Cronica/XI

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Cap. XI

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Della sconfitta de Spagna e della toita della Zinzera e dello assedio de Iubaltare.

MCCC anni Domini currevano, de mese de , quanno fu fatta la granne e orribile vattaglia infra Cristiani e Saracini. Duce Deo Cristiani fuoro vincitori. Saracini fuoro sconfitti in Spagna in uno campo lo quale se dice Cornacervina, nello terreno della citate de Sibilia, dove moriero sessanta milia Mori. La quale novitate fu per questa via. Uno nobile e glorioso re fu in Spagna. A nostri dìi megliore non fu. Abbe nome donno Alfonzo, figlio dello re Duranno re de Castelle. Questo re Alfonzo fu moito vittorioso. Continuamente resse la frontiera contra delli Saracini. In una rotta sconfisse uno grannissimo duca de Saracini, lo quale avea nome Picazzo, e sì·llo prese per la perzona. Questo Picazzo avea uno uocchio. Non più consideranno lo re Alfonso la nobilitate e·lla potenzia de Picazzo, deliverao de perdonarli la vita, se voleva recipere lo battesimo e prennere soa figlia per moglie. Le cose fuoro promesse e venivano ad effetto. Quanno Picazzo venne alla fonte dello battesimo, fu pentuto. Desprezzanno lo battesimo e lo cristianesimo sputao orribilmente nella conca. Questo vedenno lo buono re Alfonzo fu turvato. Niente tarda. Impuina mano a soa spada e senza misericordia li partìo la testa dallo vusto. Quello cuorpo fu iettato fra li cani. Questo iovine Picazzo avea una sia matre reina: la Ricciaferra avea nome. La Ricciaferra avea un re per marito, lo quale avea nome Salim re de Bellamarina, nato de una citate che se dice Trebesten. Questa Ricciaferra, sentenno occiso lo bello sio figlio Picazzo per la mano dello re Alfonzo, penzao de fare la vennetta sopre li Cristiani e sopra lo re Alfonzo. E perché ciò fare non se poteva senza granne esfuorzo, penzao de fare lo passaio sopre la Cristianitate, e così fece. Abbe ordinato collo loro papa, lo quale in quello tiempo avea nome Galiffa de Baldali, soldano de Babillonia, che fecessi uno commannamento generale e indulgenzia per tutta Saracinia — Partia, Media, Turchia — a fare lo passaio e·lla granne armata per prennere terre de Cristiani e occupare e destruiere le chiesie de Cristo e relevare tiempi a Macometto. Così fu fatto. Per tutta Saracinia vanno predicanno li alfaquecqui, cioène prieiti, e portano lettere espresse da parte de Galiffa loro papa che·sse faccia lo passo sopra Cristiani. La iente fu adunata grannissima da pede e da cavallo. Fuoro da quattrociento milia perzone da vattaglia. Fuoro tutte con mazze in mano e fionne: Perziani, Arabi, Saracini neri, Parti, Dulciani. Queste fuoro le ienerazioni commosse a questa adunanza per lo passo fare de cà da mare. Quattro fuoro li regi de corona li quali questa iente guidavano. Lo primo fu lo re dello Garbo, lo re de Marocco, lo re de Bellamarina, in aitro nome de Trebesten, e lo re de Granata. Questi fuoro li regi de Saracinia. Vero ène che·llo re de Granata non venne con questi, ché sio reame ène drento della Spagna; ma quanno sentìo la forza passata de Saracini, sì se rebellao e mosse, guerra drento nella Spagna. Questi quattro regi con tanta iente muossero e passaro lo mare e liberamente se posaro in terra ferma. Sei iornate de terreno occuparo de Cristiani con cavalli, asini, muli, camielli, femine infinite, siervi, arme, fodero de pane e aitro arnese da guerra. Francamente passano e pono l’oste sopra una citate de Spagna la quale se dice Taliffa, e dicono che quella ène cammora loro. Nelli lati e spaziosi campi destienno li paviglioni e iaccio in campo. Per fermo assedio fare portano ignegni e trabocchetta. Grossa era la iente. Non dubitano. Alquanto magnano, bevo. Loro tammuri sonano. Deh, como granne romore faco! Haco