Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro terzo/Capitolo 10
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Che uno capitano
non può fuggire la giornata,
quando l’avversario la vuol fare
in ogni modo.
«Cneus Sulpitius dictator adversus Gallos bellum trahebat, nolens se fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies, et locus alienus, faceret». Quando e’ séguita uno errore, dove tutti gli uomini o la maggiore parte s’ingannino, io non credo che sia male molte volte riprovarlo. Pertanto, come che io abbia di sopra più volte mostro quanto le azioni circa le cose grandi sieno disformi a quelle delli antichi tempi, nondimeno non mi pare superfluo al presente replicarlo. Perché, se in alcuna parte si devia dagli antichi ordini si devia massime nelle azioni militari, dove al presente non è osservata alcuna di quelle cose che dagli antichi erano stimate assai. Ed è nato questo inconveniente, perché le republiche ed i principi hanno imposta questa cura ad altrui; e per fuggire i pericoli si sono discostati da questo esercizio: e se pure si vede qualche volta uno re de’ tempi nostri andare in persona, non si crede, però, che da lui nasca altri modi che meritino più laude. Perché quello esercizio, quando pure lo fanno, lo fanno a pompa, e non per alcuna altra laudabile cagione. Pure, questi fanno minori errori rivedendo i loro eserciti qualche volta in viso, tenendo a presso di loro il titolo dello imperio, che non fanno le republiche, e massime le italiane; le quali, fidandosi d’altrui, né s’intendendo in alcuna cosa di quello che appartenga alla guerra; e, dall’altro canto, volendo, per parere d’essere loro il principe, deliberarne, fanno in tale deliberazione mille errori. E benché di alcuno ne abbi discorso altrove, voglio al presente non ne tacere uno importantissimo. Quando questi principi oziosi, o republiche effeminate, mandono fuora uno loro capitano, la più savia commissione che paia loro dargli, è quando gl’impongono che per alcuno modo venga a giornata, anzi, sopra ogni cosa, si guardi dalla zuffa; e parendo loro, in questo, imitare la prudenza di Fabio Massimo, che, differendo il combattere, salvò lo stato ai Romani, non intendono che, la maggiore parte delle volte, questa commissione è nulla o è dannosa. Per che si debbe pigliare questa conclusione: che uno capitano, che voglia stare alla campagna, non può fuggire la giornata, qualunque volta il nemico la vuole fare in ogni modo. E non è altro questa commissione che dire: fa’ la giornata a posta del nimico, e non a tua. Perché a volere stare in campagna, e non fare la giornata, non ci è altro rimedio sicuro che porsi cinquanta miglia almeno discosto al nimico; e di poi tenere buone spie, che, venendo quello verso di te, tu abbi tempo a discostarti. Uno altro partito ci è; inchiudersi in una città. E l’uno e l’altro di questi due partiti è dannosissimo. Nel primo si lascia in preda il paese suo al nimico; ed uno principe valente vorrà più tosto tentare la fortuna della zuffa, che allungare la guerra con tanto danno de’ sudditi. Nel secondo partito è la perdita manifesta; perché e’ conviene che, riducendoti con uno esercito in una città, tu venga ad essere assediato, ed in poco tempo patire fame, e venire a dedizione. Talché fuggire la giornata, per queste due vie, è dannosissimo. Il modo che tenne Fabio Massimo, di stare ne’ luoghi forti, è buono quando tu hai sì virtuoso esercito, che il nimico non abbia ardire di venirti a trovare dentro a’ tuoi vantaggi. Né si può dire che Fabio fuggissi la giornata, ma più tosto che la volessi fare a suo vantaggio. Perché, se Annibale fusse ito a trovarlo, Fabio l’arebbe aspettato, e fatto la giornata seco: ma Annibale non ardì mai di combattere con lui a modo di quello. Tanto che la giornata fu fuggita così da Annibale come da Fabio: ma se uno di loro l’avessi voluta fare in ogni modo, l’altro non vi aveva se non uno de’ tre rimedi; i due sopradetti, o fuggirsi.
