Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro terzo/Capitolo 6
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Delle congiure.
Ei non mi è parso da lasciare indietro il ragionare delle congiure, essendo cosa tanto pericolosa ai principi ed ai privati; perché si vede per quelle molti più principi avere perduta la vita e lo stato, che per guerra aperta. Perché il poter fare aperta guerra ad uno principe, è conceduto a pochi: il poterli congiurare contro, è concesso a ciascuno. Dall’altra parte, gli uomini privati non entrano in impresa più pericolosa né più temeraria di questa; perché la è difficile e pericolosissima in ogni sua parte. Donde ne nasce che molte se ne tentino, e pochissime hanno il fine desiderato. Acciocché, adunque, i principi imparino a guardarsi da questi pericoli, e che i privati più timidamente vi si mettino, anzi imparino ad essere contenti a vivere sotto quello imperio che dalla sorte è stato loro proposto; io ne parlerò diffusamente, non lasciando indietro alcuno caso notabile in documento dell’uno e dell’altro. E veramente, quella sentenzia di Cornelio Tacito è aurea, che dice: che gli uomini hanno ad onorare le cose passate e ad ubbidire alle presenti; e debbono desiderare i buoni principi, e, comunque ei si sieno fatti, tollerargli. E veramente, chi fa altrimenti, il più delle volte rovina sé e la sua patria.
Dobbiamo adunque, entrando nella materia, considerare prima contro a chi si fanno le congiure; e troverreno farsi o contro alla patria, o contro ad uno principe: delle quali due voglio che al presente ragioniamo; perché, di quelle che si fanno per dare una terra a’ nimici che la assediano, o che abbino, per qualunque cagione, similitudine con questa, se n’è parlato di sopra a sufficienza. E trattereno, in questa prima parte, di quelle contro al principe, e prima esaminereno le cagioni di esse: le quali sono molte, ma una ne è importantissima più che tutte le altre. E questa è lo essere odiato dallo universale, perché il principe che si è concitato questo universale odio, è ragionevole che abbi de’ particulari i quali da lui siano stati più offesi, e che desiderino vendicarsi. Questo desiderio è accresciuto loro da quella mala disposizione universale che veggono essergli concitata contro. Debbe, adunque, un principe fuggire questi carichi privati; e come debba fare a fuggirli, avendone altrove trattato, non ne voglio parlare qui; perché, guardandosi da questo, le semplice offese particulari gli faranno meno guerra. L’una, perché si riscontra rade volte in uomini che stimino tanto una ingiuria, che si mettino a tanto pericolo per vendicarla; l’altra, che, quando pure ei fossono d’animo e di potenza da farlo, sono ritenuti da quella benivolenza universale che veggono avere ad uno principe. Le ingiurie, conviene che siano nella roba, nel sangue o nell’onore. Di quelle del sangue sono più pericolose le minacce che le esecuzioni; anzi, le minacce sono pericolosissime, e nelle esecuzioni non vi è pericolo alcuno; perché chi è morto non può pensare alla vendetta; quelli che rimangono vivi, il più delle volte ne lasciano il pensiero a te. Ma colui che è minacciato, e che si vede costretto da una necessità o di fare o di patire, diventa uno uomo pericolosissimo per il principe: come nel suo luogo particularmente direno. Fuora di questa necessità, la roba e l’onore sono quelle due cose che offendono più gli uomini che alcun’altra offesa, e dalle quali il principe si debbe guardare: perché e’ non può mai spogliare uno, tanto, che non gli rimanga uno coltello da vendicarsi; non può mai tanto disonorare uno, che non gli resti uno animo ostinato alla vendetta. E degli onori che si tolgono agli uomini, quello delle donne importa più; dopo questo, il vilipendio della sua persona. Questo armò Pausania contro a Filippo di Macedonia, questo ha armato molti altri contro a molti altri principi: e ne’ nostri tempi Luzio Belanti non si mosse a congiurare contro a Pandolfo tiranno di Siena, se non per averli quello data e poi tolta per moglie una sua figliuola; come nel suo loco direno. La maggiore cagione che fece che i Pazzi congiurarono contro ai Medici, fu la eredità di Giovanni Bonromei, la quale fu loro tolta per ordine di quegli. Un’altra cagione ci è, e grandissima, che fa gli uomini congiurare contro al principe; la quale è il desiderio di liberare la patria, stata da quello occupata. Questa cagione mosse Bruto e Cassio contro a Cesare; questa ha mosso molti altri contro a’ Falari, Dionisii, ed altri occupatori della patria loro. Né può, da questo omore, alcuno tiranno guardarsi, se non con diporre la tirannide. E perché non si truova alcuno che faccia questo, si truova pochi che non capitino male; donde nacque quel verso di Iuvenale: Ad generum Cereris sine caede et vulnere pauci