ignegni da aizare scale, da iettare macine. Loro campo, dove posaro, avea nome Cornacervina, campo spazioso, abunnevole de acqua, lena e erva, anche forte, ca·llo fortificava uno fiume lo quale se dice Rigo Salato. Questo fiume desparte Taliffa da Sibilia. Da vero che in questo campo non forano venuti né potuti venire per la stretta valle la quale passaro canto la costa, se non fussi che nella entrata dello paiese se pattiaro con un granne e potente barone dello reame: don Ianni Manuelle avea nome. Questo don Ianni Manuelle era delle più potente colonne de Spagna. La montagna era in sia balìa. Era questo don Ianni in errore collo re Alfonzo, ché no·lli favellava e derobare faceva, perché reprenneva lo re, lo quale con soa reina stare non voleva, anche stava con una badascia — madonna Leonora avea nome —, como io’ diceremo. A questo don Ianni Manuello donaro li Saracini granne quantitate de doppie de aoro, perché·lli concedessi lo passo; e così fu. De licenzia dello re Alfonzo don Ianni Manuello concedéo lo passo a Saracini, e vennero nelli campi de Cornacervina, como ditto ène, e là stavano ad oste a fermo assedio. Derizzaro trabocchi e fecero ignegni da ponere scale, con rote e funi. L’oste stette ben mesi tre. Taliffa se perdeva in tutto, se non se succurreva. Non se poteva recuperare. Quanno lo buono re Alfonzo se sentìo sopre l’oste e·llo esfuorzo granne, non dottao, anche se puse alla frontiera in Sibilia, la citate reale. Dicese che madonna santa Maria fussi nata in questa citate. Ora non dorme lo re Alfonzo. Manna per succurzo allo papa. Manna alli regi li quali staco intorno ad esso, cioène a sio zio, don Dionisi de Lisvona canto mare, re de Puortogallo, allo re de Navarra, allo re de Aragona. Manna commannamenta espresse a tutti suoi baroni che sequitinolo. A don Ianni Manuello fao commannamento tanto che non se parta, anche stea e chiuda la essuta e fera dereto, quanno lo stormo oderao. Ben se sollicita lo re. Ben chiama tutta la Spagna. Questi regi non fecero resposta, ma cavalcaro de sùbito con loro espediti cavalieri e pedoni. Mustrano lo loro buono volere e forza. Lo primo aiutorio fu quello de papa Benedetto: setteciento uomini d’arme de buono apparecchio, Todeschi e Franceschi, cavalli gruossi, bene armati, vennero crociati, assoluti de pena e de colpa. Lo secunno aiutorio fu lo re de Navarra con quelli de Pampalona, con cinque milia cavalieri adorni, buono capiello de acciaro in testa, bona targia in vraccio, tagliente guisarina da lato, lucente zagaglia in mano. Anche venne con pedoni vinti milia. Lo terzo aiutorio fu lo re de Aragona con cinque milia cavalieri fra Provenzani e Franceschi. Con esso fuoro quelli de Tolosa. Anche menao pedoni vinti milia. Anche ce fu don Dionisi sio zio con quelli della citate de Lisvona. Lo quarto aiutorio fu lo re de Puortogallo con quinnici milia cavalieri spagnuoli, currienti cavalli e dardi in mano. Lo quinto fu esso re Alfonzo, re de Castiello, con trenta milia cavalieri buoni, adorni, con cavalli spagnuoli de quelli de Castiglia, li quali se contano li più nuobili destrieri che siano, pedoni senza fine. Mentre che lo assedio era sopra Taliffa, lo re Alfonzo era in Sibilia con soa baronia. La fame e·llo caro era granne in Sibilia. La iente, la quale era venuta a servire, non poteva tanto demorare. La moneta non bastava. Forte se mormorava la iente de tanta tardanza. Allora lo re Alfonzo, represo da suoi baroni, deliverao iessire fòra alla vattaglia e cercare soa ventura. Spene abbe in Dio, lo quale non li fallìo. Esse fòra vigorosamente. In questa forma soa iente conestavilìo. Trenta milia cavalieri abbe de buono guarnimento, non più, ciento milia de pedoni. Era in mieso, fra soa iente e l’oste de Saracini, lo fiume lo quale se dice Salato. De·llà da Salato stao Cornacervina, dove