Attraverso lo specchio/I
Questo testo è completo. |
Traduzione dall'inglese di Silvio Spaventa Filippi (1914)
◄ | Attraverso lo specchio | II | ► |
Una cosa era certa: che il micino bianco non c’entrava affatto: la colpa era tutta del nero. Durante l’ultimo quarto d’ora Dina, la gatta madre, aveva lavata la faccia al micino bianco (operazione che il micino dopo tutto, aveva sopportato con dignità); era quindi chiaro che esso non aveva potuto aver parte nel misfatto.
Il modo come Dina lavava la faccia ai figli era questo: prima teneva il poverino per l’orecchio con una zampa, e poi con l’altra gli stropicciava tutto quanto il muso, contro pelo, principiando dal naso; e proprio poco prima, come ho detto, era stata occupatissima col micino bianco, che se ne stava tranquillo e calmo tentando di far le fusa, certo col sentimento che tutto si faceva per il suo bene.
Ma il gattino nero era stato lavato prima in quel pomeriggio; e così, mentre Alice se ne stava rannicchiata in un cantuccio della maestosa poltrona, in una specie di dormiveglia, esso s’era dato a una gran partita di salti col gomitolo che Alice aveva pazientemente fatto dalla matassa di lana, rotolandolo su e giù finchè l’aveva tutto ingarbugliato. Ed ora ecco il gomitolo sparso sul tappeto tutto nodi e grovigli, col gattino in mezzo che cerca di acchiapparsi la coda.
— Ah, brutto micio — gridò Alice acchiappando il gattino e dandogli un bacio per fargli capire d’essere in collera. — Veramente Dina avrebbe dovuto insegnarti a essere più educato! Tu devi farlo, Dina, tu sai che devi farlo! — essa aggiunse, dando un’occhiata di rimprovero alla gatta madre, e parlando col suo miglior tono di disapprovazione. E poi, arrampicatasi di nuovo sulla poltrona, dopo aver preso con sè il gattino e la lana, cominciò a rifare il gomitolo. Ma andava innanzi lentamente, perchè nel frattempo chiacchierava, un po’ per il gattino e un po’ per sè. Sulle ginocchia di lei il micio sedeva in aria triste, fingendo di osservare il progresso del gomitolo e di tanto in tanto sporgendo una zampetta, e pianamente toccando la palla, come per dire che, potendo, avrebbe aiutato il lavoro volentieri.
— Sai che è domani, micino? — cominciò Alice. — Se fossi venuto alla finestra con me, tu l’avresti indovinato... Ma Dina ti lavava la faccia e non hai potuto. Io guardavo i ragazzi che raccoglievano le fascine e le frasche per la fiammata di carnevale. Ce ne vogliono molte di fascine, micino. Ma faceva tanto freddo e nevicava tanto, che dovettero andarsene. Non importa, micino, domani andremo a vedere la fiammata. — Qui Alice avvolse due o tre volte il filo intorno al collo del gattino, per vedervi l’effetto; ma nell’atto le sfuggì il gomitolo che rotolò sul pavimento, disfacendosi di nuovo per molti metri di filo.
— Sai, micino, io ero così arrabbiata, — continuò Alice, appena si furono riaccomodati sulla poltrona, — quando vidi tutto il danno che avevi fatto. Avrei quasi aperto la finestra per gettarti nella neve! E l’avresti meritato, brigantaccio! Che hai da dire? Non m’interrompere! — essa continuò, levando un dito. — Ora ti dirò tutte le tue cattive azioni. Prima: questa mattina, hai strillato due volte, mentre Dina ti lavava la faccia. E non puoi negarlo, micino, l’ho sentito io. Che cosa dici? (fingendo che il gatto abbia parlato) — Ch’essa t’aveva fatto entrar una zampa nell’occhio? Colpa tua, se tenevi gli occhi aperti: se li avessi tenuti ben chiusi, non sarebbe accaduto. Ora sono inutili le scuse, ascolta. Secondo: tu hai tirato Nevina per la coda mentre io le mettevo innanzi il tegame del latte. Che cosa? Avevi sete anche tu? Come sai che non fosse assetata anche lei? Terzo: hai disfatto il gomitolo mentre io guardavo da un’altra parte. Sono tre mancanze, Frufrù, e tu non hai avuto ancora nessun castigo. Tu sai che ti riserbo i castighi per mercoledì di quest’altra settimana. Immagina un po’ se a me avessero riserbato tutti i castighi per un dato giorno? Quanto farebbero alla fine d’un anno? Credo che arrivato quel giorno, mi dovrebbero mandare in prigione. Supponendo anzi che ciascun castigo dovesse consistere nel rimanere senza desinare, allora, arrivato quel terribile giorno, dovrei fare a meno di cinquanta desinari in una volta sola. A dir la verità, non m’importerebbe molto. Sarei più contenta di rimaner digiuna che di mangiarli. "Senti la neve contro i vetri della finestra, Frufrù? Che suono dolce! Come se uno stesse baciando la finestra dal di fuori. Forse la neve vuol bene agli alberi e ai campi e li bacia così soavemente! E poi li copre ben bene, sai, con una coperta bianca, e forse dice: "Andate a letto, cari, andate a letto, cari!" E l’estate quando si svegliano, Frufrù, si vestono tutti di verde e si mettono a ballare... quando soffia il vento... Oh che bellezza! — esclama Alice, lasciando cadere il gomitolo di lana per battere le manine.
