Asolani/Libro secondo/XVIII

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Libro secondo - Capitolo XVIII

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- Di nulla vogliam ritenerti, - rispose madonna Berenice, prima del volere delle compagne raccertatasi - né crediamo che faccia luogo altresì. E a noi si fa tardi che quello, che tu incominciando il ragionare ci promettesti, si fornisca. Ma tu per aventura non t’affrettare. Perciò che, come che a te paia d’avere già assai lungamente favellato, se al sole guarderai, il tempo che t’avanza è molto infino alle fresche ore. Né te ne dei maravigliare, perciò che più per tempo ci venimmo oggi qui, che noi non femmo hieri. Senza che, quando bene più alquanto ci dimorassimo, sì il poteremmo noi fare, perciò che il festeggiare non incominciò a pezza hieri, a quello che noi credavamo, quando di qui ci levammo con voi. Per che sicuramente, Gismondo, a tuo grandissimo agio potrai ancora di ciò, che più di dire t’aggraderà, lungamente ragionare. - Il giovane, al quale erano le parole della donna piaciute, sì come quegli che tuttavia incominciava mezzo seco stesso venir temendo non dalla strettezza del tempo fosse a’ suoi ragionamenti poca ampiezza conceduta, veduto per l’ombre che gli allori facevano che così era come ella diceva, e sperando di quivi più lunga dimora poter fare, che fatto il giorno passato non aveano, contento già era per seguitare. E ecco dal monte venir due colombe volando, bianchissime più che neve, le quali, di fitto sopra i capi della lieta brigata il lor volo rattenendo, senza punto spaventarsi si posero l’una appresso l’altra in su l’orlo della bella fontana, dove per alquanto spazio dimorate, mormorando e basciandosi amorosamente stettero, non senza festa delle donne e de’ giovani, che tutti cheti le miravano con maraviglia. E poi chinato i becchi nell’acqua cominciarono a bere, e di questo a bagnarsi sì dimesticamente in presenza d’ogniuno, che alle donne pareano pure la più dolce cosa del mondo e la più vezzosa. E mentre che elle così si bagnavano, fuori d’ogni temenza sicure, una rapace aquila di non so onde scesa giù a piombo, prima quasi che alcuno aveduto se ne fosse, preso l’una con gli artigli, ne la portò via. L’altra per la paura schiamazzatasi nella fonte e quasi dentro perdutane, pure alla fine riavutasi e malagevolmente uscita fuori sbigottita e debole e tutta del guazzo grave, sopra i visi della riguardante compagnia il meglio che poteva battendo l’ali, tutti spruzzandogli, lentamente s’andò con Dio. Avea traffitte le compassionevoli donne la subita presura della colomba, e fu il romore tra lor grande di così fatto accidente, né poteano rifinare di maravigliarsi come quella innocente uccella fosse di mezzo tutti loro così sciaguratamente stata rapita, la maladetta aquila mille volte e più per ciascuna bestemmiandosi, non senza ramarico de’ giovani altresì; e tra lor tutti mescolatamente chi della sciagura dell’una e chi dello spavento dell’altra e chi della vaghezza d’amendue e della loro dimestichezza ragionava, e ebbevi di quelli che più altamente estimando vollono credere che ciò che veduto aveano a caso non fosse avenuto; quando Gismondo, poscia che vide le donne rachetate, incominciò: - Se la nostra colomba fosse ora dalla sua rapitrice in quella guisa portata, nella quale fu già il vago Ganimede dalla sua, essere potrebbe men discaro alla sua compagna d’averla perduta, e noi a.ttorto aremmo la fiera aquila biasimata, di cui cotanto ramaricati ci siamo. Ora, perciò che il dolerci più oltra in quelle cose che per noi amendar non si possono è opera senza fallo perduta, queste nostre doglianze con quelle di Perottino dimenticando, nella bontà d’Amore, per venire oggimai alle promesse che io vi feci, entriamo. - Allora Lisa, prima che egli andasse più avanti, tutta piena di dolce vezzo, più per tentarlo che per altro:
- A mal tempo - disse - lasci tu, Gismondo, i tuoi ragionamenti primieri, dopo il caso, che ci ha ora tutti tenuti sospesi, lasciandonegli. Perciò che se dolore è questo che noi sentiamo, d’avere in piè alla sua nimica la nostra misera bestiuola veduta, e amore quell’altro, che della sua vaghezza n’avea presi, assai pare che ne segua chiaro che insieme e amare e dolere ci possiamo; e potrassi qui contra te dir quello che si dice tutto dì, che di gran lunga il più delle volte sono dal fatto le parole lontane -.
Quivi Gismondo verso le donne sorridendo disse: - Vedete argomento di costei. Ma non sei però tu per levarmi la verità di mano, Lisa, così agevolmente come la nostra semplice colomba l’aquila di testé fece, ché io ne la difenderò. Tuttavolta tu mi ritorni in quelle siepi, delle quali n’eravamo usciti pur dianzi, quando io ti conchiusi che del perdere delle cose che noi amiamo, non è Amore, che di loro vaghi ci fa, ma la fortuna, che ce ne spoglia, cagione. Per che e amare e dolere, come tu di’, bene ci possiamo, ma dolerci per cagion d’Amore non possiamo. Oltra che l’amore, che tra le passioni dell’animo si mescola, non è amore, come che egli sia detto amore e per amore tenuto dalle più genti. Per che non sono io per disposto di più oltra distendermi da capo nelle già dette ragioni d’intorno a questo fatto o in simili, di quello che allora mi stesi, come che io molte ve n’avessi dell’altre. Elle assai essere ti possono bastanti, dove tu per aventura in su l’ostinarti non ti mettessi; il che suole essere alle volte diffetto nelle belle donne, non altramente che soglia essere ne’ be’ cavalli il restio.
- Se solamente ne’ be’ cavalli - rispose Lisa tutta nel viso divenuta vermiglia - cadesse, Gismondo, il restio, io che bella non sono - e era tuttavia bella come un bel fiore - mi crederei dover potere ora parlare a mio senno, senza che tu per ostinata m’avessi. Ma perciò che ancora ne’ mal fatti cotesto vizio, e più spesso per aventura che ne gli altri, suole capere, sicuramente tu hai trovata la via da farmi oggi star cheta; ma io te ne pagherò ancora. -