Cartagine in fiamme/23. Il tempio di Tanit

Da Wikisource.
23. Il tempio di Tanit

../22. Roma alla conquista dell'Africa ../24. La caccia ai sacerdoti IncludiIntestazione 31 dicembre 2016 75% Da definire

22. Roma alla conquista dell'Africa 24. La caccia ai sacerdoti

IL TEMPIO DI TANIT


A sera piuttosto inoltrata, allorché le vie erano deserte, i dodici sacerdoti di Tanit, che indossavano lunghi camici di leggera flanella giallastra, stretti ai fianchi da un semplice cordone di tinta purpurea ed il viso coperto da un ampio cappuccio, scendevano le tortuose viuzze dell'antica città, che conducevano al porto.

Erano scortati da quattordici guerrieri, difesi da corazze e armati di lunghe spade iberiche.

Non sarebbe necessario dire chi erano. Aggiungeremo solo che fra quei falsi sacerdoti, si nascondeva anche una donna: Fulvia.

La generosa fanciulla, quantunque non ignorasse i pericoli a cui si esponevano i due drappelli, aveva voluto unirsi alla spedizione per poter dominare colla sua presenza la spia, della quale non era bene fidarsi troppo. Dovevano mancare due ore alla mezzanotte, quando sacerdoti e scorta giunsero sulle calate del porto.

Un uomo coperto da un ampio mantello di lana scura, stava fermo presso la spiaggia, dinanzi alla quale si dondolava una grossa barcaccia colla prora molto rialzata.

— Sei tu che aspetti un esiliato? — chiese Hiram che indossava un costume da sacerdote, interrogando lo sconosciuto, il cui viso era coperto da un cappuccio.

— Sono Phegor — rispose l'altro. — Cominciavo a perdere la pazienza, capitano. Non saremo all'isolotto prima della mezzanotte.

— Giungeremo sempre in tempo. Hai qualche notizia da comunicarmi?

— Nessuna buona, e nessuna cattiva.

— Hermon dov'è?

— So che si è recato a Utica colla speranza d'indurre quella popolazione a prendere parte alla difesa di Cartagine, e rompere l'alleanza contratta coi nostri nemici d'Italia.

— Vi riuscirà?

— Hum! — fece Phegor, facendo un gesto largo. — Utica si tiene più sicura con Roma che con noi. Imbarchiamoci che è già tardi.

— Verrai anche tu con noi?

— Sì — disse con voce imperiosa uno dei dodici sacerdoti.

— Ah! Anche Fulvia! — esclamò Phegor volgendosi rapidamente. — Credevo che tu fossi rimasta nella tua casupola. Giacché ti sei unita a questi valorosi, io pure m'imbarcherò; tuttavia ti avverto che non varcherò la soglia del tempio. Io non amo compromettermi, e poi sono troppo conosciuto anche da quei sacerdoti e dalle guardie.

— Io non ti domando di sacrificarti fino a tale punto — rispose asciuttamente l'etrusca.

Tutti balzarono nella barcaccia e afferrarono i remi che erano stati disposti nel fondo.

Phegor si mise al timone, conoscendo meglio degli altri l'isolotto su cui sorgeva il tempio dedicato a Tanit.

Essendo il mare calmo, la barcaccia camminava lestamente sotto la poderosa spinta dei dodici remi, manovrati dai numidi.

Uscì dal porto mercantile senza essere stata scorta dalle due triremi di guardia, che incrociavano dinanzi al canale e si diresse verso l'isolotto di Melkarth, che sorgeva a circa due miglia dall'ultima diga, isolotto che più tardi doveva scomparire totalmente sotto gli assalti brutali ed incessanti del Mediterraneo. La mezzanotte non era ancora passata, quando la barcaccia si arenava sulla spiaggia, entro una minuscola cala che serviva di approdo alle piccole imbarcazioni.

— Lo vedete laggiù il tempio, dietro quei palmizi? — indicò Phegor tendendo un braccio. — Non avete da percorrere che due o trecento passi.

— E tu? — chiese Hiram.