"E io desidererei tanto che fosse vero! Certo che i boschi par che dormano in autunno, quando ingialliscono le foglie.
"Frufrù, ti piace giocare a scacchi? Ora non ridere, caro, io te lo domando seriamente. Perchè, quando poco fa stavamo giocando, tu guardavi come se sapessi il giuoco; e quando ho detto: "Scacco matto" tu hai fatto le fusa. Sì, è stato un magnifico scacco matto, e veramente avrei potuto vincere se non fosse stato per quel brutto cavaliere che si sviò fra i miei pezzi. Frufrù caro, fingiamo..."
E qui vorrei saper riferire se non altro una metà delle cose che soleva dire Alice, quando cominciava con la sua parola favorita: "Fingiamo..." Ella aveva avuto il giorno prima una lunghissima discussione con la sorella, soltanto perchè aveva cominciato: "Fingiamo d’essere re e regine": sua sorella, alla quale piaceva d’essere sempre molto esatta, aveva risposto che non potevano perchè erano soltanto in due, e Alice era stata costretta finalmente a dire: "Allora tu puoi essere una, e io sarò tutti gli altri." E una volta aveva veramente atterrita la vecchia governante strillandole a un tratto nell’orecchio: "Signorina, fingiamo che io sia una iena affamata e voi un orso!"
Ma questo vuol dir divagare dal discorso di Alice al micio:
— Fingiamo che tu sia la Regina Rossa, Frufrù. Sai che penso? Che se tu stessi seduto e incrociassi le braccia, saresti preciso come lei. Prova subito, caro.
E Alice prese la Regina Rossa dal tavolo e la mise innanzi al micino come il modello da imitare; ma la cosa non riuscì, principalmente, disse Alice, perchè il gattino non volle piegar bene le braccia. Così, per punirlo, lo tenne di fronte allo specchio, perchè guardasse quant’era goffo.
—...E se non stai buono, — aggiunse, — ti faccio andare nello specchio. Ti piacerebbe di andare nello specchio? Ora, se stai attento, Frufrù, e non parli tanto, ti dirò tutta la mia idea intorno alla Casa dello Specchio. Prima di tutto, v’è la stanza che si vede attraverso lo Specchio: è precisa come il salotto dove stiamo; però tutte le cose son messe alla rovescia. Salendo su una sedia la veggo tutta... tutta tranne la parte dietro il caminetto. Quanto mi piacerebbe veder quella parte! Chi sa se nell’inverno c’è il fuoco: se il nostro focolare non fa fumo, non s’indovina mai; ma se c’è fumo di qua, c’è fumo anche di là. Ma chi sa, può essere una finzione, per dare a credere che ci sia il fuoco anche di là. I libri, poi, somigliano ai nostri libri; ma le parole sono stampate a rovescio. Questo lo so; perchè ho tenuto un libro contro lo specchio, e nell’altra stanza ne hanno pigliato un altro.
"Ti piacerebbe di stare nella Casa dello Specchio, Frufrù? Chi sa, se ti darebbero il latte là dentro? Forse il latte della Casa dello Specchio non è buono da bere... E ora, Frufrù, arriviamo al corridoio. Se si lascia aperta la porta del nostro salotto si vede un pezzettino del corridoio della Casa dello Specchio: somiglia molto al corridoio nostro, ma chi sa se più in là non è diverso. Oh, Frufrù, che bellezza se potessimo entrare nella Casa dello Specchio! Son certa che ci sono tante belle cose. Fingiamo di poterci entrare, Frufrù, fingiamo che lo specchio sia morbido come un velo, e che si possa attraversare. To’, adesso sta diventando come una specie di nebbia... Entrarci è la cosa più facile del mondo."
Alice stava sulla mensola del caminetto mentre diceva così, sebbene non sapesse spiegarsi come fosse arrivata lassù. E certo il cristallo cominciava a svanire, come una nebbia lucente.
