miseri del morire, che questo piacere, confortando la sconsolata anima tanto più, quanto essi meno sogliono aver cosa che loro piaccia, ritorna vigore ne gl’indeboliti spiriti, i quali a forza partivano, e dona sostentamento alla vita che mancava. La qual cosa, quantunque paia nuova, quanto sia possibile ad essere in uomo innamorato, io ve ne potrei testimonianza donare, che l’ho provata, e recarvi in fede di ciò versi, già da me per lo adietro fatti, che lo discrivono, se a me non fosse dicevole vie più il piagnere che il cantare. -