Cuore (1889)/Ottobre/La mia maestra di prima superiore

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Ottobre - La mia maestra di prima superiore

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LA MIA MAESTRA DI 1.ª SUPERIORE.


27, giovedì.

La mia maestra ha mantenuto la promessa, è venuta oggi a casa, nel momento che stavo per uscire con mia madre, per portar biancheria a una donna povera, raccomandata dalla Gazzetta. Era un anno che non l’avevamo più vista in casa nostra. Tutti le abbiamo fatto festa. È sempre quella, piccola, col suo velo verde intorno al cappello, vestita alla buona e pettinata male, chè non ha tempo di rilisciarsi; ma un poco più scolorita che l’anno passato, con qualche capello bianco, e tosse sempre. Mia madre glie l’ha detto: — E la salute, cara maestra? Lei non si riguarda abbastanza! — Eh, non importa, — ha risposto, col suo sorriso allegro insieme e malinconico. — Lei parla troppo forte, — ha soggiunto mia madre, — si affanna troppo coi suoi ragazzi. — È vero; si sente sempre la sua voce; mi ricordo di quando andavo a scuola da lei: parla sempre, parla perchè i ragazzi non si distraggano, e non sta un momento seduta. N’ero ben sicuro che sarebbe venuta, perchè non si scorda mai dei suoi scolari; ne rammenta i nomi per anni; i giorni d’esame mensile, corre a domandar al Direttore che punti hanno avuto; li aspetta all’uscita, e si fa mostrar le composizioni per vedere se hanno fatto progressi; e molti vengono ancora [p. 13 modifica]a trovarla dal Ginnasio, che han già i calzoni lunghi e l’orologio. Quest’oggi tornava tutta affannata dalla Pinacoteca, dove avea condotto i suoi ragazzi come gli anni passati, che ogni giovedì li conduceva tutti a un museo, e spiegava ogni cosa. Povera maestra, è ancora dimagrata. Ma è sempre viva, s’accalora sempre quando parla della sua scuola. Ha voluto rivedere il letto dove mi vide molto malato due anni fa, e che ora è di mio fratello; lo ha guardato un pezzo e non poteva parlare. Ha dovuto scappar presto per andar a visitare un ragazzo della sua classe, figliuolo d’un sellaio, malato di rosolia; e aveva per di più un pacco di pagine da correggere, tutta la serata da lavorare, e doveva ancor dare una lezione privata d’aritmetica a una bottegaia, prima di notte. Ebbene, Enrico, – m’ha detto andandosene, – vuoi ancora bene alla tua maestra ora che risolvi i problemi difficili e fai le composizioni lunghe? – M’ha baciato, m’ha ancora detto d’in fondo alla scala: – Non mi scordare, sai, Enrico! - O mia buona maestra, mai, mai non ti scorderò. Anche quando sarò grande, mi ricorderò ancora di te e andrò a trovarti fra i tuoi ragazzi; e ogni volta che passerò vicino a una scuola e sentirò la voce d’una maestra, mi parrà di sentir la tua voce, e ripenserò ai due anni che passai nella scuola tua, dove imparai tante cose, dove ti vidi tante volte malata e stanca, ma sempre premurosa, sempre indulgente, disperata quando uno pigliava un mal vezzo delle dita a scrivere, tremante quando gli ispettori c’interrogavano, felice quando facevamo buona figura, buona sempre e amorosa come una madre. Mai, mai non mi scorderò di te, maestra mia.