L’istante dopo Alice attraversava lo specchio e saltava agilmente nella stanza di dietro. La prima cosa che fece fu di guardare se ci fosse il fuoco nel caminetto, e fu tanto contenta di vedere che ce n’era uno vero, pieno di fiamme vive, come quello che aveva lasciato nel salotto.
"Così, qui starò calda come nell’altra stanza, — pensò Alice, — più calda, veramente, perchè qui non ci sarà nessuno che mi farà allontanare dal caminetto. Che bellezza, quando mi vedranno attraverso lo specchio e non potranno toccarmi!"
Poi cominciò a guardare intorno intorno, e si accorse che ciò che poteva essere veduto dalla vecchia stanza era comune e poco interessante, ma che tutto il resto era assolutamente diverso. Per esempio, i ritratti appesi al muro sembravano tutti vivi e lo stesso orologio sul caminetto (come comprendete, nello specchio si vedeva solo la parte di dietro) aveva la faccia di un vecchietto e sogghignava.
"Questa stanza non è tenuta pulita come l’altra" — diceva Alice a sè stessa, vedendo alcuni pezzi della scacchiera fra la cenere del focolare; ma un istante dopo con un piccolo "oh" di sorpresa s’inginocchiò per guardarli. Innanzi ai suoi occhi i pezzi della scacchiera sfilavano per due.
— Ecco il Re Rosso e la Regina Rossa, — disse Alice (sottovoce, per tema di spaventarli) — ed ecco il Re Bianco e la Regina Bianca che si seggono sull’orlo della paletta; ed ecco i due Castelli che camminano a braccetto... Non credo che possano sentirmi, — essa continuò, chinando un po’ di più la testa; — e son sicura che neanche possono vedermi. Mi par quasi di diventare invisibile...
Allora qualche cosa cominciò a squittire sul tavolo dietro Alice, e le fece volger la testa appena in tempo per vedere una delle Pedine Bianche rotolare e cominciare a dar calci: ella la guardò con molta curiosità per vedere il seguito.
— È la voce di mia figlia! — gridò la Regina Bianca, passando accanto al Re e urtandolo con tanta violenza che lo fece stramazzare fra la cenere. — Mia preziosissima Lilla!... Mio regale tesoro, — e cominciò ad arrampicarsi selvaggiamente sull’alare.
— Tua regale sventataccia! — disse il Re sfregandosi il naso che aveva battuto cadendo. Egli aveva diritto di essere un po’ irritato con la Regina, perchè era coperto di cenere dalla testa ai piedi.
Alice era ansiosissima di rendersi utile. La povera Lilla smaniava e strillava disperatamente; ed allora ella raccolse in fretta la Regina e la mise sul tavolo accanto alla sua rumorosa figlioletta.
La Regina si sedette ansando: il rapido viaggio per l’aria le aveva tolto il respiro, e per un minuto o due non potè far altro che abbracciare silenziosamente la piccola Lilla. Ripreso fiato, gridò al Re Bianco che sedeva imbronciato nella cenere:
— Bada al vulcano.
— Che vulcano? — disse il Re, guardando ansiosamente nel fuoco, come se credesse più che probabile scoprirne uno.
— M’ha soffiato! — balbettò la Regina, che non respirava ancora bene. — Bada di tornare qui... in modo regolare... non farti soffiare!
Alice osservava il Re, mentre egli si sforzava pianamente d’arrampicarsi d’asse in asse, e finalmente gli disse:
— A quella velocità ci metterai un secolo ad arrivare al tavolo. Sarà meglio che io ti aiuti, non è vero?
Ma il Re parve non accorgersi di quelle parole: era assolutamente evidente ch’egli non poteva nè udirla nè vederla.
Così Alice lo prese molto cortesemente, e lo sollevò più adagio della Regina. in modo da non togliergli il respiro; ma prima di metterlo sul tavolo, pensò bene, vedendolo con tanta cenere addosso, di spolverarlo un poco.
Essa narrò dopo di non aver mai visto in tutta la sua vita una faccia come quella fatta dal Re, nel momento ch’egli si trovò in aria tenuto da una mano invisibile e diligentemente spolverato: ne parve così stupito che non fiatò, ma gli occhi e la bocca andarono man mano diventando più grandi e più rotondi, finchè la mano di lei lo scosse fra tante risate che ci mancò poco non lo lasciasse ricadere sul pavimento.