staco trabacche e paviglioni, alfaniche e confalloni, iente assai, como ditto ène, con moiti tammuri. Da lo lato ritto de l’oste stavano le montagne de Ilerda, la veglia terra. Dallo lato manco stavano le pianure spaziose. Dereto li stava una stretta valle, la quale avevano passata per forza de moneta, como ditto ène. De sopre dalla valle staievano le montagne le quale teneva don Ianni Manuello. Denanti aveano lo fiume e·lli nimici. Lo passo dello fiume curatamente se guardava. Lo re Alfonzo tenne questa via. Imprimamente mannao li setteciento cavalieri papali crociati a passare lo fiume. Treciento rompessino lo passo e commattessino colle guardie. Doiciento se ponessino dallo lato della currente dell’acqua a sostenere la forza dello fiume, che·lla pedonaglia potessi passare; li doiciento remanessino a guardare lo passo, aitro non facessino. Non era piccolo pericolo passare lo fiume, lo guado rompere. Tutti fuoro destrieri eletti. A questa iente aitro confallone dato non fu, se non uno confallone collo campo bianco e·lla croce vermiglia. Su la croce era lo crucifisso. Po’ li setteciento crociati sequitao esso re Alfonzo a cavallo in uno cavallo ferrante liardo. Dicese che fussi lo più bello e megliore dello munno. In soa compagnia abbe cavalieri dieci milia, che, rotto lo passo, fossi lo primo lo re con soa iente alla vattaglia. Po’ lo re Alfonzo sequitao lo re de Aragona con cinque milia cavalieri e pedoni vinti milia. Questo ìo dallo lato della montagna a ponere li impedimenti e occupare li passi e·lle selle, le entrate e·lle descese, perché Saracini per la montagna non avessino valore né redutto né fuga. Dallo lato manco, innella pianura, fu mannato lo re de Navarra con dieci milia cavalieri, con cinque milia pedoni, perché lo Saracino non potessi dare la fuga né destennersi per li campi. Po’ queste iente sequitao lo re de Puortogallo con quaranta milia pedoni e tutto l’aitro esfuorzo a sostenere le spalle. Questa fu la schiera grossa. Dallo aitro lato dereto don Ianni Manuelle devea ferire colli montanari. Questa fu loro bella conestavilia. Così ne venne la lettera a Roma a missore Stefano della Colonna berbentana, a gran pena intesa. Dato l’ordine e·llo nome, li setteciento cavalieri ionzero allo fiume. Rompo l’acqua e passano. Non vaize reparo. Tre cavalieri, li quali erano sopranamente a cavallo, fuoro li primi che l’acqua passaro: uno arcivescovo e doi cavalieri a speroni de aoro, donzielli dello re Alfonzo, uomini li quali sapevano la contrada, usati dello passo. Questi fuoro li primi ’nanti all’aitra iente. Là nello passare fuoro presi dalli perfidi Saracini e prestamente loro teste dallo vusto fuoro troncate. Là in quello passo fuoro martiri gloriosi de Cristo. Ora iogne la cavallaria. Passa uno, passa l’aitro. Poco vale lo reparo. A una forza tutto lo stuolo de Cristiani fu puosto de·llà dallo fiume. Nullo ce pericolao nello passo, se non l’arcivescovo e li doi cavalieri, li quali lo glorioso martirio recipiero. Passato lo stuolo, Saracini, la perfida iente, non dottava per la granne loro moititudine. Anche stavano canto l’acqua e manicavano e godevano, loro cembali sonavano, granne stormo facevano. Alla fine se levano su. Prienno loro arme, arcora, mazze e fionne, e resisto forte e pienamente. L’ora era su la terza. Ora vedesi tromme e instrumenti sonare. Odese romore da parte in parte. Tamanto è lo strillare, che voce umana nulla se intenneva. Su in quelle coste rembombava lo crudele romore. Dieci miglia da longa fu odito. Odi pianto, odi gridare. A cuorpo a cuorpo se affrontano. Alle mano soco. Chi dao, chi tolle. ’Dae, dae, dae’ odivi; aitro no, per granne ferire su nelle teste armate. Vedese iettare de lance, aizare de spade, saiette volare. Le prete, vrecce de fiume, de piena mano fioccavano como neve. Là erano la