Così parlò Zarathustra/Parte quarta/Il mendicante volontario
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Il mendicante volontario.
Poi che Zarathustra ebbe lasciato il più brutto degli uomini, si sentì rabbrividire nella solitudine: e tante cose fredde e tristi gli vennero in pensiero, che anche le sue membra ebbero il ribrezzo del freddo. Ma poi che continuò a camminare, or salendo or scendendo, passando ora accanto a verdi prati ora a pianure aride che in altri tempi forse eran state letto a un qualche torrente impetuoso, finì per sentirsi men gelido e men triste.
«Che mi avvenne?», chiese: «qualche cosa di caldo e di vivido mi ristora, e questa cosa deve trovarsi vicino a me.
Già mi sento meno solitario: compagni sconosciuti e fratelli s’aggirano intorno a me; il loro caldo alito ravviva l’anima mia».
E girò intorno lo sguardo, in cerca dei confortatori della sua solitudine: quand’ecco scorse alcune vacche aggruppate per un’altura; la lor vicinanza e il loro odore avevano riscaldato il suo cuore. Ma quelle vacche sembravano ascoltassero intente qualcuno che parlava loro, sicché non badarono a colui che si appressava,
Ma come fu proprio vicino ad esse, Zarathustra udì distintamente una voce umana e vide che le vacche tenevano rivolta la testa verso colui che parlava.
Allora Zarathustra salì rapidamente e si aperse una via in mezzo agli animali, temendo che in mezzo ad essi si trovasse qualcuno colto da malore, cui difficilmente le vacche avrebbero potuto prestar aiuto. Ma s’ingannava; poiché, seduto in terra, vide un uomo che sembrava arringare quegli animali, e cercar di persuaderli a non aver timore di lui: un uomo pacifico, un predicatore della montagna, dai cui occhi traspariva la bontà.
«Che cosa cerchi tu qui?», chiese Zarathustra meravigliato.
«Che cosa io cerco?», gli fu risposto. «La stessa cosa che cerchi tu, o turbatore della pace! La felicità su la terra.
Ma per giungere a ciò vorrei impararne il modo da queste vacche. Poi che tu devi sapere che mi ci volle mezza la mattina per farmi intendere, e ora stavano per darmi una risposta.
Perchè sei venuto a turbarci?
Se non ritorniamo indietro, se non ci facciamo simili alle vacche, noi non entreremo nel regno dei cieli. Poi che noi dobbiamo apprendere da loro una cosa: il ruminare.
E in verità quand’anche un uomo conquistasse tutto il mondo, che gli gioverebbe il suo conquisto senza la sapienza del ruminare?
Egli non potrebbe liberarsi dalla sua pena; — dalla sua grande pena; la quale oggi si chiama nausea. Chi non ha oggi il cuore, le labbra, gli occhi pieni di nausea? Anche tu!
Ma osserva un po’ queste vacche!».
Così parlò il predicatore della montagna volgendo lo sguardo a Zarathustra — giacché sino allora aveva guardato amorosamente le vacche; — ma a un tratto si cangiò.
«Chi sei tu?», domandò impensierito, balzando in piedi.
«Sei l’uomo che non conosce la nausea, Zarathustra, il vincitore dell’infinito schifo? cotesto è l’occhio, cotesta la bocca, cotesto il cuore di Zarathustra?».
E mentre così parlava gli baciava le mani, con gli occhi gonfi di tenerezza, gestendo come colui al quale inaspettatamente cade dal cielo un dono prezioso: un gioiello. E le vacche guardavano meravigliando.
«Non parlar di me, tu, uomo bizzarro!», disse Zarathustra schermendosi dalle carezze, — «parlami anzitutto di te stesso! Non sei tu il medicante volontario, il quale un giorno fe’ getto d’ogni sua ricchezza?
— Non sei colui che ebbe vergogna della sua ricchezza e di tutti i ricchi, e riparò in mezzo ai poveri, ai quali volle far dono della sua abbondanza e del suo cuore? Ma essi lo respinsero».
«Essi non vollero accogliermi», disse il mendicante volontario: « tu lo sai bene. Per ciò mi recai a vivere tra gli animali, e ora sono qui con queste vacche».
«Ormai tu hai appreso», lo interruppe Zarathustra, «che più difficile è il donar bene che il ricever bene, e che il saper donare è un’arte, la suprema e la più squisita arte della bontà.
