Cartagine in fiamme/26. Il ritorno a Cartagine

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26. Il ritorno a Cartagine

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IL RITORNO A CARTAGINE


Un quarto d'ora dopo i tre uomini che non avevano più ripresa la conversazione, giungevano dinanzi al maestoso palazzo del vecchio Hermon. Phegor, che doveva aver ricevuto delle istruzioni, invece d'introdurre Hiram ed il suo compagno pel portone maggiore, che era guardato di solito da alcuni mercenari e da parecchi schiavi anche di notte, fece loro fare il giro del giardino annesso all'abitazione, facendoli entrare in una specie di chiosco, che sorgeva isolato, in forma di torre pentagonale tronca, e le cui finestre apparivano illuminate.

— Tu non entrare — disse la spia a Sidone. — Se vuoi, monta pure la guardia: verrò presto a farti compagnia.

Hiram lo guardò sospettosamente.

— Puoi entrare con animo tranquillo — disse Phegor a cui non era sfuggita quell'occhiata. — Io rispondo colla mia testa.

— Che te la taglierò con un solo colpo se avrai mentito — disse Sidone, levando di sotto la cappa una scure di bronzo, che solo il suo poderoso braccio poteva maneggiare.

Hiram fece scorrere nel fodero la daga, poi seguì la spia entrando in un salotto circolare, illuminato da una lampada di bronzo e ammobiliato con molto gusto.

Hermon era là, sdraiato su una specie di divano assai basso, che aveva per coperta una splendida pelle di leone. Vedendo entrare Hiram si era subito alzato, dicendogli:

— Che Tanit ed Astarte ti proteggano!

— E che Melkarth vegli lunghi anni ancora su di te — rispose il capitano. Il vecchio scosse tristamente il capo poi disse:

— Io sono pronto, da molto tempo, a comparire dinanzi alle nostre divinità. E poi non potrei sopravvivere alle sventure che stanno per piombare sulla mia patria adorata.

— Forse sono ancora lontane.

Hermon fece segno a Phegor di uscire, poi riprese:

— Il Consiglio dei Centoquattro e quello dei Suffetti ha accettato la mia proposta senza un voto contrario. La tua grazia l'ho nella mia tasca insieme colla tua nomina di comandante supremo della flotta della repubblica. Tutti i vecchi capitani di Annibale saranno sotto i tuoi ordini.

Hiram trattenne a stento un moto di gioia, che Hermon però avvertì.

— Non crearti soverchie illusioni — disse subito. — Tu sei valoroso, tu molto potrai fare per la repubblica, perché sei adorato da tutti i mercenari, ma la vittoria sarà impossibile. Roma ormai è troppo potente per terra e per mare, e noi siamo quasi disarmati. È bensì vero che tutti lavorano febbrilmente a riattare le nostre triremi ed a fondere metalli per fabbricare armi, tuttavia dispero troppo. Le ultime ore stanno per suonare per l'antica colonia fenicia.

— Quando un popolo è pronto a morire per la difesa della patria, può compiere dei miracoli inaspettati, vecchio Hermon. Non è con noi la popolazione?

— Sì, tutta; perfino le donne che portano alle fonderie tutti i loro gioielli, siano d'oro, d'argento o di bronzo per fare daghe e corazze e che si tagliano i capelli, per intrecciare corde per gli archi. Dovunque regna un lavoro febbrile, perché ogni giorno che passa il pericolo s'aggrava. La flotta romana muove già verso l'Africa.

— Di già? — domandò Hiram con dolore intenso.

— L'abbiamo appreso da una delle nostre triremi, che è giunta stamane dalla Sicilia — disse Hermon.

— Chi guida le forze romane?

— I consoli Manlio e Censorino.

— E le nostre forze terrestri?

— Asdrubale con Famea, che è il comandante supremo della cavalleria.

— Ho poca fiducia nel secondo — disse Hiram. — Che cosa stanno facendo ora?

— Stanno arruolando truppe nelle campagne e fortificano il borgo di Neferi.

— Su Utica non possiamo contare?

— Tutti i miei tentativi, per decidere quella città ad aiutarci, sono riusciti vani. Essa si è data ai romani.

— Vili! — esclamò Hiram. — Hanno dunque dimenticato che sono fenici come noi?

— La paura di subire la sorte di Cartagine, li ha spinti a rompere l'alleanza che li legava a noi.

