Cartagine in fiamme/18. La difesa della torre

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18. La difesa della torre

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17. Una spedizione notturna 19. Una fuga miracolosa

LA DIFESA DELLA TORRE


La torre entro la quale avevano cercato un valido rifugio, era la più alta che avesse la fortezza e anche la più salda, e dominava completamente le altre quattro, che si ergevano sugli angoli delle bastionate.

Invece di essere quadrata, era pentagonale, e aveva sulla cima un terrazzo spazioso, dove nel mezzo s'alzava una di quelle macchine d'assedio e di difesa chiamate catapulte, formate da una specie di carro con quattro ruote, da travi massicce che formavano come una porta quadrata e d'un braccio di legno, che alla sua estremità superiore, entro una specie di ampia scodella, reggeva una palla di pietra del peso di parecchi chilogrammi, destinata a proiettile.

Mediante un complicato sistema di corde e di leve e di rulli, il braccio scattava lanciando, con grande violenza, la palla ad una distanza di qualche centinaio e anche più di metri.

Era insomma il cannone antico che non aveva bisogno né di polvere, né di artiglieri e che non richiedeva altro che delle robuste braccia per farlo scattare.

— Per Molok e Khamon insieme! Con questa macchina daremo da fare alla guarnigione — disse il veterano. — Quale buona idea ha avuto il comandante di farla collocare quassù! Batteremo per bene le altre torri, Sidone.

— Lo credo, capitano.

— I tuoi uomini sanno adoperare questo istrumento?

— Sulle nostre navi non ne abbiamo, tuttavia conosciamo perfettamente il loro meccanismo ed io lancerò le palle di pietra, dove vorrai. Me ne intendo più di quello che credi.

— Fa' trasportare Hiram nella stanza inferiore. Fra poco qui cadranno pietre e frombole in abbondanza.

— Lascia che assista anch'io alla battaglia — disse il fiero cartaginese. — Ho ancora bastante forza per maneggiare una daga.

— In questo momento non servirebbe a nulla, amico — rispose Thala. — È battaglia di proiettili quella che combatteremo e poi i miei uomini sono sulla scala e finché ci saranno loro, nessuno ci sorprenderà alle spalle. Lascia quindi a me il comando e obbedisci.

— Fa' dunque quello che vuoi.

Sidone chiamò due uomini e fece trasportare il padrone nella seconda stanza. Erano appena scomparsi che una palla di pietra, lanciata da una catapulta istallata su una delle altre torri, colpiva furiosamente un merlo, decapitandolo a metà.

— Ecco che sprecano pietre — disse Sidone. — Siamo più alti e risponderemo vigorosamente.

Tutte le terrazze delle torri si erano coperte di guerrieri armati di archi e di frombole, i quali urlavano ferocemente. — Arrendetevi!... Siete presi!...

— Non aver tanta fretta — disse Sidone. — La gente di mare è più calma e anche più guardinga. Badate alle vostre teste e corazzatele per bene. Comincio anch'io.

Ad un suo cenno sei uomini, i più robusti del drappello, si erano collocati alle leve dei verricelli, montando il braccio di legno, entro la cui scodella l'hortator aveva collocata una palla di pietra più o meno rotonda, del peso d'una trentina di libbre.

— Sei pronto? — chiese il veterano.

— Sì, signore — rispose Sidone.

Una bordata di frecce arrivò in quel momento sulla piattaforma della torre, piantandosi nei merli e nelle travi della catapulta.

L'hortator fece scattare la macchina e la palla partì con un ronfo sonoro, descrivendo una gran parabola. Essendo stato il braccio orientato verso il nord, andò essa a colpire, con estrema violenza, uno dei merli della torre che trovavasi in quella direzione, smantellandolo di colpo. Si spaccò ed i rottami tempestarono i guerrieri che occupavano il terrazzo, facendone cadere parecchi più o meno gravemente feriti.