«Specialmente oggi», rispose il mendicante volontario: «oggi che tutto ciò ch’è basso si è ribellato, si è sollevato e s’è fatto presuntuoso a suo modo; come suol essere la plebe.
Poi che è giunta l’ora, tu lo sai, per la grande, malvagia, lunga, lenta risurrezione degli schiavi.
I poveri hanno ora in fastidio i beneficii e i piccoli doni: che i ricchi stiano in guardia!
Colui che oggi, simile a una bottiglia piaciuta, lascia cader le sue gocce da un collo troppo stretto, stia in guardia: a cotali bottiglie oggi s’ama rompere il collo. L’avida cupidigia, l’invidia biliosa, l’iraconda sete di vendetta, la superbia della plebe, tutto ciò mi spruzzò il volto. Non è più vero che i poveri sieno beati! Il regno celeste bisogna cercarlo in mezzo alle vacche».
«E perchè non presso i ricchi?», chiese Zarathustra per tentarlo, mentre respingeva da sè le vacche, che andavano fiutando famigliarmente quell’uomo.
«A che mi tenti?», rispose questi. «Tu lo sai meglio di me.
Che cosa m’ha spinto ad andar in cerca dei poveri, o Zarathustra? Non era forse lo schifo che mi destavano i ricchi?
I galeotti della ricchezza, i quali con occhi freddi, con pensieri lubrici, sanno trar vantaggio dalle peggiori immondizie; i galeotti di quella plebaglia, che manda al cielo il suo fetore, di quel volgo dorato e frollo, i cui padri erano borsaiuoli, divoratori di carogne, o raccoglitori di cenci, e le cui madri eran procaci, libidinose, volubili, e avevano quasi tutte le qualità delle meretrici.
Plebe in alto, plebe in basso! Che cosa significa oggi ancora « Povero» e «Ricco?». Io disappresi a distinguere gli uni dagli altri, — e preferii fuggirmene lontano, sempre più lontano, sino a tanto che giunsi tra queste vacche».
Così parlò quell’uomo ansando e sudando; sicché le vacche mostrarono un’altra volta meraviglia. Ma Zarathustra lo guardava sempre sorridendo, e scoteva silenziosamente il capo.
«Tu ti fai violenza, o predicatore della montagna, quando adoperi così dure parole. Per tale durezza non son fatti nè la tua bocca nè il tuo occhio.
E, per quanto io posso giudicarne, nemmeno il tuo stomaco: il quale s’oppone a tanta ira, a tanto odio, a tanto traboccar di passione. Il tuo stomaco richiede cose più dolci; tu non sei un macellaio.
Meglio mi sembri un erbicultore e un vegetariano. Forse tu macini i grani. Ma di certo tu sei avverso ai piaceri carnali, e ami il miele».
«Tu comprendi bene l’esser mio», gli rispose il mendicante volontario con un sospiro di sollievo.
«Io amo il miele e mastico il grano» — soggiunse — «poi che io amo ciò che riesce gradito al palato e serba puro l’alito: — e anche ciò che richiede molto tempo, un lavoro che occupi per tutta la giornata la bocca dei gentili oziosi.
Ma queste vacche hanno avanzato tutti gli altri: esse inventarono per sè il ruminare e il giacer sdraiate al sole. Esse si astengono anche dai pensieri pesanti, che gonfiano il cuore».
«Ebbene!», disse Zarathustra: «tu dovresti vedere anche i miei animali: la mia aquila ed il mio serpente: essi non hanno nessun altro animale che li eguagli.
Ecco, là è il cammino che conduce alla mia caverna: sii per questa notte loro ospite. E parla coi miei animali della felicità animalesca, sino all’ora in cui io rincaserò. Poi che ora un grido che domanda soccorso mi vuol lontano da te. Troverai nella mia caverna anche del miele fresco, dell’aureo miele: mangiane pure!
Ma ora prendi congedo in fretta dalle tue vacche, uomo bizzarro e grazioso, per quanto ciò ti rincresca. Poi che vedo che esse sono le tue più sincere amiche e maestre!».
«— Salvo uno, che io amo anche più intensamente», rispose il mendicante volontario. «Tu stesso sei buono, o Zarathustra; migliore d’ogni vacca!».
«Via, su, parti presto! adulatore incorreggibile», gridò Zarathustra maliziosamente: «tu vorresti corrompermi con la tua lode e con il miele della tua adulazione!
«Parti, presto!», gli gridò un’altra volta alzando il bastone contro il mendicante volontario: ma questi fuggì di corsa.