— Io ritorno in città — rispose la spia. — Vi è un'altra cala dove si trovano sempre parecchie barche. Me ne prendo una e vogo al largo. Ti ho detto che io non desidero immischiarmi in questa faccenda.

— Non voglio obbligarti.

— Tu però mi giuri di nulla tentare contro questi uomini? — disse Fulvia avanzandosi verso la spia.

— Hai la mia parola. Che Baal-Molok mi bruci dalla punta dei piedi fino ai capelli, se dalla mia bocca uscirà una sola parola di quanto voi state per fare.

— Gli è che diffido sempre di te.

— Ed hai torto, Fulvia. Dovrei diffidare io di te.

— Perché?

— Mi hai giuocato troppo bene la sera che il capitano interruppe le nozze di Tsour. Tu sei scappata con lui invece di aspettare me.

— Sono tornata.

— Sì, in causa di certe circostanze. Tuttavia non ti serbo rancore. Buona notte e buona fortuna.

Si avvolse nel suo ampio mantello di lana, posò la destra sulla impugnatura della daga e si allontanò scomparendo fra i palmizi che coronavano la spiaggia.

— Muori dannato! — mormorò l'etrusca. — L'ora della vendetta non sarà troppo lontana!

— Thala, mettiti alla testa del drappello e agisci con prudenza — disse Hiram al capo dei veterani. — Bada che una parola detta male potrebbe perderci tutti.

— Non temere — rispose il guerriero. — Spero d'altronde che il capo della guardia mi conosca.

La scorta si mise alla testa del drappello e s'avanzò sotto palmizi che cominciavano a diventare piuttosto fitti.

Percorsi circa duecento cinquanta passi, si trovarono dinanzi ad una gigantesca e massiccia costruzione, di forma rettangolare, che somigliava un po' ai templi egiziani, sorretta esternamente da un gran numero di pilastri. Più che ad un tempio, rassomigliava ad una fortezza, quantunque fosse priva di merlature.

Dalle feritoie che dovevano da servire finestre, non usciva nessun raggio di luce, segno evidente che i sacerdoti erano immersi nel sonno. Thala, dopo aver osservata attentamente la costruzione e d'essersi convinto dell'impossibilità di entrarvi, s'avvicinò ad una piccola porta di bronzo, in mezzo alla quale si scorgeva un pesante martello la cui testa raffigurava Baal-Molok.

— È necessario passare per di qua — disse a Hiram.

— Che cosa speravi?

— Di poter forzare qualche feritoia, ma sono collocate così in alto da rendere impossibile un simile tentativo. E poi non abbiamo gl'istrumenti necessari per una tale impresa.

— Giuochiamo d'audacia, amico — rispose Hiram.

— Non ci rimane null'altro da fare.

— D'altronde se le cose volgeranno a male attaccheremo a fondo. Sai che sotto i nostri camici portiamo le corazze e le daghe.

— Non dubito del valore dei tuoi uomini e soprattutto della robustezza del tuo braccio. Tu vali sempre per cento.

Alzò il pesante battente e lo lasciò cadere con un fracasso assordante, che si ripercosse entro il tempio. Il fragore era appena cessato, quando un piccolo sportello si aprì ed una voce rude chiese: — Chi è? cosa volete?

— D'ordine del capo del Consiglio dei Centoquattro, il vecchio Hermon, aprite — rispose Thala.

— A quest'ora?

— Stupido!... Non sai che ormai in Cartagine la notte è pari al giorno? Ignori dunque che la repubblica è in pericolo?

— Che cosa vuole il capo del Consiglio?

— Levare la guardia e rinforzare il numero dei sacerdoti. Ne conduciamo altri dodici.

Si udì un fragore di ferraglie, e la porta fu aperta.

Sette od otto guerrieri, muniti di lampade di metallo e armati di larghe daghe, uscirono mettendosi dinanzi al drappello di Thala e guardandolo sospettosamente.

— Chi è il capo? — chiese una voce.

— Io.

— Hai un ordine scritto da Hermon?

— Non ha avuto tempo di darmelo, avendo dovuto partire immediatamente per Utica. Che cosa temi? Non vedi che ho con me dodici camerati?