— La nostra situazione è senza dubbio grave — disse Hiram con un sospiro. — Non si distrugge però facilmente una città che conta settecentomila abitanti, che sono ben risoluti a difendersi. Di quante navi dispone ancora la repubblica?

— D'una cinquantina fra quinqueremi e triremi — rispose Hermon.

— Domani all'alba assumerò il comando della squadra e muoverò senza perdere un istante verso Utica e darò per primo una terribile lezione a quei traditori.

— Purché tu non giunga troppo tardi. Temo che le navi romane siano più vicine di quello che si crede.

— Ebbene, le attaccherò e tenterò di fare loro il maggior male possibile — rispose Hiram.

— E sarà tutto quello che potrai fare, capitano — disse Hermon. — I tempi di Annibale sono trascorsi, e Cartagine non può non solo assalire, ma nemmanco mostrare i fianchi poderosi. Tanit e Melkarth ci hanno abbandonati.

Ad un tratto si scosse e fissando Hiram gli chiese, senza però dimostrare alcun lampo di collera: — Ophir è in mano tua, è vero?

— Chi te lo disse.

— L'ho saputo dai sacerdoti del tempio di Tanit.

— Da quei sacerdoti che avevano cercato di assassinarmi?

— Obbedivano ai miei ordini.

— Non me ne lagno, poiché sono riuscito a sfuggire egualmente alle loro insidie — disse Hiram. — D'altronde tu eri nel tuo diritto, essendo allora ancora vivo il fidanzato della tua figlioccia.

Hermon curvò il capo sulla mano sinistra, rimanendo parecchi istanti in quella posa senza parlare. Poi per la seconda volta si scosse:

— Va', Hiram — gli disse. — È la repubblica che ti chiama.

— Sono pronto a partire.

— Se puoi, prima dell'alba prendi il largo. Manderò all'istante dei messi ai comandanti onde le triremi e le quinqueremi siano pronte.

— Avvertirai il Consiglio dei Centoquattro ed i Suffetti, che tenterò il colpo supremo dinanzi a Utica.

— E Ophir? — chiese Hermon dopo qualche esitazione.

— Quando io mi sono misurato, in un duello mortale con Tsour, quale era il premio che doveva spettare al vincitore? — chiese Hiram.

— Ophir.

— Dunque quella fanciulla ormai mi appartiene.

— Questo è vero. Vorrei però sapere dove si trova.

— In un luogo sicuro, sotto la sorveglianza d'una etrusca, della sua schiava favorita e guardata da uomini valorosi, pronti a farsi uccidere se qualcuno tentasse di rapirmela.

— Perché la tieni sotto vigilanza? Temi forse qualche vendetta da parte del padre di Tsour?

— Mandasse anche mille dei suoi schiavi, se ne ha tanti, i miei uomini sarebbero sempre bastanti per fugarli. Non preoccuparti di questo, Hermon. La tua figlioccia è al sicuro. Se tornerò vivo, quella divina fanciulla sarà mia; a menoché non cada al mio fianco, nella catastrofe finale, se così Tanit ha deciso. Addio, Hermon: vado a combattere per la repubblica.

Si strinsero il dito pollice, poi Hiram uscì frettolosamente, più pensieroso di quando era entrato.

Sidone e Phegor lo aspettavano al di fuori, parlando amichevolmente, ma sorvegliandosi a vicenda, perché entrambi diffidavano l'uno dell'altro.

— Vieni Sidone — disse Hiram. — Fra tre ore dobbiamo muovere incontro alla flotta romana.

— Andiamo a provare quei famosi guerrieri — disse l'hortator. — Io, prima d'oggi, non mi sono misurato che coi fenici. Vediamo che cosa sanno fare quei terribili uomini.

Si misero in cammino scortati da Phegor e fecero ritorno alla casupola di Fulvia, dove numidi e veterani li aspettavano in preda ad una profonda ansietà, temendo che fosse toccata loro qualche disgrazia. La spia era rimasta fuori.

— Chi mi segue per l'onor di Cartagine? — chiese Hiram, fermandosi sulla porta della stanza. — È ancora quella Roma che voi, veterani, avete veduto tremare dinanzi a voi, che io vado ad assalire.

— Tutti! — esclamarono ad una voce numidi e guerrieri, presi da un improvviso entusiasmo.

— Grazie, amici.

