Dal vero (Serao)/Alla decima Musa

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Alla decima Musa

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La storia di Mario Estratto dello Stato civile

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ALLA DECIMA MUSA.

Noël, noël! liesse, liesse!



Sopra: una stanzetta quieta e silenziosa, dall’ambiente dolcemente caldo. Una lampada piove la sua luce eguale e tranquilla sovra le pagine di un libro simpatico; qui e là un sorriso di amicizia o di amore — le ore che trascorrono lente e placide, come belle persone languenti. Giù: la strada bagnata, infangata, sdrucciolevole per la melma, calpestata da migliaia di piedi; una nebbia fitta che è fumo, umidità, scirocco, fiato di gente; l’oscurità rotta con violenza dal gas, dal petrolio fumigante, dalla luce rossastra delle fiaccole, dai vividi colori dei bengala; l’andare, il venire, l’incontro, l’urto di una folla spessa, continua, sempre rinnovantesi, che parla, ride, grida, schiamazza, canta, urla; — quindi un vocio che percorre tutta la gamma, dai toni più alti ai più bassi, coi salti più bizzarri, diventando ora un clamore acutissimo, ora un grave rombo di tuono. Malgrado le imposte chiuse, malgrado le pareti [p. 172 modifica]doppie e foderate, l’eco di quel chiasso si fa un cammino sino a colui che legge; egli si distrae, presta l’orecchio e sorride. Invano d’attorno la temperatura è piacevole, invano il tappeto è morbido, invano la luce è quieta, invano il libro dispiega l’attrazione della sua carta giallina, dei suoi caratterini affusolati, dei suoi fregi capricciosi e dei suoi versi idem: la gran voce della moltitudine è insistente, sale come un appello, risuona come una vigorosa chiamata. Allora colui che legge è preso dalla nostalgìa della strada, della nebbia, dell’agitazione; prova un desiderio aspro di mettersi in quel tumulto, di godere quello spettacolo, di portarvi la sua parte, di sentirsi piccolo, annullato, assorbito: egli non lotta più, cede; e con un soffio gigantesco, la strada vince la cameretta.

Sulle piazze, nelle vie, gittate, profuse tutte le ricchezze vegetali ed animali. Qui è il trionfo della carne: sono le file dei polli sospesi per le gambe, dalla pelle gialletta, soda, leggermente punteggiata di bruno, venata di un azzurro pallido: sono i tacchini dalle forme grasse e rotonde, dondolantisi gravemente al venticello caldo, con la serietà di quando erano vivi. La luce incerta delle fiaccole profila stranamente le masse enormi della carne di vitello, carne rossa, sanguinolenta, dalla fibra lunga e piena di forza, dall’osso levigato, lucido, senza una [p. 173 modifica]macchia; ed illumina in pieno i porcellini bianchi, dalle linee quasi eleganti, tenero, succoso e prediletto pasto delle signore e dei preti. Si cammina sempre e non si vede che carne — ed allora quell’odore di macello fresco, quel sangue rosso-bruno che gocciola, quei colpi di coltello netti, decisi, vi cagionano la malinconia, il disgusto: il trionfo della materia piena, grassa, pesante, sfacciata, sorridente della sua morte che è una novella vita, provocante e nauseante, finisce per ischiacciarvi. Pensate a quel lusso, a quel ribocco, a quella esuberanza, a quell’enormezza con un senso di paura — e ricercate con ansietà impressioni più miti.