— Toh!... Ma io conosco questa voce — disse il guerriero avanzandosi verso il veterano ed alzando la lampadina. — Non mi sono ingannato: tu sei Thala, il capitano dei mercenari greci.

— Non ti sei ingannato.

— Che cosa vuole da me il Consiglio?

— Che tu ti rechi al più presto possibile a Utica, dove Hermon ti aspetta. Credo che debba affidarti una missione importantissima.

— Solo?

— No, colla tua scorta.

— E tu?

— Rimango a guardia del tempio.

— Per vegliare sulla figlia del capo dei Centoquattro?

— Sì — rispose Thala.

— Hai ricevuto l'ordine di non lasciar entrare nel tempio alcuna persona, dovesse essere quella anche un Suffetto?

— Hermon me lo disse prima di partire.

— T'incaricherai tu allora, capitano, d'avvertire il capo dei sacerdoti della nostra partenza.

— Non preoccuparti di ciò, camerata. Conosco il capo. Hai una barca?

— Ve ne sono parecchie.

— Allora parti subito — disse Thala. — Sai che Hermon vuole essere subito obbedito.

Il guardiano del tempio accostò una mano alle labbra e mandò un grido stridente.

Tosto altri quindici o sedici guerrieri, che si erano fino allora tenuti nascosti nel corridoio, pronti a prestare mano forte ai compagni, se vi fosse stato bisogno, uscirono schierandosi dietro al loro capo:

— Partiamo — disse il duce. — Ordine del Consiglio dei Centoquattro. Abbiamo scialuppe sufficienti per recarci a Utica?

— Sì — rispose una voce.

— Addio, capitano, e non scordarti delle raccomandazioni che ti ho fatte. Il vecchio Hermon è vendicativo contro chi non lo ubbidisce. Non dimenticarlo.

— Fidati di me, camerata — rispose Thala. — Nessuno entrerà finché ci sarò io.

— Buona fortuna.

La guardia del tempio si mise in marcia dirigendosi verso la spiaggia, che, come abbiamo detto, non era lontana.

Thala attese che il rumore dei passi si fosse dileguato, raccolse una delle lampade lasciate a terra dai suoi camerati e s'avanzò nel corridoio dicendo:

— Tenete pronte le armi!

Non vi era bisogno di quella raccomandazione, poiché anche i dodici falsi sacerdoti avevano estratte le daghe, risoluti a scannare quante persone si trovavano nel tempio, se avessero opposto resistenza.

Passato il corridoio, si trovarono dinanzi ad una stretta e tortuosa gradinata, che saliva ripidissima e che montarono frettolosamente, impazienti di rapire Ophir.

Hiram e Thala si erano messi alla testa del drappello, spalleggiati subito da Sidone, che guidava Fulvia.

Avevano contati sessanta gradini, quando si trovarono dinanzi ad una porticina che pareva pure di bronzo e anche molto massiccia.

— Il vecchio Hermon l'ha messa al sicuro — disse Thala, un po' contrariato per quell'ostacolo che non si aspettava d'incontrare.

— Ed i sacerdoti hanno preso delle precauzioni straordinarie, a quanto sembra, — aggiunse Sidone.

— Che cosa faremo ora? — chiese Hiram coi denti stretti.

— Si bussa e ben forte — rispose l'hortator. — Non siamo anche noi sacerdoti? Abbiamo ben bisogno di riposarci al pari degli altri. Lascia rispondere a me, se quei bravi seguaci di Tanit si degneranno d'interrogarci. Tu sai che se ho le braccia leste, ho anche la lingua sciolta.

— Purché si faccian vivi — disse Hiram.

Essendo armato, oltre che della daga anche d'un'ascia di bronzo, afferrò a due mani quest'arma e la calò a tutta forza contro la porta producendo un fracasso infernale.

A quel rombo anche un moribondo sarebbe balzato in piedi.

— Suppongo che non saranno sordi i sacerdoti di Tanit — disse il marinaio ridendo.