— Ecco una risposta che pagherei con un talento d'oro, se avessi la fortuna di possederlo — disse il veterano.

— Abbiamo qui più di cinquanta palle di pietra e cercherò di non sprecarle.

— Rimonta la catapulta e non esporre i tuoi uomini. Io scendo per vedere che cosa fanno i miei.

Mentre i numidi caricavano il verricello, Thala scese la scala, in fondo alla quale si udivano a risuonare dei colpi sordi e così formidabili da far tremare le massicce muraglie della torre.

I suoi guerrieri erano tutti seduti sugli ultimi gradini, cogli scudi imbracciati e le daghe e le azze in pugno, in attesa d'impegnare la lotta.

— E dunque amici? — chiese Thala.

— Cercano di sfondare la porta con un ariete — rispose il più anziano del drappello.

— Allora non resisterà a lungo, quantunque sia massiccia.

— Resisteranno meglio i nostri scudi e le nostre armi. La scala è stretta e tortuosa e prima di giungere sulla piattaforma vi sono centocinquanta gradini, io li ho contati. Ci vorrebbero quindi tre o quattrocento uomini per espugnarli e chissà quanti giorni. Non temere che ti assalgano alle spalle, Thala. Noi rispondiamo della difesa.

— Se l'alba fosse ancora lontana, giuocherei io un bel tiro alla guarnigione — disse il veterano. — È necessario che teniate duro fino a notte.

— Non daremo indietro.

Thala risalì la scala e si fermò nella prima stanza che, come abbiamo detto, conteneva armi, scudi e lunghe corde di ricambio per le catapulte.

— Basterà annodare due di queste funi — mormorò. — Aspettiamo la notte.

Risalì al secondo piano dove giaceva Hiram, sdraiato sulla coperta, con a fianco Fulvia, incaricata d'impedirgli di commettere qualche imprudenza.

— Stiamo per cadere nelle mani de' nemici? — chiese ansiosamente il ferito appena lo vide entrare.

— Rassicurati, amico — rispose Thala. — C'è tempo.

— Odo colpi di sotto e colpi di sopra.

— Quelli di sopra sono prodotti dalla catapulta che il tuo hortator maneggia con un'abilità meravigliosa; quelli che giungono dal basso, sono colpi d'ariete della guarnigione; tuttavia non inquietarti. Tu sai che io non sono uomo da perdermi d'animo.

— Ti ho veduto durante le sanguinose guerre d'Italia e conosco il tuo coraggio ed il tuo sangue freddo.

— Allora riposati tranquillo e non commettere sciocchezze. Noi basteremo per tener testa alla guarnigione per molte e molte ore.

— E poi? Non vorrei morire prima d'aver conosciuta la sorte d'Ophir.

— Ben pochi di noi lasceranno qui la loro pelle — rispose Thala. — Domani sera mi spiegherò meglio. Non lasciarlo, fanciulla; io vado a vedere come vanno le cose lassù.

Sulla piattaforma le cose andavano meglio di quanto credeva il mercenario. Infatti Sidone, aiutato dai suoi uomini, aveva già scagliato una diecina di palle di pietra, atterrando quasi tutte le merlature e anche parte dei parapetti delle altre torri e mettendo fuori di combattimento le catapulte di sotto. I nemici però non si erano ancora decisi a sgombrare le terrazze, quantunque esposti alle palle dei numidi, ed ogni volta che la catapulta di Sidone scattava, rispondevano con scariche di frecce incendiarie, affatto inefficaci.

— Signore — disse l'hortator vedendo salire il veterano. — Ancora un po' e non vi saranno più guerrieri sulle terrazze.

— Tu sei un uomo prodigioso — rispose Thala. — Si direbbe che nella tua vita non hai fatto altro mestiere che quello di servire alle catapulte.

— Ho l'occhio d'un buon marinaio, ecco tutto. E giù che si fa?

— Non hanno ancora sfondata la porta.