maiure parte Turchi, li quali aitro non aveano se non fionne e prete. Moita iente pericolaro. Io ademannai uno pellegrino spagnuolo se de questa rotta alcuna cosa sapeva. Quello disse ca nce fu, e trassese sio capiello de capo e scoperze la fronte e mustrao una sanice rotonna in mieso della fronte, e disse ca quello fu colpo de preta. Un aitro, lo quale similemente adimannai, scoperze lo capo de sio cappuccio e mustraome tre sanici de colpo de spada e una nella fronte de preta. Puoi bene sapere ca se maniavano Saracini, ca·sse aiutavano. Vedese travoccare da cavallo, teste fennere, saiette e sbiedi pietti passare. Passano li cavalli sopra le corpora. Granne ène lo pianto e·llo guamentare. Così curre lo sangue como rigo de acqua. Là se pare chi ène figlio de bona mamma. Ora vedesi lo bello commattere e·llo delettevole armiare che·lli iannetti facevano. Currevano per lo campo commattenno, ferenno e lancianno. Non era chi li potessi adetare, tanta era la loro velocitate e leierezze. Una targetta in vraccio portavano longa doi piedi, lata uno, coperta de lino, so·lla quale da capo a pede se coperivano, staffe corte vestimento de lino incerato, in capo scuffia de fierro. In mano portavano dardi. Questi dardi lanciavano. Chi ne leva uno piùne non ne vole. Quanno li dardi mancavano, lo iannetto currenno con sio curzieri se piecava fino a terra. Coglie sio dardo e destramente lo lancia denanti, dereto, abasso, in aito secunno soa voluntate. Granne ène loro leierezze. Questo ène lo iocare della iannettia. Questi iannetti soco li scoperitori regali. Durao la vattaglia fi’ alla nona, più no, perché la iente saracina sentìo don Ianni Manuello, lo quale della montagna descenneva per ferire dereto e per lo passo parare. Quanno fu questo sentuto e conubbero la fumiera, lo splennore delle lance e delle insegne, subitamente li venne meno lo core e·lla vertute. Tutti fuoro rotti. Non puoco resistere. Ora se voitano, dacose alla fuga. Terribile cosa è loro fuire. Fugo senza alcuna remissione. Non è speranza se non nelle gamme. Ora vedesi occidere, ora vedesi maciello fare. Granne tagliare se fao de quella canaglia della iente saracina. Questa sì ène la nobile sconfitta de Spagna, infra moite poche memorabile. LX milia corpora de Saracini fuoro morte, XL milia li presoni. A queste cose lo re non fu, né·lle sentìo, per lo poco dubio lo quale avea nella soa forte schiera. Commattéo puoi che la novitate pervenne alla forte schiera e·llo dubio fu palesato. Stava in guardia della porta dello regale paviglione uno omo — Serafin avea nome — più granne che li aitri tre piedi, macro, tutto nervoso, longhe le gamme, nero lo voito, vestuto de uno perponto de iuba de seta. In mano teo una mazza de fierro ’naorata. Questo Serafin, a cui era fidata la perzona dello re, dubitao de nunziare la mala novella. Puro la manifestao alla reina. Mossese la reina: Ricciaferra avea nome. Passa denanti allo re. Delli suoi uocchi fontana de lacrime descenneva. E disse: «Su re, ca·lla ventura ène de donno Alfonzo». Lo re iocava a scacchi. Questo odenno fu turbato. Più non disse, più non odìo. Bastaro doi paravole. Vestuto de una de aoro longa fi’ alli piedi, barretta de aoro in capo con prete preziose, bacchetta d’aoro in mano, salle a cavallo, prenne lo camino de casa soa. Era intorno affasciato da sette milia Turchi con vastoni de fierro inaorati in mano, vestuti de iube de sannato sopre ponte de ballacchino, armati alla imperiale. Anche ivano aitri cavalieri con lance, con fierri lati, lucienti. Denanti a questi ivano assai cembali sonanti e aitri strumenti senza fine. Regale pareva la forza e lo suono. Più denanti vaco dieci milia iannetti currenno e sparienno da onne lato dardi, como fao la spinosa alli cani. Nulla perzona ad essi se accosta, sì granne ène lo fioccare delli