Per alcuni minuti un profondo silenzio regnò al di là della porta, poi si udirono bisbigli sommessi, quindi delle grida e finalmente una voce che diceva:

— Chi bussa? La guardia?

— Sì, la nuova guardia che fa scorta ai sacerdoti che qui manda il capo del Consiglio dei Centoquattro — rispose Sidone.

— Quale nuova guardia?

— Quella che manda Hermon.

— A quest'ora?

— Il Consiglio non ha più agio né di dormire, né di misurare il tempo. Aprite e date pronto asilo ai vostri confratelli.

— Che attendano l'alba nella sala delle guardie.

— E noi allora? Siamo in ventiquattro e non vi è posto bastante per tutti.

— Noi non possiamo aprire a quest'ora.

— E noi non siamo affatto disposti a dormire all'aria libera. Veniamo da Utica, dove si trova ora Hermon e siamo stanchi e affamati. Aprite!... Ordine del Consiglio dei Centoquattro e dei Suffetti. Abbiamo gravi notizie da comunicare.

— Ridiscendete allora la scala ed entrate nel corridoio di destra. Troverete una porta che sarà aperta.

Sidone guardò Hiram.

— Sì — rispose questi.

— Va bene — disse Sidone. — Fateci preparare intanto una buona cena. I guerrieri hanno sempre fame.

— Perché ridiscendere? — disse Thala, che appariva preoccupato. — Che questi sacerdoti siano più furbi di quello che crediamo?

— Che cosa temi? — chiese Hiram.

— Non so, tuttavia non sono tranquillo.

— Non siamo armati noi?

— Non dico il contrario.

— Scendiamo ed andiamo un po' a vedere se ci hanno preparata la cena — disse Sidone. — Si dice che i sacerdoti mangiano bene: proveremo la loro cucina.

Ridiscesero la scala, non senza però una certa apprensione e trovato il corridoio, ci s'inoltrarono fermandosi dinanzi ad un altra porta che era socchiusa e anche quella di bronzo massiccio.

— Si direbbe che hanno una gran paura dei pirati — mormorò Sidone. — Eppure i greci non si spingono più fin sotto le mura di Utica e di Cartagine.

Spinse la porta e si trovò dinanzi a due sacerdoti vestiti come lui e piuttosto attempati che lo salutarono con un:

— Tanit ti protegga.

Questa volta fu Thala che rispose.

— Conduco a voi altri dodici sacerdoti che il vecchio Hermon, capo del Consiglio dei Centoquattro, vi manda, onde possiate meglio sorvegliare la sua figlioccia, la bella Ophir.

— Siano i benvenuti — disse il più vecchio dei due. — Tanit sarà lieto di veder aumentare il numero dei suoi ministri. Entrate tutti, e giacché dite di essere affamati, vi offriremo quello che è rimasto della nostra cena. Seguiteci.

Hiram, Thala ed i loro compagni, si misero dietro ai due sacerdoti, i quali li introdussero in un'ampia sala, in mezzo alla quale si trovava una lunga tavola molto bassa, dove alcuni stavano già disponendo dei piatti di forma quadrata, alcuni di vetro oscuro, ed altri d'argilla pieni di diverse vivande e bottiglie tozze e larghe, che dovevano contenere vini di Sicilia e di Grecia.

Quella stanza era illuminata da alcune lampade fumose e non aveva alcuna finestra. Si sarebbe detto anzi che era stata scavata nella roccia che serviva di fondamento al tempio.

— Mangiate e bevete — disse il sacerdote che aveva prima parlato a loro. — Noi intanto prepareremo i vostri letti onde possiate riposare.

— Ne approfitteremo e bene — disse Sidone. — Questa gita notturna mi ha messo addosso una fame da sciacallo.

Tutti si sedettero intorno alla tavola, assalendo con vigore le vivande e soprattutto dando un formidabile assalto ai fiaschi, che erano numerosissimi e che contenevano vini veramente squisiti.

Nella sala erano rimasti solamente due sacerdoti, i quali si tenevano presso la porta d'entrata senza scambiare una parola, ma tutto notando e tutto osservando attentamente.