— Lasciami un po' di tempo, poi accorreremo in aiuto dei tuoi amici.

La catapulta era stata nuovamente montata. L'hortator fece il suo tiro contro la torricella che era la più maltrattata, facendo diroccare l'ultimo tratto di parapetto, che serviva di rifugio agli arcieri.

Un momento dopo non vi era più un uomo sul terrazzo. Tutti erano fuggiti nei piani inferiori per non farsi inutilmente massacrare.

— E una — disse Sidone. — Quella non ci darà più alcuna noia.

— Alle altre ora — disse Thala.

— Con cinque o sei palle le faremo diroccare.

Scaricò due volte la catapulta diroccando un'altra torre, e facendo fuggire anche da quella i difensori. Stava per rivolgere i tiri verso la terza, quando un rombo formidabile echeggiato al basso, e che fece tremare tutte le vòlte e le pareti, lo fece sobbalzare.

— La porta è stata sfondata! — gridò. — Signore, prendi quattro dei miei uomini e corri in aiuto dei tuoi compagni. Io ne ho abbastanza pel servizio della catapulta.

Thala già scendeva la scala a precipizio, seguito da alcuni numidi che si erano armati d'archi e di frecce.

Pur troppo la porta, sotto i continui colpi d'un pesante ariete, maneggiato da parecchie braccia, aveva ceduto, però i forti veterani del grande Annibale, ritiratisi a mezza scala, avevano arrestato lo slancio degli invasori, a gran colpi d'ascia e di daga.

Riparati dietro i loro scudi, che formavano insieme come una trincea di bronzo, non era cosa facile cacciarli dalla strettissima gradinata. Gli avversari, dopo essere stati ributtati, non avevano però indugiato a muovere alla riscossa con grande impeto. Non potendo tuttavia inoltrarsi che due alla volta, si trovavano a malpartito.

Ed il peggio fu quando sopraggiunse Thala coi numidi. Questi, collocatisi dietro ai veterani, cominciarono a far piovere una pioggia di dardi, che si piantavano là dove le corazze non potevano proteggere i combattenti.

— Coraggio amici! — gridò il veterano. — Abbiamo smontate già le terrazze delle torri e le loro macchine: ricacciamo ora questi!

Un frastuono orrendo faceva rimbombare la grossa torre. Era un misto di urla, di gemiti e di rantoli e di scudi e d'elmetti percossi dalle armi da taglio.

Tre volte i guerrieri della fortezza, resi furiosi dall'ostinata resistenza che opponevano i veterani, fermi come un blocco di metallo, montarono all'assalto della scala con valore disperato, incoraggiati dalle grida dei loro capi, e altrettante volte dovettero retrocedere fino alla porta, inseguiti dalle frecce dei numidi i quali erano aumentati di numero, avendone mandati Sidone altri tre.

Vi fu una breve sosta fra i combattenti per riprendere fiato e nuovo slancio. Thala ne approfittò per dire ai numidi:

— Raccogliete quanti scudi trovate nel magazzino e scaraventateli addosso ai nostri nemici. Saranno più efficaci dei vostri dardi e...

Una voce che s'alzò dietro l'angolo della porta lo interruppe.

— Arrendetevi e avrete salva la vita!

Thala rispose con una risata.

— Abbiamo servito troppi anni la tua repubblica, per non sapere che ha un Baal-Molok sempre avido di carne umana, e anche botti irte di chiodi per cacciarvi dentro i prigionieri. Vieni a prenderci, dunque!

— Fra poco noi saremo in doppio numero. L'equipaggio della triremi che è ancorata in porto, sta sbarcando.

— Dia la scalata alla torre — rispose Thala.

— Getteremo giù la scala a colpi d'ariete, così non potrete più scendere.

— Salteremo senza aver bisogno dei gradini.

— Morrete lassù di fame.

— Ci mangeremo fra noi.

— Non vi arrendete? — urlò furiosa la voce.

— No.