— Oh! non far quelle smorfie, caro! — esclamò a un tratto dimenticando che il Re non poteva udirla. — Mi fai ridere tanto che appena posso tenerti! E non spalancar tanto la bocca! Si riempirà di cenere... Ecco, mi pare che ora sii abbastanza pulito! — ella aggiunse, allisciandogli i capelli e mettendolo sul tavolo accanto alla Regina.
A un tratto il Re stramazzò supino, e rimase perfettamente calmo; e Alice ebbe un po’ paura per ciò che aveva fatto, e girò un po’ per la stanza per trovare un po’ d’acqua e gettargliela in faccia. Ma non potè trovare che una boccetta d’inchiostro, e quando ritornò con la boccetta, vide che il Re s’era riavuto e che parlava con la Regina in un timido bisbiglio... così basso, che Alice potè con difficoltà udire ciò che si dicevano.
Il Re diceva:
— Ti assicuro, mia cara, che ero diventato freddo fino alla punta dei baffi.
E la Regina rispondeva:
— Tu non hai baffi.
— La paura di quell’istante, — continuò il Re, — non la dimenticherò mai.
— La dimenticherai, — disse la Regina. — se tu non l’annoti nel taccuino.
Alice osservò con grande curiosità che il Re traeva di tasca un taccuino enorme, e cominciava a scrivere. Improvvisamente le saltò in mente una idea, e afferrò l’estremità della matita che sorpassava la spalla del Re e cominciò a scrivere per lui.
Il povero Re apparve imbarazzato e dolente, e lottò per qualche tempo con la matita senza dir nulla; ma Alice era più forte di lui. Finalmente egli balbettò:
— Cara mia, debbo procurarmi una matita più sottile. Questa non la so adoperare. Scrive cose che io non capisco.
— Che cosa? — disse la Regina guardando nel libro (in cui Alice aveva scritto: "Il Cavaliere Bianco scivola dall’alare. Egli non sa stare in equilibrio") — Questa non è un’annotazione che ti riguarda.
Vi era un libro sul tavolo accanto, e Alice, mentre se ne stava seduta a guardare il Re Bianco (perchè ancora si sentiva un po’ in ansia per lui e aveva l’inchiostro pronto per gettarglielo sul viso, in caso dovesse svenire di nuovo) si mise a voltare le pagine per trovar qualche parte che potesse leggere, "perchè è stampato tutto in una lingua che io non conosco", diceva fra sè.
Era così:
irrat ilgil i e eccoc a are’S
,ottehcsip len navallertrig
irranicnec i icsol ittut
.ottets egnol navaigguffus
Essa guardò impacciata per qualche tempo; ma finalmente le venne un lampo di luce:
— Naturalmente è un libro della Casa dello Specchio. E se io lo metto contro uno specchio, le parole si raddrizzeranno.
Questa era la poesia che Alice lesse:
S’era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.
"Figlio attento al Giabervocco:
ha gli artigli ed ha le zanne,
ed attento, attento aI Tocco,
e disprezza il frumio Stranne!"
Egli prese in man la spada —
da gran tempo lo cercava —
e sull’albero di nada
in pensiero riposava.
Mentre stava sì in pensiero
ecco il Giabervocco appare
per il bosco artugio e fiero
tutte alunche fiamme pare.
Uno e due! Ecco che fa
l’itra spada zacche, zacche.
L’erpa testa ei lascia, e va
galonfando pel pirracche.
"Hai ucciso il Giabervocco!
Vieni, figlio, che t’abbracci,
vieni, figlio, al bardelocco
dei dì lieti di limacci!"
S’era a cocce e i ligli tarri
girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.
— Sembra bella, — essa disse, quando l’ebbe finita, — ma è piuttosto diffìcile a capire! (Come vedete, non confessava neanche a sè stessa che non poteva comprenderla.) Però mi pare che mi riempia la testa d’idee... Soltanto non so di che si tratti. Certo qualcuno uccise qualche cosa: comunque sia questo è chiarissimo...
"Ma, ohi! — pensò Alice, levandosi immediatamente, — se non faccio in fretta, dovrò ritornare oltre lo specchio, prima d’aver visitato il resto della casa. Vado prima a dare un occhiata al giardino."
In un istante era fuori della stanza e correva giù per le scale... Veramente correre non è la parola esatta. La sua era una nuova invenzione per far le scale rapidamente e facilmente, come diceva Alice a sè stessa. Essa poggiava la punta delle dita sulla ringhiera, e andava leggermente giù senza neanche toccare i gradini coi piedi; poi volò giù per l’atrio, e sarebbe andata dritta alla porta nello stesso modo, se non si fosse afferrata al pilastro. Sentiva un po’ di vertigine passando così per aria e fu lieta quando si accorse che camminava di nuovo nel modo solito.