Avventure di Robinson Crusoe/79

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Cielo e terra che congiurano contro i selvaggi; specie di civiltà derivatane a quelli che sopravvivono

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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Cielo e terra che congiurano contro i selvaggi; specie di civiltà derivatane a quelli che sopravvivono
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Cielo e terra che congiurano contro i selvaggi; specie di civiltà derivatane a quelli che sopravvivono.



L
a sfortuna di que’ miseri non finiva qui. Un tremendo turbine levatosi dal mare la sera stessa rendeva ad essi quella via di fuga impossibile; anzi la burrasca essendo continuata tutta la notte, l’alta marea e i tempestosi cavalloni staccando i loro canotti, li trasportarono a tanta altezza sopra la spiaggia, che lor bisognava infinito tempo e fatica per rimetterli al mare, oltrechè alcuni di questi erano andati in pezzi o urtando la riva o battendosi l’un contra l’altro.

Benchè lieti della riportata vittoria, i coloni pensarono poco in quella notte a dormire, e dopo essersi ristorati alla meglio, risolvettero andare a quella parte ove s’erano rifuggiti i selvaggi, e vedere come costoro si mettevano. Ciò li trasse necessariamente a ripassare dal luogo ove principiò la battaglia, e ove giaceano parecchie di quelle povere creature non morte del tutto, ma poste fuor d’ogni possibilità di riaversi; vista disaggradevole quanto mai per animi generosi, perchè il vero grand’uomo, se bene astretto dalla fatal legge di guerra a distruggere il nemico, non s’allegra della sua calamità. Qui nondimeno non ci fu il caso di dar ordini intorno a ciò, perchè gli stessi selvaggi schiavi dei coloni con le loro azze levarono di stento quegl’infelici.

Finalmente giunsero alla spiaggia, ove trovavasi quel miserabilissimo rimasuglio d’esercito selvaggio che, a quanto appariva, si riduceva tuttavia ad un centinaio all’incirca d’uomini. La postura di quasi tutti quegli sgraziati era questa: seduti in modo che si toccavano con le ginocchia la bocca, e le ginocchia reggeano loro la testa che si teneano fra le mani.

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Poichè i coloni furono lontani da loro due tiri di schioppo, il governatore spagnuolo ordinò si facesse fuoco, ma mettendo sol polvere negli archibusi, per solo spaventarli. Il suo scopo era di capire dal viso che costoro farebbero in appresso a quanti piedi d’acqua trovavansi (vale a dire se fossero tuttavia in voglia di battersi o disanimati e scoraggiati del tutto), poi regolarsi in conformità dell’uno o dell’altro di questi due casi. Lo stratagemma riuscì, perchè appena i selvaggi ebbero udito lo strepito della prima archibugiata e veduto il fuoco della seconda, saltarono in piedi, sopraffatti dalla più fiera costernazione che si possa immaginare, e intantochè i coloni si avanzavano rapidamente alla loro volta, questi si diedero a strillare; poi, messa una specie nuova di urlo parlato che nessuno aveva mai udito, e che nessuno al certo potè capire, fuggirono sbandatamente su i monti e per la campagna.

Su le prime i coloni si sarebbero augurati che il vento fosse stato [p. 478 modifica]tranquillo abbastanza da permettere a que’ molesti ospiti l’imbarcarsi; ma non pensavano che ciò poteva essere per costoro un’occasione di tornare in tanto numero, da non potere ad essi resistere, o se non altro in tanti e sì di frequente, da mettere a mal partito ed affamar la colonia. Guglielmo Atkins che, a malgrado della sua ferita, veniva sempre con gli altri, si mostrò in questo caso il miglior consigliere di tutti. Il suo avviso si fu di cogliere il vantaggio che si offriva ponendosi fra essi e i loro canotti, togliendo così a costoro la possibilità di tornare più mai ad infestare quell’isola.

Fu ventilato a lungo questo partito, che trovò opposizione per parte d’alcuni i quali temeano, se si lasciavano que’ miserabili vagar pe’ boschi e condurre una vita da disperati, vedersi astretti a dar loro la caccia come ad altrettante fiere.