— Su, miei valorosi. Vivi o morti prendeteli.

I guerrieri della fortezza per la quarta volta si slanciarono, stipandosi come acciughe, su per la scaletta, una valanga di pesanti scudi lanciati dai numidi, si rovesciò sulle loro teste, schiacciando i loro elmetti.

Fu un'altra rotta e più disastrosa della prima, poiché i veterani questa volta scesero la scala caricando i fuggiaschi e respingendoli oltre la porta. Dieci o dodici uomini erano rimasti a terra, accumulati sul pianerottolo e boccheggiavano. Urla feroci si erano alzate nel corridoio, il quale doveva essere pieno di soldati, che non potevano in modo alcuno spingersi innanzi. I veterani riguadagnarono sollecitamente la scala per non farsi sorprendere ed era stata una vera fortuna, poiché un istante dopo l'ariete, che aveva sfondata la porta, veniva scagliato a gran forza nel pianerottolo. Un momento di ritardo e certo venivano schiacciati.

— Risalite al primo piano — comandò Thala. — Si preparano a sfondare la scala.

L'ariete tornò ad attraversare la porta diroccando tre o quattro gradini.

Un altro colpo e tutta la prima parte della scala doveva diroccare, almeno fino al pianerottolo superiore.

Mentre dodici uomini maneggiavano la pesantissima trave che terminava in una testa di montone, di bronzo massiccio, altri lanciavano frecce fiammeggianti per impedire ai veterani ed ai numidi di ostacolare l'opera di demolizione. Erano però proiettili sprecati, poiché i compagni del veterano obbedienti ai suoi ordini, si erano limitati a occupare fortemente il pianerottolo superiore ed a difendersi coi loro grandi scudi.

I colpi si succedevano ai colpi, sempre più terribili ed i gradini continuavano a sgretolarsi e poi a precipitare. Uno più violento degli altri determinò la caduta dell'ultimo tratto, sicché un'altezza di quasi dieci metri, divideva ormai i combattenti, rendendo impossibile la discesa dei mercenari di Thala e altrettanto la salita ai difensori della fortezza.

— Ora che da questa parte non corriamo, almeno pel momento, alcun pericolo, andiamo a vedere se l'hortator d'Hiram ha terminata la sua faccenda. Non mostratevi, — aggiunse poi rivolgendosi ai suoi compagni — e impedite qualunque scalata.

— Nessuno metterà piede su questo pianerottolo — rispose il più anziano. — Va', capitano.

Thala rimontò fino alla piattaforma e vi giunse nel momento in cui Sidone, dopo tre palle perdute, sfondava i parapetti dell'ultima torretta.

— Sei giunto in buon punto, signore — gridò l'hortator. — Io ho terminata la mia parte e tu?

— Ci hanno sfondata la prima scala.

— Eh! Per Melkarth! — esclamò l'hortator facendo un salto. — Che cosa avrà fruttato la mia difesa?

— Più di quello che tu credi, hortator.

Sidone lo guardò interrogandolo cogli occhi.

— Non credi?

— Mi domando come faremo ora a scendere — disse Sidone la cui fronte si era annuvolata.

— Scenderemo lo stesso. Lascia qui i tuoi aiutanti e scendiamo da Hiram.

— Eh, signore, tu non hai pensato ad una cosa che mi pare importantissima, non essendovi qui da pescare.

— Vuoi dire?

— E mangiare? È da ieri mattina che i miei uomini non mettono nulla in bocca.

— Dirai loro di stringersi il ventre fino a questa sera.

— Hai qualche pranzo da offrirci dopo il tramonto, signore?

— Lo spero.

— Saresti Melkarth in persona?

— Taci e vieni a trovare il tuo padrone.

Hiram, quantunque si sentisse sfinito, stava a sedere interrogando con crescente angoscia Fulvia, e non cessando di pregarla perché gli procurasse un'arma qualunque, onde accorrere in aiuto dei suoi fedeli marinai e dei suoi amici.