Attraversò la stanza e s'avvicinò ad Ophir che si era alzata:

— Il tuo padrino ha affidato a me le sorti della repubblica per mare; è mio dovere combattere per la sua salvezza.

Un lampo vivissimo aveva illuminati gli occhi della fanciulla.

— Tu sei l'uomo più valoroso che abbia oggidì e che avesse prima la repubblica, — rispose Ophir, mentre le sue gote s'imporporavano di santo entusiasmo. — Melkarth, che protegge le genti di mare, non permetterà che tu muoia sapendo quanto ti ho amato e quanto ti amo. Se morrai per la patria, anche la tua Ophir, che ti ha sempre ricordato, lontano o vicino, morrà.

Fulvia a sua volta si era alzata. Era pallidissima ed aveva i lineamenti alterati.

— Sono donna italiana! — esclamò con voce cupa. — Un tempo la mia patria, che non aveva ancora compreso che tutti eravamo fratelli entro i nostri mari di ponente e di levante, credeva i romani nemici dell'Etruria. Oggi il popolo italiano sente di essere nazione. Andrai tu contro i miei, Hiram?

— La mia patria domanda la mia spada, — rispose il capitano, — per difendere il suo popolo. Posso io rifiutarmi, Fulvia? Chi ha mosso guerra a noi? Noi vivevamo tranquilli, sicuri del nostro destino, ed i tuoi colla violenza e colla perfidia, dopo d'averci privati delle armi necessarie, piombano su di noi, come vili assassini, per distruggerci. Un tale popolo, che dopo averci resi inermi ci deride, che d'una nazione marinaresca vorrebbe fare dei miserabili agricoltori, assicurando che troveremo maggiori ricchezze nella terra che sul mare, come lo chiameresti tu? O dimmelo Fulvia!

L'etrusca era rimasta muta.

— Il Senato romano aveva promesso solennemente a noi di lasciarci liberi e tranquilli, di rispettare le nostre leggi e di proteggerci contro i nostri nemici, — continuò Hiram con fuoco — ed ora viene a dirci che non aveva promesso di lasciarci la città e ci ordina di distruggerla.

«Un popolo dunque di settecentomila uomini andrà ad accamparsi nel deserto, sotto le tende come i negri dell'interno, mentre qui ha le sue case, i suoi fondachi, le sue navi?

«Non difendere il tuo popolo Fulvia! Quello ha agito peggio d'un brigante, perché prima ha aspettato di toglierci le armi per assassinarci impunemente.

«Cadremo, perché i romani sono oggidì troppo forti, e non v'è un altro Annibale capace di farli ancora tremare; ma non cadremo senza lotta e non presenteremo il nostro collo, come montoni da macello, alle daghe dei legionari.

«Cartagine si prepara alla suprema difesa. Io dimentico in questo istante terribile, in cui si giuoca la sorte d'un popolo, i torti e le offese fattemi dalla patria, e mi unisco ai suoi figli pel bene della repubblica.»

— Sei un eroe, Hiram! — gridò Ophir, tendendo le sue bellissime braccia verso il fiero capitano. — Tu sei il più grande guerriero che Cartagine abbia avuto dopo Annibale.

— E noi tutti, — disse Thala, — quantunque stranieri, ti seguiremo dovunque; per difendere il tuo disgraziato paese.

— Sì, tutti! — gridarono ad una voce i mercenari.

— Ebbene, amici, allora partiamo senza perdere maggior tempo. Che quattro numidi, i più robusti ed i più coraggiosi, rimangano qui a guardia delle donne e non lascino entrare, per nessun motivo, Phegor. Potrebbe approfittare della nostra assenza, per tentare qualche colpo di mano. Di quell'uomo io non ho alcuna fiducia.

— Finché ci sono io, Ophir non avrà nulla da temere da parte di quella spia... — disse Fulvia. — Lo tengo ormai in mia mano.

— Le precauzioni non sono mai troppe, Fulvia — rispose Hiram.

Hiram trasse da una parte Ophir, mentre veterani e numidi, gli uni al comando di Thala e gli altri di Sidone, uscivano dalla stanzuccia.

— Ritornerò, — le disse, — vinto o vincitore. Non aver timori per me.

— Che cosa speri dalla nostra flotta? — chiese la fanciulla che appariva profondamente commossa.

— Vedrò di fare del mio meglio, sacrificando meno uomini che mi sarà possibile, perché sono oggi troppo preziosi.

