Dialoghi marini/1

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1. Dori e Galatea

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Luciano di Samosata - Dialoghi marini (Antichità)
Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
1. Dori e Galatea
Dialoghi marini 2
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1.

Dori e Galatea.


Dori. Quel tuo bello innamorato, o Galatea, quel pastore siciliano dicono che sia impazzato di te.

Galatea. Non motteggiare, o Dori: infine è figliuol di Nettuno egli.

Dori. E che fa? fosse anche figliuol di Giove, quand’è così salvatico e peloso, e con quella gran bruttezza d’un sol occhio? Sai che gentilezza non fa bellezza.

Galatea. Quell’esser peloso e salvatico, come tu di’, non lo rende brutto, ma gli dà un’aria più maschile: e quell’occhio gli sta bene in fronte, e poi non ci vedria meglio con due.

Dori. Pare, o Galatea, che tu se’ più innamorata di lui, che egli di te, chè troppo lo lodi.

Galatea. Innamorata no: ma non posso patire che voi ne diciate tanto male; e mi pare che lo fate per invidia, perchè una volta che ei pascolava il gregge, vedendoci da un’altura che scherzavamo sul lido alle falde dell’Etna, dove tra il monte ed il mare si dilarga la spiaggia, a voi neppure riguardò, ma io gli parvi la più bella fra tutte, ed a me sola teneva fiso l’occhio. Questo vi cuoce: perchè è segno ch’io sono dappiù, e più degna d’amore; e voi da non essere neppure guardate.

Dori. Oh, paresti bella ad un pastore che ha un occhio, e credi di fare invidia? E che altro egli ha da lodare in te, se non che sei bianca? È usato a veder sempre cacio e latte; e tutto ciò che a questo somiglia gli pare bello. Se vuoi conoscere tu che viso hai, quando è calma, rimirati da uno scoglio nell’acqua, e vedrai non aver altro che un po’ di pelle bianca [p. 267 modifica] dilavata; nella quale che bellezza c’è, se non c’è un po’ d’incarnato?

Galatea. Se io son dilavata, almeno ho un amante; ma voi non avete un can che vi voglia bene, nè pastore, nè marinaio, nè nocchiero. Ma Polifemo fra le altre cose è anche musico.

Dori. Zitto, o Galatea; l’udimmo cantare quando testè venne a farti la serenata. O Venere cara, pareva un asino che ragghiava. E che sorte di cetera aveva egli? Un teschio di cervo scarnato: le corna eran le braccia della cetera: ei le aveva congiunte, vi aveva messe le corde, e senza tirarle coi bischeri, vi sonava e vi cantava rozzo e scordato: ei muggiva ad un tuono, e il colascione rispondeva a un altro: e noi non potevamo tener le risa all’udire quel rantolo amoroso. Neppure Eco, che è sì ciarliera, voleva rispondere a quel gorgogliare, e vergognavasi di parer imitatrice di così aspra e ridicola canzone. Il zerbino si portava in braccio un orsacchio, a guisa di cagnoletto, tutto peloso come lui. E chi vorrà invidiarti, o Galatea, cotesto innamorato?

Galatea. E tu, dimmi il tuo, o Dori, che sia più bello, e sappia meglio cantare e sonare la cetera.

Dori. Io non ho innamorato, io, nè mi vanto d’essere vagheggiata da alcuno. Cotesto Ciclope che puzza di caprone, che cibasi di carni crude, come dicono, e che mangia i forestieri che gli capitano, sia tutto tuo, e tu sii tutta sua.