Descendunt reges, et sicca morte tiranni. I pericoli che si portano, come io dissi di sopra, nelle congiure, sono grandi, portandosi per tutti i tempi; perché in tali casi si corre pericolo nel maneggiarli, nello esequirli, ed esequiti che sono. Quegli che congiurano, o ei sono uno, o ei sono più. Uno, non si può dire che sia congiura, ma è una ferma disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe. Questo solo, de’ tre pericoli che si corrono nelle congiure, manca del primo; perché, innanzi alla esecuzione non porta alcuno pericolo, non avendo altri il suo secreto, né portando pericolo che torni il disegno suo all’orecchio del principe. Questa deliberazione così fatta può cadere in qualunque uomo, di qualunque sorte, grande, piccolo, nobile, ignobile, familiare e non familiare al principe; perché ad ognuno è lecito qualche volta parlarli; ed a chi è lecito parlare, è lecito sfogare l’animo suo. Pausania, del quale altre volte si è parlato, ammazzò Filippo di Macedonia che andava al tempio, con mille armati d’intorno, ed in mezzo intra il figliuolo ed il genero. Ma costui fu nobile e cognito al principe. Uno spagnuolo, povero ed abietto, dette una coltellata in su el collo al re Ferrando, re di Spagna: non fu la ferita mortale, ma per questo si vide che colui ebbe animo e commodità a farlo. Uno dervis, sacerdote turchesco, trasse d’una scimitarra a Baisit, padre del presente Turco: non lo ferì, ma ebbe pure animo e commodità a volerlo fare. Di questi animi fatti così, se ne truova, credo, assai che lo vorrebbono fare, perché nel volere non è pena né pericolo alcuno; ma pochi che lo facciano: ma di quelli che lo fanno, pochissimi o nessuno che non siano ammazzati in sul fatto; però non si truova chi voglia andare ad una certa morte. Ma lasciamo andare queste uniche volontà, e veniamo alle congiure intra i più. Dico, trovarsi nelle istorie, tutte le congiure essere fatte da uomini grandi, o familiarissimi del principe: perché gli altri, se non sono matti affatto, non possono congiurare; perché gli uomini deboli, e non familiari al principe, mancano di tutte quelle speranze e di tutte quelle commodità che si richiede alla esecuzione d’una congiura. Prima, gli uomini deboli non possono trovare riscontro di chi tenga loro fede; perché uno non può consentire alla volontà loro, sotto alcuna di quelle speranze che fa entrare gli uomini ne’ pericoli grandi: in modo che, come ei si sono allargati in dua o in tre persone, ci trovono lo accusatore e rovinano: ma quando pure si fossono tanto felici che mancassino di questo accusatore, sono nella esecuzione intorniati da tale difficultà, per non avere l’entrata facile al principe, che gli è impossibile che in essa esecuzione ei non rovinino. Perché, se gli uomini grandi, e che hanno l’entrata facile, sono oppressi da quelle difficultà che di sotto si diranno, conviene che in costoro quelle difficultà sanza fine creschino. Pertanto gli uomini (perché, dove ne va la vita e la roba, non sono al tutto insani) quando e’ si veggono deboli, se ne guardano; e quando egli hanno a noia uno principe, attendono a bestemmiarlo, ed aspettono che quelli che hanno maggiore qualità di loro, gli vendichino. E se pure si trovasse che alcuno di questi simili avessi tentato qualche cosa, si debbe laudare in loro la intenzione, e non la prudenza. Vedesi, pertanto, quelli che hanno congiurato, essere stati tutti uomini grandi, o familiari, del principe; de’ quali molti hanno congiurato, mossi così da troppi beneficii, come dalle troppe ingiurie: come fu Perennio contro a Commodo, Plauziano contro a Severo, Seiano contro a Tiberio. Costoro tutti furono dai loro imperadori constituiti in tanta ricchezza, onore e grado, che non pareva che mancasse loro, alla perfezione della potenza, altro che lo imperio; e di questo non volendo mancare, si mossono a congiurare contro al principe; ed ebbono le loro congiure tutte quel fine che meritava la loro ingratitudine: ancora che di queste simili ne’ tempi più freschi ne avessi buono fine quella di Iacopo di Appiano contro a messer Piero Gambacorti, principe di Pisa: il quale Iacopo, allevato e nutrito e fatto riputato da lui, gli tolse poi lo stato. Fu di queste quella del Coppola, ne’ nostri tempi, contro il re Ferrando d’Aragona; il quale Coppola, venuto a tanta grandezza che non gli pareva gli mancassi se non il regno, per volere ancora quello, perdé la vita. E veramente, se alcuna congiura contro ai principi, fatta da uomini grandi, dovesse avere buono fine, doverrebbe essere questa; essendo fatta da un altro re, si può dire, e da chi ha tanta commodità di adempiere il suo disiderio: ma quella cupidità del dominare che gli accieca, gli accieca ancora nel maneggiare questa impresa; perché, se ei sapessono fare questa cattività con prudenza, sarebbe impossibile non riuscisse loro. Debbe, adunque, uno principe che si vuole guardare dalle congiure, temere più coloro a chi elli ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi egli avesse fatte troppe ingiurie. Perché questi mancono di commodità, quelli ne abondano; e la voglia è simile, perché gli è così grande o maggiore il desiderio del dominare, che non è quello della vendetta. Debbono, pertanto, dare tanta autorità agli loro amici, che da quella al principato sia qualche intervallo, e che vi sia in mezzo qualche cosa da desiderare: altrimenti, sarà cosa rada se non interverrà loro, come a’ principi soprascritti. Ma torniamo all’ordine nostro.