E che questo che io dico sia vero, si vede manifestamente con mille esempli, e massime nella guerra che i Romani feciono con Filippo di Macedonia, padre di Perse: perché Filippo, sendo assaltato dai Romani, deliberò non venire alla zuffa; e, per non vi venire, volle fare prima come aveva fatto Fabio Massimo in Italia; e si pose con il suo esercito sopra la sommità d’uno monte, dove si afforzò assai, giudicando ch’e’ Romani non avessero ardire di andare a trovarlo. Ma, andativi e combattutolo, lo cacciarono di quel monte; ed egli, non potendo resistere, si fuggì con la maggiore parte delle genti. E quel che lo salvò che non fu consumato in tutto, fu la iniquità del paese, qual fece che i Romani non poterono seguirlo. Filippo, adunque, non volendo azzuffarsi, ed essendosi posto con il campo presso a’ Romani, si ebbe a fuggire; ed avendo conosciuto per questa isperienza, come, non volendo combattere, non gli bastava stare sopra i monti, e nelle terre non volendo rinchiudersi, deliberò pigliare l’altro modo, di stare discosto molte miglia al campo romano. Donde, se i Romani erano in una provincia, e’ se ne andava nell’altra, e così sempre, donde i Romani partivano esso entrava. E veggendo, alla fine, come nello allungare la guerra per questa via, le sue condizioni peggioravano, e che i suoi suggetti ora da lui ora dai nimici erano oppressi, deliberò di tentare la fortuna della zuffa; e così venne con i Romani ad una giornata giusta. È utile adunque non combattere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che aveva lo esercito di Fabio, e che ora ha quello di Gneo Sulpizio, cioè avere uno esercito sì buono, che il nimico non ardisca venirti a trovare drento alle fortezze tue; e che il nimico sia in casa tua sanza avere preso molto piè, dove e’ patisca necessità del vivere. Ed è in questo caso il partito utile, per le ragioni che dice Tito Livio: «nolens se fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies, et locus alienus, faceret». Ma in ogni altro termine non si può fuggire giornata, se non con tuo disonore e pericolo. Perché fuggirsi, come fece Filippo, è come essere rotto; e con più vergogna, quanto meno si è fatto pruova della tua virtù. E se a lui riuscì salvarsi, non riuscirebbe ad uno altro che non fussi aiutato dal paese come egli. Che Annibale non fussi maestro di guerra, alcuno mai non lo dirà ed essendo allo incontro di Scipione in Affrica, s’egli avessi veduto vantaggio in allungare la guerra, ei lo arebbe fatto; e per avventura, sendo lui buono capitano, ed avendo buono esercito, lo arebbe potuto fare, come fece Fabio in Italia: ma non lo avendo fatto, si debbe credere che qualche cagione importante lo movessi. Perché uno principe che abbi uno esercito messo insieme, e vegga che per difetto di danari o d’amici e’ non può tenere lungamente tale esercito, è matto al tutto se non tenta la fortuna innanzi che tale esercito si abbia a risolvere: perché, aspettando e’ perde il certo; tentando, potrebbe vincere.
Un’altra cosa ci è ancora da stimare assai: la quale è che si debbe, eziandio perdendo, volere acquistare gloria; e più gloria si ha, ad essere vinto per forza, che per altro inconveniente che ti abbi fatto perdere. Sì che Annibale doveva essere constretto da queste necessità. E dall’altro canto, Scipione, quando Annibale avessi differita la giornata, e non gli fusse bastato l’animo irlo a trovare ne’ luoghi forti, non pativa, per avere di già vinto Siface ed acquistato tante terre in Affrica, che vi poteva stare sicuro e con commodità come in Italia. Il che non interveniva ad Annibale, quando era all’incontro di Fabio; né a questi Franciosi, che erano allo incontro di Sulpizio.
Tanto meno ancora può fuggire la giornata colui che con lo esercito assalta il paese altrui; perché, se vuole entrare nel paese del nimico, gli conviene, quando il nimico se gli facci incontro, azzuffarsi seco, e se si pone a campo ad una terra, si obliga tanto più alla zuffa: come ne’ tempi nostri intervenne al duca Carlo di Borgogna, che, sendo accampato a Moratto, terra de’ Svizzeri, fu da’ Svizzeri assaltato e rotto, e come intervenne allo esercito di Francia, che, campeggiando Novara, fu medesimamente da’ Svizzeri rotto.