— Padrone — disse Sidone entrando pel primo. — Abbiamo finito.

— Di vivere, è vero? — chiese il capitano.

— No, anzi di lasciarci schiacciare dalle palle delle catapulte — disse Thala che aveva sentito l'hortator.

— E tutto quel fracasso di poco fa?

— È stato la nostra salvezza, amico. Ora che la scala più non esiste e che le terrazze delle torri sono state smantellate, potremo aspettare questa sera. Il sole spunta in questo momento.

— In una giornata, — disse Sidone, scuotendo la testa, — possono succedere molte cose.

— Non a uomini decisi e forti come noi — rispose il veterano. — Credo d'altronde che la guarnigione aspetti che noi ci arrendiamo per fame.

— Dubito di poter resistere a lungo, signore — disse l'hortator. — Siamo peggiori dei leoni, noi marinai.

— Non ti domando che tutta la giornata. Avremo la luna questa sera?

— No.

— Allora tutto andrà bene.

— Thala, che cosa vuoi tentare? — chiese Hiram.

— Di andarcene senza chiedere il permesso alla guarnigione.

— Gettandoci giù dalla torre? — chiese Sidone facendo una smorfia. — Non sarei sicuro di giungere abbasso tutto d'un pezzo come lo sono ora.

— Infatti io non troverei nessun altro mezzo — disse Fulvia.

— T'inganni, fanciulla, ve n'è un altro — rispose il veterano. — Abbiamo delle funi a nostra disposizione e non poche e ce ne serviremo.

— Ah! — esclamò Sidone. — Per calarci giù dalla torre. Ed io non avevo pensato a ciò, io che sono un marinaio.

— Le legheremo alle braccia della catapulta e scenderemo senza correre alcun pericolo.

— E dove? — chiese Hiram.

— Sceglierò il luogo. Conosco la fortezza.

— Purché non se ne accorgano — disse Sidone.

— Non sospetteranno di nulla; e poi le tenebre proteggeranno la nostra fuga.

— Troveremo poi ancora la nostra scialuppa?

— Forse che non vi è la triremi ancorata in porto? — disse il veterano. — Noi troveremo su quella nave un equipaggio molto ridotto, che vinceremo facilmente.

— Signore, tu sei un grande guerriero! — esclamò l'hortator con entusiasmo.

— E andremo subito a Utica — disse Hiram.

— Per farci subito riprendere? — disse Thala. — Il porto di Cartagine è vasto e vi possiamo entrare senza destare sospetti; a Utica verremmo subito notati e allora sarebbe davvero tutto finito per noi.

— E poi è a Cartagine che noi dobbiamo dare battaglia al vecchio Hermon ed al fidanzato di Ophir — disse Sidone. — Il suo posto è là e non a Utica.

Un intenso dolore aveva alterato il viso d'Hiram, udendo quelle parole.

— E se fossero state celebrate le nozze? — chiese con voce sorda.

— Si rapirà egualmente — rispose l'hortator. — Ti ama, tu l'ami e vi faremo felici entrambi.

— Non corriamo troppo — disse il veterano. — Io credo che dopo quanto è avvenuto, il vecchio non avrà concluso lì per lì il matrimonio. Vieni, Sidone, andiamo a vedere che fanno i nostri nemici; potrebbero tentare qualche sorpresa.

Erano appena usciti quando Hiram si lasciò cadere pesantemente sulla coperta, come se le forze gli fossero improvvisamente mancate. La sua testa era però posata sul braccio destro di Fulvia, la quale era stata sollecita ad allungarglielo sotto.

— Tu soffri, Hiram — disse dolcemente la giovane etrusca.

— Non è la ferita che mi tormenta — rispose il cartaginese con voce un po' fioca. — Quella che ho ricevuto sul lago Trasimeno era ben più terribile di questa.