Dico che, avendo ad essere, quelli che congiurano, uomini grandi, e che abbino l’adito facile al principe, si ha a discorrere i successi di queste loro imprese quali siano stati, e vedere la cagione che gli ha fatti essere felici ed infelici. E come io dissi di sopra ci si truovano dentro, in tre tempi, pericoli: prima, in su ’l fatto e poi. Se ne truova poche che abbino buono esito, perché gli è impossibile, quasi, passarli tutti felicemente. E cominciando a discorrere e’ pericoli di prima, che sono i più importanti, dico, come e’ bisogna essere molto prudente, ed avere una gran sorte, che, nel maneggiare una congiura, la non si scuopra. E si scuoprono o per relazione, o per coniettura. La relazione nasce da trovare poca fede, o poca prudenza, negli uomini con chi tu la comunichi. La poca fede si truova facilmente, perché tu non puoi comunicarla se non con tuoi fidati, che per tuo amore si mettino alla morte, o con uomini che siano male contenti del principe. De’ fidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma, come tu ti distendi in molti, è impossibile gli truovi: dipoi, e’ bisogna bene che la benivolenza che ti portano sia grande, a volere che non paia loro maggiore il pericolo e la paura della pena. Dipoi gli uomini s’ingannano, il più delle volte, dello amore che tu giudichi che uno uomo ti porti; né te ne puoi mai assicurare, se tu non ne fai esperienza: e farne esperienza in questo è pericolosissimo. E sebbene ne avessi fatto esperienza in qualche altra cosa pericolosa dove e’ ti fossono stati fedeli, non puoi da quella fede misurare questa, passando, questo, di gran lunga, ogni altra qualità di pericolo. Se misuri la fede dalla mala contentezza che uno abbia del principe, in questo tu ti puoi facilmente ingannare: perché, subito che tu hai manifestato a quel male contento l’animo tuo, tu gli dài materia di contentarsi, e conviene bene, o che l’odio sia grande, o che l’autorità tua sia grandissima a mantenerlo in fede.
Di qui nasce che assai ne sono rivelate, ed oppresse ne’ primi principii loro; e che, quando una è stata infra molti uomini segreta lungo tempo, è tenuta cosa miracolosa: come fu quella di Pisone contro a Nerone, e, ne’ nostri tempi, quella de’ Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de’ Medici: delle quali erano consapevoli più che cinquanta uomini; e condussonsi, alla esecuzione, a scoprirsi. Quanto a scoprirsi per poca prudenza, nasce quando uno congiurato ne parla poco cauto, in modo che uno servo o altra terza persona t’intenda, come intervenne ai figliuoli di Bruto, che, nel maneggiare la cosa con i legati di Tarquinio, furono intesi da uno servo, che gli accusò: ovvero quando per leggerezza ti viene communicata a donna o a fanciullo che tu ami o a simile leggieri persona; come fece Dimmo, uno de’ congiurati con Filota contro a Alessandro Magno, il quale communicò la congiura a Nicomaco, fanciullo amato da lui; il quale subito la disse a Ciballino suo fratello, e Ciballino ad el re. Quanto a scoprirsi per coniettura, ce n’è in esemplo la congiura Pisoniana contro a Nerone; nella quale Scevino, uno de’ congiurati, il dì dinanzi ch’egli aveva ad ammazzare Nerone, fece testamento, ordinò che Milichio, suo liberto, facessi arrotare un suo pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i suoi servi e dette loro danari, fece ordinare fasciature da legare ferite: per le quali conietture accortosi Milichio della cosa, lo accusò a Nerone. Fu preso Scevino, e con lui Natale un altro congiurato, i quali erano stati veduti parlare a lungo e di segreto insieme, il dì davanti; e non si accordando del ragionamento avuto, furono forzati a confessare il vero talché la congiura fu scoperta, con rovina di tutti i congiurati.