Allora entrano in campo gli erbaggi, le verdure, i frutti, la fauna vegetale, il tributo della campagna, l’offerta delle pianure e dei boschi. I monticelli dei broccoli verdi, il cui fiore sembra un merletto rilevato, guardano con disprezzo l’umile e piccola cicoria, raccolta in gruppetti, su cui brillano le gocce dell’acqua; i cavoli bianchi, grossi e serrati, pare che vogliano scoppiare dal loro involucro di foglie verde-chiaro, mentre quelli neri si confondono coll’oscurità, quasi desiderosi di solitudine. L’ondulazione dei lumi, il passaggio delle persone e dei carri, il getto improvviso di un razzo, l’ombra che sovraggiunge, danno a questo spettacolo qualche cosa di fantastico: le proporzioni s’ingrandiscono, il senso della realtà si perde e vi sembra di camminare in mezzo ai prati di maggiorana e di trifoglio, fra due siepi di verdura, mentre in fondo, come orizzonte, si accende la fiamma gialla di una piramide di aranci, ricordo dei tramonti siciliani. Vi giunge al cervello [p. 174 modifica]il profumo acuto delle mele, capace di ubbriacare; quello più dolce, quasi più vecchio, delle pere serbate per l’inverno, e l’effluvio sottile, leggiero ed esilarante dei mandarini; quando un odore più forte, più sano, li scaccia tutti per prenderne il posto e regnare solo.

Si entra nella dominazione del mare; nei cestellini frangiati di alighe, che somigliano ai capelli disciolti di una bella naiade morta, fremono, si contorcono, si annodano le anguille dai dorsi bruni, dalle pance smorte, mentre le ragoste, animali calmi e rassegnati, agitano lentamente le lunghe ed aguzze zampe. Le triglie rosee fanno un piccolo moto con le pinne per respirare, le ostriche schiudono un pochino la casuccia, ed i cannolicchi (soleni) scivolano fuori dal loro lungo astuccio, quasi vaghi di libertà. I merluzzi sono morti in una posizione disperata, mezzo contorti, con la coda sollevata, quasi avessero avuta una dolorosa agonia; altri pesci più dignitosi rimasero immobili e fieri, persuasi della loro sorte. Ed è un continuo spruzzare di acqua salata, un gridare di voci robuste, uscite da petti che hanno combattuto la tempesta; sono pescatori nervosi e bruni dalle gambe e dalle braccia denudate, che vi offrono allegramente la loro mercanzia: è il mare, il buon vecchio mare, il burbero benefico, l’eterno brontolone prodigo, che si è disfatto di un po’ del suo tesoro molto volentieri, ed ha mandato il suo biglietto di visita grandioso in questa mostra colossale. — Andiamo, un sorriso ed un ricordo ai giocondi bagni estivi, alla freschezza delle onde, agli scogli coronati di spuma! [p. 175 modifica]

Ma la luce vivida del gas che si rinfrange nei lucidi e faccettati cristalli, nei fregi dorati, nelle pagliuzze d’argento, nei rasi vividi, vi attira lo sguardo sopra una vetrina, sopra due, tre vetrine. Sono i dolci con loro forme brevi, leggiadre, aggraziate, che sembrano fiori, frutta, cuori, farfalle; coi loro colori delicati, molli: il cristallino-roseo, il verde-opalino, il bianco-grigio, il violetto pallido, che si fondono, si armonizzano in una tavolozza di tinte sfumate e gradevoli all’occhio. Sono le spume morbide e fioccose che pare si debbano dileguare ad un soffio, le creme tremule, candide, giallette, i frutti gelati coperti di una trasparente pellicola argentina; le lucide cascate dei canditi, le gravi pesantezze dei mandorlati, il bruno cioccolatte sotto tutte le forme e tutti gli aspetti, le paste leggere, sgranate, che si liquefanno sotto il dente; i datteri imbottiti di pistacchio, unione nobilissima come quella del latte col miele: insomma la riunione di quanto vi è di più gentile, di più fine, di più elegante; le carezze della vista, del gusto e dell’odorato; il raffinato e lo squisito nella più completa loro manifestazione, il punto culminante di ogni più strano desiderio e la poesia più alta e più pura delle sensazioni, la fantasia diventata vita, l’ideale artistico realizzato, anzi il summum dell’arte.

È in questo sublime volo lirico, che finisce lo splendido inno dedicato dai napoletani alla decima musa: Gasterea!

Natale, 78.