— «Non potremmo più, diceano, badare quietamente alle nostre faccende; vedremmo continuamente saccheggiati i nostri campi, distrutti i nostri armenti, in somma saremmo ridotti ad una vita di perpetua tribolazione.

— È ben meno male, soggiunse Guglielmo Atkins, l’aver che fare con cento uomini che con cento nazioni. Sicuro che se ci risolviamo a distruggere le barche, dobbiamo anche essere preparati a distruggere i padroni delle barche o ad essere distrutti noi.»

E tante ne disse per dimostrare la necessità di venire a tale espediente, che per ultimo, accordatisi tutti nel suo parere, si pose subito la mano all’opera di distruggere i canotti. Adunata quindi una quantità di sterpi secchi d’alberi morti, si provarono i diversi coloni ad appiccare il fuoco ai canotti, ma questi erano sì bagnati, che non volevano abbruciare. Ciò non ostante il fuoco ne lavorò sì bene la parte superiore, che li fece inabili a prestare più mai il servigio di barche. Quando gl’Indiani si avvidero di quello che si stava facendo, alcuni di essi saltarono fuori de’ boschi e avvicinatisi quanto bastava per essere veduti e uditi dai coloni, s’inginocchiarono gridando: Oa, oa, Uara mokoa! parole, come potete immaginarvi, che nessuno giunse a capire; bensì i compassionevoli gesti e le gemebonde note davano facilmente a comprendere che supplicavano affinchè si risparmiassero i loro legni: pareva anzi che promettessero di andarsene via dall’isola e di non tornarci mai più.

Ma in quel momento erano troppo convinti i coloni, che l’unica via di salvare sè stessi e l’intera loro società consistea nell’impedire [p. 479 modifica]a que’ selvaggi ogni ritorno alle case loro. Ciascuno credea vedere che se un solo di quella genìa andava a raccontare la storia delle cose occorse al suo paese, la colonia era irremissibilmente perduta. Laonde fatto conoscere ai selvaggi che non poteano sperare alcuna sorta di misericordia, i coloni continuarono a bruciare i canotti, distruggendo tutti quelli che la burrasca avea risparmiati. Alla qual vista i selvaggi, messo un orribile ululato, ripetuto da ogni eco delle selve, si diedero a trascorrere da forsennati tutta quanta l’isola, e da vero i coloni stessi si trovarono imbarazzati sul partito da pigliarsi da prima con quei disperati.

Notate che gli Spagnuoli con tutta la lor prudenza non pensarono, mentre riducevano a tal miserabile stremo quegl’infelici, alla convenienza di porre buone sentinelle alle piantagioni; perchè, sebbene avessero messi in salvo gli armenti, nè gl’Indiani arrivassero [p. 480 modifica]a scoprire i principali ricoveri degli Spagnuoli, intendo la mia antica fortezza appoggiata al monte e la caverna della valle, trovarono nondimeno il mio frascato ove mandarono tutto alla malora, e siepi e piante, calpestarono il grano in erba e stracciarono giù dalle viti, gualcirono i grappoli che cominciavano allora a maturare: recarono in somma un danno indicibile alla colonia senza vantaggiare di un quattrino eglino stessi.

Benchè ciascuno de’ nostri fosse abile in ogni occasione a battersi con costoro, pure non erano in istato di poterli inseguire o di dare ad essi la caccia sul piano e sul monte; perchè se i coloni trovavano un di essi solo, questi era troppo svelto di gamba per involarsi, e d’altra parte un colono non s’arrischiava d’andar attorno solo per paura d’essere investito da un branco di que’ selvaggi. Fortunatamente i secondi non avevano più armi: lor rimanevano sì gli archi, ma non una sola freccia nè ordigni per fabbricarla; erano parimente sprovveduti di qualsivoglia arma da punta o da taglio.