Nessuno aveva fatto loro attenzione, nemmeno Thala né Hiram, trovandosi quei due personaggi nella penombra, là dove la luce delle lampade più non giungeva.

Avendo trovato cibi eccellenti ed abbondanti, pel momento, non si occupavano che di mangiare e bere, certi ormai di tenere in pugno tutti i sacerdoti del tempio e di non aver suscitato alcuna diffidenza. Fu Sidone che pel primo ebbe qualche dubbio.

— Padrone, — disse a Hiram che gli sedeva presso, — sei tranquillo tu?

— Perché mi fai questa domanda amico? — chiese il capitano.

— L'assenza dei sacerdoti mi mette indosso qualche sospetto, padrone.

— Hanno detto che ci preparano i letti.

— Amerei meglio vederli qui tutti a tenerci compagnia, e dormire in terra avvolto nella mia tonaca.

— Ormai la piazza è nostra, amico. Quale resistenza potrebbero opporre questi sacerdoti alle nostre daghe? Aspetta che c'introducano nei loro dormitori; e piomberemo addosso a tutti e porteremo loro via Ophir. Suppongo che non l'avranno nascosta in qualche sotterraneo, noto solamente a loro.

— In tale caso saremo ben capaci di farli parlare — disse Thala. — Pel momento terminiamo la nostra cena ed aspettiamo il momento opportuno per agire. Ormai non ci sfuggiranno più di mano.

Si rimisero a mangiare ed a bere, senza occuparsi d'altro. Hiram però dopo le parole di Sidone era diventato irrequieto.

Già tutti gl'intingoli erano stati divorati da quei formidabili mangiatori, quando comparvero quattro servi, portando fiaschi monumentali.

— Il grande ministro del tempio vi prega di accettarli e di vuotarli — disse uno di loro. — È vino d'Iberia, maturato sull'Ebro, e d'una qualità speciale.

— Dirai al tuo padrone che se ne ha dell'altro, berremo anche quello — disse Sidone che era divenuto allegrissimo.

I fiaschi cominciarono a circolare; e tutti bevettero lodando la squisitezza di quell'eccellente vino. Le tazze si succedevano alle tazze, vuotandosi con vertiginosa rapidità.

Fuori d'Hiram e di Fulvia, forse più nessuno pensava allo scopo della spedizione. I servi erano scomparsi e anche i due sacerdoti che fino allora erano rimasti appoggiati agli stipiti della porta.

Hiram accortosi finalmente che il tempo passava, e che i suoi uomini cominciavano ad ubriacarsi, estrasse la daga e con quattro colpi frantumò le fiasche dicendo.

— Basta: è ora d'agire.

— Ah... padrone! — esclamò l'hortator che non era meno allegro degli altri. — Tu versi sangue ibero invece che romano.

— Non siamo già venuti qui per ubriacarci col vino di questi sacerdoti — rispose Hiram.

— È vero — disse Thala. — Noi abbiamo agito come tanti stupidi. Andiamo a sorprendere gli abitanti del tempio e guai a loro se opporranno resistenza.

Hiram si diresse verso la porta di bronzo, ma ad un tratto indietreggiò mandando un grido di furore:

— L'hanno chiusa! — esclamò. — I miserabili!...

— Non lo posso ammettere — disse Thala. — Non devono avere dei dubbi su di noi.

— Provati a spingere dunque.

Il veterano s'appoggiò contro la porta e dovette convincersi che il capitano aveva detto il vero.

— Traditi? — chiese. — Da chi?

Un nome corse su tutte le labbra:

— Phegor!...

— No — disse Fulvia avanzandosi. — Mi ama troppo per compromettere anche la mia vita.

— Può darsi — rispose Hiram. — Quei sacerdoti sono più scaltri di quanto credevamo. È probabile che si siano accorti che noi tentavamo un colpo di mano su Ophir.

— Eppure nessuno ha parlato — disse Sidone. — Che esista realmente questo dio Tanit e che li abbia avvertiti?

Hiram si era voltato verso Thala, il quale stava esaminando attentamente la porta.

— Che cosa faremo amico? Potremo noi sfondarla?

