Asolani/Libro terzo/VIII

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Libro terzo - Capitolo VIII

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Perché ’l piacer a ragionar m’invoglia,
E di sua propria man mi detta Amore,
Né da l’un, né da l’altro ardisco aitarmi;
Sgombrimisi del petto ogni altra voglia,
E sol questa mercede appaghi il core,
Tanto ch’io dica e possa contentarmi;
C’aver dinanzi sì bel viso parmi,
Sì pure voci e tanto alti pensieri,
Che, perch’io mai non speri
Per forza di mio ingegno o per altr’arte,
Cose leggiadre e nove,
Che ’n mill’anni volgendo il ciel non piove,
Qual’io le sento al cor, stender in carte,
Pur le mie ferme stelle
Portan ad or ad or ch’io ne favelle.

Era ne la stagion che ’l ghiaccio perde
Da le viole, e ’l sol cangiando stile
La faccia oscura a le campagne ha tolta,
Quando tra ’l bel cristallo e ’l dolce verde
Mi corse al cor la mia donna gentile,
Che correr vi dovea sol una volta.
Mia ventura in quel punto avea disciolta
La treccia d’oro, e quel soave sguardo,
Lieto, cortese e tardo,
Armavan sì felici e cari lumi,
Che quant’io vidi poi,
Vago amoroso e pellegrin fra noi,
Rimembrando di lor, tenni ombre e fumi;
E dicea fra me stesso:
Amor senz’alcun dubbio è qui da presso.

Ben diss’io ’l ver, che come ’l dì col sole,
Così con la mia donna Amor ven sempre,
Che da’ begli occhi mai non s’allontana;
Poi senti’ ragionando dir parole
E risonar in sì soavi tempre,
Che già non mi sembiâr di lingua humana:
Correa da parte una chiara fontana,
Che vide l’acque sue quel dì più vive
Avanzar per le rive,
E ’ncontro i raggi de le luci sante
Ogni ramo inchinarsi
Del bosco intorno e più frondoso farsi,
E fiorir l’erbe sotto le sue piante,
E quetar tutti i venti
Al suon de’ primi suoi beati accenti.

Quante dolcezze con amanti unquanco
Non eran state certo infin quel giorno,
Tutte fûr meco, e non la scorsi apena:
Vincea la neve il vestir puro e bianco
Dal collo a’ piedi, e ’l bel lembo d’intorno
Avea virtù da far l’aria serena;
L’andar toglieva l’alme a la lor pena
E ristorava ogni passato oltraggio;
Ma ’l parlar dolce e saggio,
Che m’avea già da me stesso diviso,
E i begli occhi e le chiome,
Che fûr legami a le mie care some,
De le cose parean di paradiso
Scese qua giuso in terra,
Per dar al mondo pace e torli guerra.

Deh se per mio destin voci mortali,
E son di donna pur queste bellezze,
Beato chi l’ascolta e chi la mira;
Ma se non son, chi mi darà tante ali
Ch’io segua lei, s’aven ch’ella non prezze
Di star là ’ve si piagne e si sospira?.
Così pensava, e ’n quanto occhio si gira,
Vidi un che ’l dolce volto dipingea
Parte, e parte scrivea
Ne l’alma dentro le parole e ’l suono,
Dicendo: Queste omai
Penne da gir con lei tu sempre arai.
Alor mi scossi e, qual io qui mi sono,
Tal la mia donna bella
M’era nel petto in viso e in favella.

Rimanti qui, canzon, poi che de l’alto
Mio tesoro infinito
Così poveramente t’hai vestito.