Asolani/Libro secondo/IX

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Libro secondo - Capitolo IX

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Perciò che quantunque molti amanti, fingendo la lontananza del loro cuore, a lagrime e a lamenti e a dolorosi martiri la si tirino, sì come potete avere udito molte fiate, non è per questo che io altresì in una delle mie fingendola, a maraviglioso giuoco e a dilettevole sollazzo non me l’abbia recata. E acciò che io a voto non ragioni, udite ancora de’ miei miracoli alcuno:

Preso al primo apparir del vostro raggio,
Il cor, che ’n fin quel dì nulla mi tolse,
Da me partendo, a seguir voi si volse;
E come quei che trova in suo viaggio
Disusato piacer, non si ritenne
Che fu ne gli occhi, onde la luce uscia,
Gridando: A queste parti Amor m’invia.

Vedete voi sì come fingono gli amanti che i loro cuori con piacere e con gioia di loro pure partir da loro si possono? Ma questo non è ad essi cosa molto ancora maravigliosa. Di più maraviglia è quello che segue:

Indi tanta baldanza appo voi prese
L’ardito fuggitivo a poco a poco,
Ch’ancor per suo destin lasciò quel loco
Dentro passando, e più oltra si stese,
Che ’n quello stato a lui non si convenne;
Fin che poi giunto ov’era il vostro core,
Seco s’assise e più non parve fore.

Già potete vedere non solamente che i nostri cuori da noi si partono, ma che essi sanno eziandio far viaggio. Udite tuttavia il rimanente:

Ma quei, come ’l movesse un bel desire
Di non star con altrui del regno a parte,
O fosse ’l ciel che lo scorgesse in parte
Ov’altro signor mai non devea gire,
Là, onde mosse il mio, lieto sen’venne:
Così cangiaro albergo, e da quell’ora
Meco ’l cor vostro e ’l mio con voi dimora.

Non sono questi miracoli sopra tutti gli altri? due cuori amanti, da i loro petti partiti, dimorarsi ciascuno nell’altrui, e ciò loro, non pure senza noia, ma ancora da celeste dono avenire? Ma che dico io questi? Egli vi se ne potrebbono, da chiunque ciò far volesse, tanti recare innanzi giochevoli e festevoli tutti, che non se ne verrebbe a capo agevolmente. E perciò questo poco aver detto volendo che mi basti, oggimai i tuoi fieri e gravi miracoli, Perottino, quanto facciano per te tu ti puoi avedere. I quali però tuttavia se sono veri, perciò che tu e i simili a te, tristi e miseri amanti, ne parliate o scriviate, veri debbono essere similmente questi altri vaghi e cari, poi che di loro io e i simili a me, lieti e felici amanti, parlandone o scrivendone ci trastulliamo: per che niuna forza i tuoi ad Amor fanno che egli dolce non possa essere, più di quello che facciano i miei che egli non possa essere amaro. Se sono favole, elle a te si ritornino per favole, quali si partirono, e seco ne portino la tua così ben dipinta imagine, anzi pure la imaginata dipintura del tuo Idio; della quale se tu scherzando ragionato non ci avessi quello tanto che detto ne hai, io da vero alcuna cosa ne parlerei, e arei che parlarne. Ma poi che del tuo fallo tu medesimo ti riprendesti, dicendoci, per amenda di lui, che nel vero non solamente Amore non è Idio, ma che egli pure non è altro che quello che noi stessi vogliamo, se io ora nuova tenzona ne recassi sopra, non sarebbe ciò altro che un ritessere a guisa dell’antica Penelope la poco innanzi tessuta tela. -