dardi. E moita aitra iente da pede e da cavallo con granne fortezze, con sole armature lo sequita. A questo muodo ne vao fuienno dello stormo Salim, lo re de Bellamarina. Rompe e passa onne para per forza della nobilitate de soa cavallaria. Lassao Ricciaferra, la soa donna, la reina. Lassao onne cosa desperata. Sei dìe durao la fuga. Sei dìe durao la incaiza. Così iace seminata la iente morta como le pecora. Po’ la partenza dello re la reina fece destennere panni bianchi de seta in terra. Là fece ponere tutta la moneta e·lle gioie regale. Là essa sedeva con cinquanta soie soffragane concubine dello sio re. Uno cavalieri spagnuolo — Arcilasso avea nome —, armato e bene a cavallo con una lancia in mano curreva per lo campo. In sio furore entrao lo Alfanic, cioène lo paviglione dello re. Occurzeli la reina. Quanno questo Spagnuolo vidde la reina sedere in figura de tristizia (puro la soa vista dignitate mustrava), lassase e deoli de una lancia. Da oitra in parte la passao. De colpo l’abbe morta. Torna in reto e per lo campo fao granne male. Una maraviglia fu, che·llo ferrante dello re Alfonzo, della cui bellezza alcuna cosa ditto ène, da puoi che fune in quello campo, mai non posao, mai non fu potuto tenere. Contra voluntate delli circustanti allo freno portao lo re nello paviglione dello re de Bellamarina e là restette de furiare. Così fece como avessi auto senno umano. Quanno lo re Alfonzo allo paviglione regale fu ionto, trovao la reina, la quale morta iaceva e in mieso de soie soffragane stava, le quale piagnevano e guardavano quello cuorpo. Erance una la quale era cristiana — avea nome Maria —, nata de una villa la quale hao nome Obeda. Questa Maria fu schiava, e per soa bellezza e suoi costumi era concubina de re. Parlao e disse allo re che avessi mercede; Arcilasso la donna avea esmattata. Quanno lo re intese che·lla reina era morta per le mano de Arcilasso, fu forte dolente e disse: «Ahi Arcilasso, como non te temperasti a tio furore? La mea vittoria era doppia». Puoi fece atti de tristezze sopre la donna. Era la donna grassa e grossa. Credere non se pò. Nelle gamme, nelle vraccia e in canna avea cierchi de aoro purissimo smaitati, ornati de prete preziose. Questa donna de commannamento dello re fu operta. Puoi fu inzalata e messa in una cassa piena de aloè e fu posta per dignitate in una aita torre. Puoi lo cuorpo de questa donna revennéo allo marito infinita quantitate de moneta. Po’ questo lo re Alfonzo fece tollere lo tesauro dello re fuito, lo quale fu doppie , che milli muli ne fuoro fatigati a portare arme e aitro arnese, como se dicerao. Maria de Obeda, guardiana della reina, fu liberata. Disse ca quelle doppie non erano la quarta parte, le tre parte ne erano furate per la iente. Ora tornemo alla incaiza de Saracini. La incaiza durao dìe sei. Non era muodo allo macellare. Lo sesto dìe trovaro una citate canto mare che·lli recipéo: Ziziria hao nome. Quella Ziziria fisse lo Cristiano. Intanto daose la iente alla guadagna dello robare. LX milia fuoro le corpora delli Saracini morte. Quelle loro ossa fuoro adunate in uno campo e de esse fatta fu una grannissima montagna. Fine allo dìe de oie dura. Anche più, ché oie in questi dìe vao lo aratore e ara lo campo, e aranno trova teste, gamme, vraccia e ossa assai. No·lle poco capare. Anche più, che durao alcuno spazio de dìe che·lli viannanti sequitavano per loro mestieri, per le selve trovavano a pede delli arbori ossa iacere in forma de omo lo quale dormissi. Questo era che·lli feruti essivano dallo stormo e posavanose a pede delli arbori per accogliere lena, ca stanchi erano, e, como se posavano, lo spirito e·lla vita in un tiempo li abannonava. Così remanevano quelle ossa senza carne. Infra le gote vedeva omo resplennere aoro. Questo era ché Mori se metto le monete e loro