Certo l’estremità cui si vedeano ridotti i selvaggi era grande e da vero deplorabile; ma nemmeno la condizione dei coloni in quel memento potea dirsi bella. Ancorchè questi avessero preservati dalla devastazione i lor nascondigli, le provvigioni non celate e i nuovi ricolti erano distrutti: onde non sapeano come farla, nè da che parte voltarsi. L’unica loro ancora in quel momento consistea nella greggia riparata alla caverna della valle, nel poco grano che crescea nella stessa valle e nella piantagione di Guglielmo Atkins e de’ suoi colleghi, or ridotti ad un solo, perchè un d’essi fu l’Inglese cui una freccia selvaggia trapasso le tempia con tanta aggiustatezza, che non parlò più. È cosa notabile essere stato costui quel cialtrone medesimo che percosse a morte con un’accetta quel povero schiavo selvaggio, poi volea fare lo stesso servigio agli Spagnuoli.

Pensandoci sopra vidi che il loro caso era più stringente di quanti mai ne fossero occorsi a me dopo la prima scoperta dei grani d’orzo e di riso, e d’avere trovato il modo così di seminarli come di condurne il ricolto a maturità e di educarmi un armento domestico, perchè que’ poveri coloni avevano, a differenza di me, cento lupi, può dirsi, alle spalle che divoravano quante cose loro capitavano, e lupi difficili a lasciarsi prendere.

Ponderate le condizioni in cui si vedevano que’ miei isolani, conclusero non esservi migliore partito per essi del confinare questi [p. 481 modifica]lupi nella più interna parte dell’isola verso libeccio (sud-west), affinchè, se altri selvaggi venivano a sbarcare, non si vedessero gli uni cogli altri; poi dar loro la caccia ogni giorno, noiarli, ucciderne quanti poteano, finchè ne fosse ridotto il numero; e se finalmente coll’andar del tempo arrivassero a mansuefarli e condurli ad un’ombra di ragione, fornirli di grano, insegnar ad essi il modo di seminare e di vivere su la giornaliera loro fatica.

Per raggiungere un tale scopo, si posero ad incalzarli sì da vicino e a spaventarli tanto col fuoco degli archibusi, che in pochi giorni, se un colono non arrivava sempre col tiro del suo moschetto a stendere morto un Indiano, lo vedea cadere semivivo dalla paura; onde atterriti in guisa così tremenda, si involavano e più e più alla vista de’ nostri, i quali instancabili nell’inseguirli e riuscendo ogni giorno ad ucciderne o ferirne qualcuno, li fecero rintanare nel più folto de’ boschi e ne’ burroni, ove si vedeano ridotti all’ultima miseria per mancanza di nudrimento. Molti in fatti di quegli sventurati furono rinvenuti ne’ boschi morti non di ferite, ma dalla fame.

Tale spettacolo ammollì i cuori de’ coloni, che si mossero a compassione, e il cuore soprattutto del governatore spagnuolo, uom d’animo il più nobile e generoso ch’io mi abbia mai conosciuto in mia vita. Propose questi si procurasse, se era possibile, di prendere vivo uno di que’ selvaggi, e veder di condurlo a comprendere le intenzioni de’ coloni quanto bastasse per mandarlo siccome interprete ai suoi compagni, e tentare di ridurli a tali patti su cui si potesse contare e conciliabili con la salvezza delle lor vite e la sicurezza per parte dei nostri di non essere più molestati.

Vi volle qualche tempo prima di ottenere questo intento; ma finalmente un di costoro, debole e mezzo morto dalla fame, fu sorpreso ne’ boschi e fatto prigioniero. Si mostrò da prima lunatico, che non volea saperne nè di mangiare nè di bere, ma a forza d’usargli buone maniere, di offrirgli cibo e di non recargli veruna ingiuria, divenne mansueto e rinvenne in sè stesso. Condotto a lui il vecchio Venerdì, questi gli parlò spesse volte e giunse a persuaderlo delle buone intenzioni dei coloni verso i suoi compatriotti; come questi avrebbero non solamente risparmiate le vite, ma assegnato ad essi un luogo dell’isola in cui vivere, semprechè promettessero di rimaner entro i loro confini e di non andare fuori di essi a danno e pregiudizio degli altri; in tal caso avrebbero grano da seminare, [p. 482 modifica]e da cui ritrarre la loro sussistenza avvenire; che intanto di presente sarebbero stati provveduti di pane. Il vecchio Venerdì dunque gli disse d’andare ad informare di tali cose i suoi compatriotti e di sentire che cosa gli rispondevano, assicurandolo ad un tempo che, se non si arrendevano a tali proposte, sarebbero stati tutti irremissibilmente sterminati.