— Sì, mi ricordo, quantunque siano trascorsi tanti anni; quanti lini imbrattati di sangue ti toglieva mio padre! — disse Fulvia con un lungo sospiro. — È Ophir che ti dà tante angosce?

— Non poter sapere nulla di ciò che è avvenuto di quella fanciulla mi si spezza il cuore — rispose Hiram. — Se fosse morta?

— Tu non hai ancora le prove per affermare questo.

— Tu non hai veduto a salvarla.

Fulvia lo guardò aggrottando impercettibilmente la fronte, poi rispose con voce un po' acre: — No.

— Eppure doveva esserti vicina.

— Non lo nego, però l'urto fu così improvviso che non ebbi il tempo di guardare se gli uomini dell'acatium facessero in tempo per ripescarla.

— Marinai di quella piccola nave si erano però gettati in acqua?

— Mi parve.

— Me lo ha detto Sidone.

— L'hortator può aver avuto gli occhi migliori di me — rispose Fulvia con una certa freddezza.

— Ah! Non poter sapere se è stata salvata! — esclamò Hiram.

— Sarebbe forse meglio morta che sposa d'un altro, giacché l'ami così intensamente.

— No! No!

— E se non avessero avuto il tempo di trarla dal mare? La notte era oscura, una grande confusione regnava sull'acatium e anche sulla nostra barca. In simili condizioni non è facile salvare un naufrago.

— Vorresti tu Fulvia mettermi uno spino nel cuore?

— Quale?

— Di persuadermi che sia morta?

— E se lo fosse realmente? — chiese l'etrusca con voce sempre più fredda.

— Allora tu l'hai veduta affogare! — gridò Hiram rialzandosi a sedere. — E tu, Fulvia, che mi hai detto di saper nuotare come un uomo di mare, non hai tentato nulla per salvarla? Hai dunque anche tu nel sangue l'odio feroce della razza romana?

— Mio padre non ti avrebbe salvato, né curato.

Hiram si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore.

— È vero, sono ingiusto verso di te, Fulvia — rispose poi. — Perdonami: ho troppo amato Ophir. Giurami almeno che tu non l'hai veduta morta.

— Te lo giuro.

— E che l'hanno salvata!

— Questo non te lo posso dire — rispose l'etrusca, cambiando bruscamente tono e tornando dolce. — Tuttavia io credo, Hiram, che abbiano avuto il tempo di strapparla alla morte. Erano saltati in acqua molti marinai dell'acatium, è quindi probabile che l'abbiano ritrovata subito.

— E perché poco fa mi mettevi dinanzi dei dubbi?

— Per sapere fino a quale punto tu amavi quella... cartaginese.

— Ne dubitavi?

Fulvia increspò la fronte e strinse le labbra quasi per impedire che un grido le uscisse; poi dopo d'aver riacquistato prontamente il suo sangue freddo, rispose, cercando di evitare lo sguardo penetrante ed interrogativo del cartaginese:

— Oh no. Ora sono certa che il tuo cuore è tutto suo. La rivedrai la tua fanciulla, ne sono certa; e diventerai felice al fianco suo ed io farò di tutto per aiutarti nell'impresa e per addormentare ancora Phegor, che è il tuo più terribile nemico, il più temibile fra tutti. Esigo però da te una promessa?

— Quale?

— Che tu non mi riconduca in Italia.

— Perché? Non rivedresti volentieri la tua bianca casetta ed il tuo azzurro lago, i tuoi verdeggianti boschi e i campi che tuo padre coltivava? Là, fra quelle pareti, fra quei tramonti d'oro, che io ho tanto goduto, fra le fresche brezze del Trasimeno, potresti godere ancora la felicità che i corsari fenici ti hanno rubata.

— Troppi ricordi! — rispose la giovane. — Tutto voglio dimenticare: amo più l'Africa oggi che il mio lago.

— Perché Fulvia? — chiese nuovamente Hiram, stupito.

— Non lo so — rispose l'etrusca.