doppie d’aoro in vocca. Queste doppie lucevano como aoro. Allora chi questo trovava percoteva la zucca dello capo con preta e bastoni, sì che spartiva le ganghe, e·lla coccia volava in terra. Lo viannante alegro la moneta prenneva. Granne fu lo guadagno de questo stormo. XL milia corpora de Saracini fuoro presi, maschi e femine, li quali fine nello dìe de oie staco siervi de Spagnuoli. Zappano, arano, filano, tiesso, cucinano e aitri mestieri secunno le connizioni. Onne artificio faco. Infiniti ne fuoro vennuti como se venno le crape. Per tutta Spagna fuoro vennuti colla corona in capo. Anche ce soco de quelli siervi. Onne servizio faco a Spagnuoli loro signori. Hortos et vineas colunt dominorum precepto solo victu contenti. Anco ce fu guadagnata la moita robba: denari, arnesi, arme, vestimenta, vascella de metallo de rame, cavalli, muli, somari, camielli, paviglioni, trabacche, tanto forag[g]io, tanto arnese. Estima quanta fu la iente! Lo re Alfonzo abbe lo paviglione regale con tutto quello drento. Lo paviglione avea nome Alfanic. Treciento cammore avea. Era de panno de lino attorniato de corame roscio con corde de seta invernicate d’aoro. Mai non vedesti più mirabile né più bella cosa. Nello fastigio de sopre, dalla parte de fòra, tutto stava puosto a lune, drento de diverzi colori. Non se pote quello lavoriero contare. Drento dallo Alfanic fu trovata la Ricciaferra, la reina morta per Arcilasso, como ditto ène, la quale fu vennuta a sio marito moito aoro inzalata in una cassa. Puoi ce fuoro trovati li tesauri regali, la quarta parte; le tre furate erano. Milli e doiciento muli portaro quelle, e fuoro doppie. Disseme chi le vidde, chi le despese che quelle doppie erano d’aoro e erano in forma de piattielli de ariento, poca cosa meno che·lle patelle dello calice dello aitare. Anche fra quello tesauro fu trovata la lettera della indulgenzia, la quale li avea conceduta lo loro granne papa — Galiffa de Baldali aveva nome —, nella quale prometteva a chi moriva in questo passo la resurezzione a terzo dìe. Puoi prometteva sette mogliere vergine nello santo paradiso. Puoi li prometteva de farli stare abbracciati con santo Macometto e con santo Elinason. Puoi li prometteva de satollareli de latte e de caso e lagane e vuturo e mele. Queste erano le promissioni dello soldano Galiffa de Baldali in soa lettera. Puoi li commannava che tutta Cristianitate sterminassino e occupassino lo munno. Anche ce fu trovato in quello Alfanic arme assai, guarnimenti regali de panni tartareschi e ballacchini ornati con aoro e prete preziose. De questo tesauro lo buono re Alfonzo mannao in Avignone a papa Benedetto, lo quale era vivo allora, la decima parte de queste doppie d’aoro. Vaize da ciento sessanta milia fiorini. Anche li mannao lo confallone reale collo quale abbe la vittoria, lo quale portao nello stormo. Anche li mannao lo bello cavallo ferrante lo quale lo re cavalcao nella vattaglia, lo quale ferrante papa Chimento, sio successore, lo donao e mannao a Filippo de Valosi re de Francia per lo moito bene che li voize. Anche li mannao vinti de quelli Saracini presonieri con quelle arme, con quello abito, con quelli cavalli colli quali fuoro presi. Così ionzero in Avignone questi vinti Mori. Per la mutazione dello paiese e per la perduta licenzia tutti moriero, salvo uno solo, lo quale se fece devoto cristiano, donziello dello papa. Fi’ alli dìe nuostri vive. Anche li mannao vinti confalloni presi nella rotta de Turchi e Medi, li quali confalloni una collo granne confallone sio regale fuoro appesi nella cappella de papa Benedetto dello palazzo papale de Avignone. Allo dìe de mo’ non ce staco. Fatta che fu questa sconfitta, lo re de Granata per tema de sio reame deventao tributario a re de Castelle. Io pozzo dicere in bona fede con veritate, ché delle arme