— Ci vorrebbe un ariete — rispose il veterano.

— Ne abbiamo uno sottomano — disse Sidone. — Non sarà troppo resistente, tuttavia si può provare.

— Quale? — chiesero ad una voce Hiram e Thala.

— La tavola.

— Non resisterà all'urto.

— Può darsi che questa porta sia meno robusta di quello che crediamo, signore.

— Tutto dobbiamo tentare — disse Hiram che era in preda ad una profonda angoscia. — Ogni minuto che passa può allontanare da me Ophir.

— Perché? — chiese il veterano.

— I sacerdoti possono aver preso il largo colla mia fidanzata.

— E correre a Cartagine in cerca di aiuti — aggiunse Sidone. — Se ci colgono qui, in questa specie di trappola, ci prenderanno senza troppa fatica e allora Baal-Molok avrà un bel numero di prede.

— Non avevo pensato a questo pericolo — disse il veterano. — Ah!... Se posso mettere le mani su quei bricconi di sacerdoti, non ne lascerò vivo uno solo.

— A me, camerati! — gridò l'hortator. — Picchiamo sodo.

Venti braccia sollevarono la tavola che era pesantissima, molto lunga e pochissimo larga, e si scagliarono rabbiosamente contro la porta. L'effetto fu disastroso. La tavola volò in pezzi sotto l'urto formidabile; ed i numidi, che già non erano troppo saldi in gambe, in causa del troppo vino bevuto, stramazzarono a destra ed a sinistra molto malamente. La porta non si era nemmeno mossa.

— Per Melkarth — esclamò Sidone rialzandosi colle costole ammaccate. — L'hanno di certo barricata!...

— Eppure bisogna uscire — disse Hiram.

— E prima che giungano rinforzi da Cartagine — aggiunse Sidone. — Che non ci sia nessuna finestra?

— Non ne ho vedute — rispose Thala.

— Allora ci hanno attirati in questa stanza per impedirci di uscire.

— Così sembra.

— Noi non possiamo finire così.

— Cerca qualche mezzo per poter uscire, hortator. Io per mio conto non sono capace di trovarne.

— Non poter avere sottomano un ariete!...

— Che cosa vuoi che ne facciano i sacerdoti? Non sono già guerrieri.

— Eppure tu, signore, che ci hai fatti scappare dalla fortezza, dovresti trovare qualche cosa di meglio — disse Sidone.

— Thala — disse in quell'istante Hiram. — Hai osservate le pareti?

— Non ancora, amico.

— Prendi una lampada e vieni con me.

— Che cosa speri?

— Chissà!... Vedremo.

Il veterano andò a staccare una lampadina e seguì il capitano.

— È tutta roccia — disse il cartaginese dopo d'aver fatto il giro della sala. — Ci vorrebbe un mese di lavoro prima di poter aprire un passaggio.

— Tu ti sei dimenticato una cosa però — disse il veterano alzando la lampada.

— Vorresti dire?

— Che il soffitto è formato di pietre cementate. Se potessimo staccare una di quelle lastre e farla cadere? Siamo in buon numero e le nostre braccia sono vigorose.

— Ecco un'osservazione preziosa che mi era sfuggita — rispose Hiram. — La cosa sarà però egualmente lunga. E poi come giungeremo lassù?

— Abbiamo gli avanzi della tavola, — disse Sidone che li aveva raggiunti, — e le corde dei nostri camici. Costruiremo un'armatura.

Hiram a sua volta esaminò attentamente il soffitto e parve soddisfatto.

— In tre o quattro ore una pietra potrà cadere — disse poi. — Dove finiremo, io non lo so di certo; tuttavia non ci rimane altro da tentare. Sidone, affido a te l'impresa. I numidi basteranno.

— E noi intanto faremo buona guardia dietro la porta — aggiunse il veterano.

— A me, camerati! — gridò l'hortator, che aveva ripreso il suo sangue freddo, un po' turbato dai vini di Sicilia e di Spagna.

Raccolsero i pezzi della tavola e servendosi dei loro cordoni, delle fasce e delle cinture delle daghe, improvvisarono alla meglio una specie di palco, che toccava quasi il soffitto.