Que’ poveri diavoli, umiliati affatto e ridotti al numero di circa trentasette, non si fecero pregare ad accettar la proposta, e per prima cosa chiesero che si desse loro da mangiare. Udito il quale messaggio, dodici Spagnuoli e due Inglesi ben armati in compagnia dei tre schiavi indiani e del vecchio Venerdì, si trasferirono laddove erano questi selvaggi. I tre schiavi indiani portavano molta copia di pane, alcune focacce di riso bollito seccate al sole e tre capre vive. Qui fu intimato ai medesimi di portarsi al piede d’una collina ove sedutisi, mangiarono le vettovaglie recate loro dando segni d’indicibile gratitudine, poi furono fedeli alla parola oltre quanto mai si fosse potuto immaginare; perchè, se non era per chiedere viveri o [p. 483 modifica]istruzioni, non uscivano una sola volta dei loro confini, entro i quali vivevano quando giunsi nell’isola e andai a vederli.

Furono ammaestrati sul modo di seminare il grano, di fare il pane, di allevarsi capre domestiche e di mungerle. Mancava ad essi l’avere donne per divenire presto una nazione. Il confine assegnato loro era un braccio di terra ricinto d’alti dirupi alle spalle e inclinato verso il mare che gli stava rimpetto sul lato dell’isola posto tra mezzogiorno e levante. Avevano un bastante spazio di terreno e buono e fertile da coltivare: largo all’incirca un miglio e mezzo; lungo tre o quattro.

Gli Spagnuoli insegnarono loro a fabbricarsi vanghe di legno come quelle che mi area fatte io con le mie mani, e li regalarono di dodici azze e tre o quattro coltelli. Qui conducevano una vita di creature le più docili ed innocenti di cui siasi mai udito parlare.

Dopo ciò la colonia godè d’una perfetta tranquillità, immune di ogni timore rispetto ai selvaggi che le erano vicini, sino al tempo in cui tornai a visitarla, il che fu dopo due anni. Non dirò già che a quando a quando alcuni canotti d’Indiani non approdassero ivi per qualcuno de’ trionfali orridi loro banchetti; ma, essendo di diverse nazioni, e forse non avendo mai udito parlare di quelli che erano sbarcati nella stessa isola prima di essi, non fecero niuna ricerca dei loro compatriotti; e se avessero fatta qualche indagine per questa cagione, sarebbe stata per essi cosa ben difficile lo scoprirli.

Così io credo aver dato un pieno ragguaglio di quanto accadde nell’isola, delle cose almeno più degne di commemorazione, fino all’istante del mio ritorno. Gl’Indiani o selvaggi furono in guisa maravigliosa condotti a civiltà dai coloni che gli andavano sovente a visitare, ma proibivano ai primi sotto pena di morte il restituire queste visite, tanta paura avevano di vedere una seconda volta posto a soqquadro la loro compagnia.

Una cosa notabilissima si è che i coloni, avendo insegnato agl’Indiani il modo di fare lavori di vimini, gli scolari superarono di gran lunga i maestri; perchè fecero un mondo di belle manifatture in tal genere, soprattutto ogni sorta di panieri, vagli, gabbie da uccelli, portabicchieri, ed anche sedie, sgabelli, letti grandi e piccoli, e mille altre vaghe cose: ogni qual volta si mettevano in questi lavori, davano a vedere un acutissimo ingegno.