de questi io viddi per questa via. Nella citate de Tivoli venne Carlo imperatore, anno Domini MCCC , como se dicerao. La iente era moita. Io stava in una pontica, là dove venne uno a comparare cannele de cera e confietti e spezie. Questo teneva una spada sotto vraccio. Lo pomo era tutto inaorato e lavorato a igli e fiori. Dissi io: «Vòi tu vennere questa spada?», e trassila fòra dello fodero. Era la spada como le nostre soco, in forma de mieso stuocco, mesa spada. Non era troppo granne né troppo lata, ma, como le nostre, bene convenevile, fatta allo muodo genovese. Lo pomo era luongo como uno prungo piano, l’ilzo como mesa luna, e era la maiure parte ’naorato lo fierro, l’ilzo e·llo pomo tutto. La vaina era curata con tenere de fierro bene lavorato e·llo caspiello con correie moito adorne. Parevame che·lla spada non era sempia como le nostre. Respuse lo buono omo e disse: «Io non la voglio vennere, né la dera per cinquanta fiorini». E ciò fermao con sacramento. La iente che intorno stava disse: «Perché?» Respuse e disse: «Questa spada fu guadagnata nella rotta de Spagna, nello granne stormo quanno fu sconfitto lo re de Bellamarina dallo re de Castiglia. Io me nce retrovai. Dunque, benché assai bona sia, aiola cara troppo. Non la dera per moneta alcuna». Fatta questa sconfitta e raccuoito lo campo e licenziati li regi e li aitri aiutorii, lo re Alfonzo non posa. Anche fece iente de sio reame e de crociata e sequitao la iniqua iente perfida. Moito li molesta. De loro terreno vole. Intanto morìo papa Benedetto, lo bianco, e fu creato papa Chimento, lo monaco nero. Era una nobile citate canto mare, nelli confini de Saracinia, la quale avea nome la Ginzera. Lo paese hao nome Gigizia. Questa era delle megliori e delle più nobile e più ricche de speziaria, seta e panni de Tuniso che in Saracinia fussi. Questa citate assediao lo buono re Alfonzo per mare e per terra. Lo assedio fu durissimo. Ciento trentacinque galee abbe per mare e per terra iente infinita da pede e da cavallo. Durao lo assedio mesi diciotto e fu auta per fame. In quella citate entrao lo re Alfonzo e soa iente. Prese chi voize, occise chi·lli parze e cacciaone tutta la perfida iente. Toize tutto loro arnese, lo quale fu tanto che ène inestimabile. Quella citate empìo de Cristiani. E fuoronce edificate chiesie, locora de religiosi e fonne fatte doi vescovata. Quella citate fi’ allo dìe de oie serve a Cristo glorioso e benedetto. Ora poni cura alla novella. Puoi che·llo re abbe venta la Ginzera, non abbe bisuogno de tanta moititudine de iente. Licenziao li sollati. Granne spesa avea fatta. Fra li aitri licenziati fuoro trenta cuorpi de galee de Genovesi, le quale li aveano bene servuto. Queste galee tornaro a Genova. Quanno fuoro nello entrare dello puorto, como usanza ène, sonaro tromme e naccari e ceramelle. Troppo imperiale faco suono e alegrezze. Puoi entraro lo puorto e puserose ad ordine. Moito letamente dao in terra tutto lo stuolo, bene vestuti, bene adobati e riccamente. Forte aveano guadagnato. Fra le aitre cose per novitate pusero nello puorto, su lo passo dello puorto, sei de quelli Mori, li quali erano male vestuti. De gialle schiavine loro cuorpo era ammantato. Fierri tenevano in gamma. Mustravano ca erano presonieri. Tutta Genova curre e descegne allo puorto a vedere le galee venute. La moita iente se foice. La moita iente fao intorno rota a questi mori. Desidera omo vedere la iente della strania fede. Staievano li sei Mori miserabilemente timorosi fra tanta iente. Moito moito favellavano e po’ lo favellare voitavano loro capora, aizavano la faccia e resguardavano, como ammaravigliassino, le belle edificia e palazza aitissime le quale staco intorno allo puorto de Genova. No·lli intenneva la iente. Era là uno siervo de Genovesi lo quale fu saracino. Era cristiano