Due uomini, i più robusti, furono mandati lassù e si misero febbrilmente all'opera, attaccando una lastra di pietra lunga un buon metro e larga quasi altrettanto, rosicchiando colla punta delle loro solidissime daghe il cemento che la saldava alle altre.

Frattanto Thala ed Hiram con Fulvia ed una mezza dozzina di veterani, si erano collocati dietro la porta di bronzo, temendo qualche sorpresa. Nessun rumore giungeva dal di fuori. Si sarebbe detto che i sacerdoti avevano già sgombrato il tempio, sicuri che i prigionieri non sarebbero riusciti a lasciare la loro prigione. Ed era specialmente quel silenzio che irritava maggiormente Hiram, il quale avrebbe meglio desiderato di vedersi assalito, fosse pure da forze soverchianti.

— Sento che la perdo nuovamente, e questa volta per sempre! — diceva, aggirandosi come una belva feroce dietro la porta di bronzo. — La mia felicità, tanto sognata, se ne va a pezzo, a pezzo!... Meglio sarebbe stato che io non avessi mai lasciato Tiro!

— Forse l'avresti dimenticata — disse Fulvia che si era seduta su una pelle di sciacallo, a qualche passo dal cartaginese.

— Dimenticarla! — esclamò Hiram, fermandosi dinanzi all'etrusca che lo guardava fisso, coi suoi occhi pieni di fiamme. — L'avrei pianta tutta la vita probabilmente, ed in compenso non avrei provato tante delusioni. La patria in pericolo, la fanciulla amata perduta!... Perché quell'astario romano non cacciò più profondamente la sua lancia nel mio petto?... Almeno sarei morto e non avrei conosciuto Ophir!

— E nemmeno me — disse Fulvia.

— Tu mi sei una preziosa amica e sono ben lieto d'averti conosciuta. La tua presenza mi rammenta sempre giorni felici e tranquilli.

Fulvia strinse i denti e per parecchi istanti rimase muta.

— È vero, — rispose poi; — la vita era più tranquilla sulle rive del lago Trasimeno. Disgraziatamente la mia gioventù è trascorsa troppo rapida, e per me non è stato che un sogno.

— E anche la mia — disse Hiram con un sospiro.

— Oh! tu sarai ancora felice...

— Ophir non è ancora mia.

— Lo diverrà; ne sono certa.

— Leggi nel futuro tu?

— Tutte le donne dell'Etruria sono indovine.

— E che cosa dici?

— Che un giorno sarai felice.

— E tu?

— Io! — fece l'etrusca, trasalendo. — Non ho Phegor?

— Ameresti forse Phegor?

— E perché no? — rispose la giovane alzando i suoi begli occhi neri sul cartaginese e sorridendo amaramente.

— Ah Fulvia, tu mi nascondi un segreto.

— Quale Hiram?

— È meglio non parlarne più.

— Più? E se ti pregassi di spiegarti.

— Mi rifiuterei — rispose il cartaginese.

— Credi che io ti ami?

— Sì, Fulvia.

— Ebbene t'inganni — rispose l'etrusca con una certa violenza, che tradiva però un pianto segreto. — Io non amerò che Phegor.

— Tu!... è impossibile!...

— Eppure l'amo.

— In quale modo? Come?

Il viso dell'etrusca si era fatto pallidissimo.

— Come? — chiese. — Lo saprai un giorno. Il mio amore porterà sventura! Sventura grave a qualcuno!

— A me?

— A te? Io ti ho amato come un fratello e qualunque cosa dovesse succedere, il mio amore non si spegnerebbe mai.

— E Ophir?

— L'amo... come una sorella.

— E Phegor?

— Taci Hiram — disse Fulvia con voce sorda.

In quell'istante un colpo sordo si ripercosse nella vasta sala.

La lastra di pietra della volta era caduta sul pavimento spaccandosi in molti pezzi.

Si udì subito la voce di Sidone che diceva:

— Il buco è aperto, gli uccelli di mare possono riprendere il volo.