— E se una freccia o una palla di pietra ti uccidessero, mio Hiram?

— Confido nella protezione di Melkarth, che non mi è mai mancata. Fra qualche giorno avrai mie nuove, forse molto prima. La squadra romana deve essere ben vicina, e probabilmente domani accadrà lo scontro. Se vedrò d'aver dinanzi forze soverchianti, ripiegherò subito su Cartagine, per non togliere troppe braccia all'ultima difesa della repubblica.

La baciò sulla fronte, strinse la mano a Fulvia che parve molto preoccupata, e uscì rapidamente raggiungendo i compagni.

Phegor che stava seduto presso la porta, su un pezzo di colonna, nel vederlo s'alzò dicendogli:

— Hai molto tardato, capitano.

— Che cosa vuoi tu ancora? — chiese Hiram aggrottando la fronte.

— Sono incaricato di condurti a bordo della quinqueremi di comando — rispose la spia.

— E di seguirmi anche sul mare?

— Ah!... Non ti darò nessun impiccio.

— Ma mi sorveglierai.

— Io eseguisco gli ordini datimi dal Consiglio dei Centoquattro e dei suffetti — rispose la spia. — La mia presenza d'altronde è necessaria per presentarti ai capitani delle navi.

— Fa' come vuoi — disse Hiram alzando le spalle.

Raggiunse Thala e Sidone che guidavano i due drappelli e scesero le oscure e strette viuzze, che conducevano nel porto mercantile.

Ben pochi dormivano quella notte in Cartagine: quasi tutte le case erano illuminate, e si udivano ovunque fragori di martelli percuotenti ferri risuonanti. Nei cortili ardevano fuochi giganteschi, e si alzavano immense nubi di fumo, quasi da far credere che la città fosse in fiamme.

Era il popolo cartaginese che fabbricava febbrilmente picche, scuri, azze, daghe, scudi e armature, e fondeva metalli preziosi perché, non avendo potuto provvedersi dello stagno necessario alla preparazione del bronzo, adoperava l'oro e l'argento che le donne avevano messo a disposizione della patria, privandosi di tutti i loro ricchissimi gioielli.

La notizia che la squadra romana stava per apparire, si era diffusa per la città, e tutti si preparavano alla suprema difesa, decisi a farsi seppellire sotto le rovine delle loro case e dei loro palazzi, piuttosto che obbedire all'iniquo ordine del Senato romano.

Anche sulle ciclopiche mura e sui bastioni merlati, che difendevano la penisola ed il porto, regnava un febbrile lavoro.

Alla luce d'una moltitudine di torce fumose, migliaia d'uomini, aiutati da giganteschi elefanti, rinforzavano le difese, innalzando enormi blocchi di pietra e rizzando catapulte.

Quando Hiram ed il suo drappello giunsero sulle calate del porto, la flotta si era radunata, avendo già ricevuto l'ordine di prepararsi a prendere il mare sotto il comando del nuovo capitano.

Non vi era d'aspettarsi gran che da quell'accozzaglia di triremi e di quinqueremi, per lo più antiquate, poiché le migliori erano state consegnate ai romani insieme colle armi, cogli scudi, colle corazze e colle macchine guerresche. Per la maggior parte erano legni di commercio, tramutati alla meglio in legni da guerra e forniti di corvi, ossia di ponti volanti: quei corvi che avevano già date tante vittorie ai romani.

— Se la flotta è debole, saranno saldi i nostri marinai — diceva Hiram, dopo aver osservato lungamente quella lunga squadra.

Due scialuppe che l'aspettavano all'estremità del sesto molo, lo trasportarono, insieme coi suoi uomini e colla spia, sulla quinqueremi, l'unica che si trovasse in discreta condizione.

Tutti i capitani della squadra lo aspettavano, raccolti sulla tolda. La presentazione, fatta da Phegor che in quel momento rappresentava i due Consigli, fu rapida, poi tutti tornarono ai loro legni, non senza aver solennemente giurato su Melkarth che avrebbero obbedito ciecamente agli ordini del comandante, già troppo noto in Cartagine, per non conoscere il suo altissimo valore come grande capitano. Alla mezzanotte, quei sessanta legni, si mettevano in moto dirigendosi a gran voga verso Utica, dove Hiram sperava di sorprendere ancora all'ancora, la flotta romana e di darle una feroce battaglia.