e nutricato in Genova. Latina lengua sapeva. Diceva la iente: «Que dico questi?» Responneva: «Questi dico così: ’Non è maraviglia se noi Saracini simo sconfitti e perdienti, ca nce ène stata sopre tutta Cristianitate e Genova’». Quanno aiognevano Genova, allora volveano le facce maravigliannose a quelle palazza dello puorto de Genova. Credevano che Genova fussi tutta la fortezze e bellezze de Cristiani, non se ne trovassi simile. In questo potemo conoscere che loro avitazioni non soco così delicati como li nuostri. Anche ne venne della Gizera lo vescovo de Peroscia, lo quale fu delli crociati, e menao con seco otto de quelli Turchi. Fuoro da cavallo, fuoro uomini bianchi e belli como noi; calzamenta como noi, ronzini como noi. In capo portavano uno capiello fi’ alle recchie como mitra de papa. Vero è che in mieso avea uno pizzo ritto, luongo, sottile como fussi cuollo de gruva, copierto de panno de lino bianco. Aduosso portavano uno farsetto de panno de lino bianco como noi. Vero è che·lle maniche erano longhe fi’ alle deta della mano. Sopre lo farsetto portavano uno manto de panno de lino como piviale da preite. La ponta dello lato ritto se iettava dalla spalla manca e quella della manca se iettava dalla spalla ritta. Po’ questo donno Alfonzo non posa. Anco fao iente de sio paiese, e abbe assediato lo bello e nobile castiello, uitima fortezze de Saracini. Iubaltare lo castiello hao nome. Lo paiese hao nome Alcacuc. In questo castiello Macometto scrisse la soa leie e deola a Saracini e fece lo livro lo quale se dice Alcorano. Sopre de questo castiello puse l’oste lo re e iurao per la maiestate de sio reame e per l’aitezza de soa corona mai da quello assedio non partire finente che quello castiello non avea. Ficcao sio stennardo in terra. Serrato era allo torno. Lì puse l’oste e guardie credennosello prennere per fame. Ène lo castiello bellissimo e fortissimo. Hao nome Iubaltare. Stao in una penna de preta viva aitissima. Su in quella preta l’aquile faco lo nido. Puoi l’aitezza veo abassanno alla piana. Là, canto la pianura, ène menato uno muro fortissimo con spessi torricielli. Picazzo, de chi ditto ène, lo fece fare su lo vivo sasso. Drento dallo muro hao una fontana de moita abunnanzia. Nella destesa della pianura hao la meschita. Haoce arbori de onne rascione. Mai non fu veduta sì piacevole fortezza. Cristiani per loro negligenzia la perdiero. Questa fortezze se crese recuperare donno Alfonzo per assedio; ma non li venne fatto, ca sopravenne la granne e orribile mortalitate, della quale se dicerao, e ferìolo con una iannuglia nella inguinaglia. Donne li convenne, levato campo, morire nello tiempo della granne mortalitate in Sibilia, la citate regale. Questo re donno Alfonzo fu lo più nobile, lo più glorioso, più iusto, più pietoso re che mai fusse in Spagna. Sempre mai Spagnuoli lo piagneraco. Onne vertute abbe. Non abbe defetto alcuno. Una sola cosa abbe reprensibile, ca esso non amava la soa reina, né con essa voleva stare, benché uno figlio ne abbe. Anche teneva una soa badascia — donna Leonora aveva nome — la quale amava sopra tutte cose, la quale era sio confuorto, della quale avea figlioli e figlie. Senza essa non poteva stare. Per moite voite lo papa sì·llo ammonìo e sì·llo scommunicao. Voleva che questa soa badascia, donna Leonora, iettasse via. E·llo re per la epistola li respuse doicemente, anche per una ambasciata, e disse: «Santo patre, se piace a voi che io mora e non viva più, io lasso stare; tutta fiata che io staiessi senza essa io non pòtera vivere». Così lo santo patre non lo molestava. Non voleva che soa vita fine breve avessi. Io demorava nella citate de Bologna allo Studio e imprenneva lo quarto della fisica, quanno odìo questa novella contare nella stazzone dello rettore de medicina da uno delli bidielli.