Da queste cagioni dello scoprire le congiure è impossibile guardarsi che, per malizia, per imprudenza o per leggerezza, la non si scuopra, qualunque volta i conscii d’essa passono il numero di tre o di quattro. E come e’ ne è preso più che uno, è impossibile non riscontrarla, perché due non possano essere convenuti insieme di tutti e’ ragionamenti loro. Quando e’ ne sia preso solo uno, che sia uomo forte, può elli, con la fortezza dello animo, tacere i congiurati; ma conviene che i congiurati non abbiano meno animo di lui a stare saldi, e non si scoprire con la fuga: perché da una parte che l’animo manca o da chi è sostenuto o da chi è libero, la congiura è scoperta. Ed è rado lo esemplo indotto da Tito Livio nella congiura fatta contro a Girolamo, re di Siracusa; dove, sendo Teodoro, uno de’ congiurati, preso, celò con una virtù grande tutti i congiurati, ed accusò gli amici del re, e dall’altra parte, i congiurati confidarono tanto nella virtù di Teodoro, che nessuno si partì di Siracusa, o fece alcuno segno di timore. Passasi, adunque, per tutti questi pericoli nel maneggiare una congiura innanzi che si venga alla esecuzione di essa: i quali volendo fuggire, ci sono questi rimedi. Il primo ed il più vero, anzi, a dire meglio, unico, è non dare tempo ai congiurati di accusarti; e comunicare loro la cosa quando tu la vuoi fare, e non prima. Quelli che hanno fatto così, fuggono al certo i pericoli che sono nel praticarla, e, il più delle volte, gli altri; anzi hanno tutte avuto felice fine: e qualunque prudente arebbe commodità di governarsi in questo modo. Io voglio che mi basti addurre due esempli.
Nelemato, non potendo sopportare la tirannide di Aristotimo, tiranno di Epiro, ragunò in casa sua molti parenti ed amici, e, confortatogli a liberare la patria, alcuni di loro chiesono tempo a diliberarsi ed ordinarsi, donde Nelemato fece a’ suoi servi serrare la casa, ed a quelli che esso aveva chiamati disse: - O voi giurerete di andare ora a fare questa esecuzione, o io vi darò tutti prigioni ad Aristotimo -. Dalle quali parole mossi coloro, giurarono; ed andati, sanza intermissione di tempo, felicemente l’ordine di Nelemato esequirono. Avendo uno Mago, per inganno, occupato il regno de’ Persi, ed avendo Ortano, uno de’ grandi uomini del regno, intesa e scoperta la fraude, lo conferì con sei altri principi di quello stato, dicendo come gli era da vendicare il regno dalla tirannide di quel Mago; e domandando, alcuno di loro, tempo, si levò Dario, uno de’ sei chiamati da Ortano, e disse: - O noi andreno ora a fare questa esecuzione, o io vi andrò ad accusare tutti -. E così d’accordo levatisi, sanza dare tempo ad alcuno di pentirsi, esequirono felicemente i disegni loro. Simile a questi due esempli ancora è il modo che gli Etoli tennono ad ammazzare Nabide, tiranno spartano; i quali mandarono Alessameno loro cittadino, con trenta cavagli e dugento fanti, a Nabide, sotto colore di mandargli aiuto; ed il segreto solamente comunicorono ad Alessameno; ed agli altri imposono che lo ubbidissoro in ogni e qualunque cosa, sotto pena di esilio. Andò costui in Sparta, e non comunicò mai la commissione sua se non quando e’ la volle esequire: donde gli riuscì d’ammazzarlo. Costoro, adunque per questi modi, hanno fuggiti quelli pericoli che si portano nel maneggiare le congiure; e chi imiterà loro, sempre gli fuggirà.
E che ciascuno possa fare come loro io ne voglio dare lo esemplo di Pisone preallegato di sopra. Era Pisone grandissimo e riputatissimo uomo, e familiare di Nerone, ed in chi elli confidava assai. Andava Nerone ne’ suoi orti spesso a mangiare seco. Poteva, adunque, Pisone farsi amici uomini, d’animo e di cuore e di disposizione atti ad una tale esecuzione (il che ad uno grande è facilissimo); e quando Nerone fosse stato ne’ i suoi orti, comunicare loro la cosa, e con le parole convenienti inanimarli a fare quello che loro non avevano tempo a ricusare, e che era impossibile che non riuscisse. E così, se si esamineranno tutte l’altre, si troverrà poche non essere potute condursi nel medesimo modo: ma gli uomini, per l’ordinario, poco intendenti delle azioni del mondo, spesso fanno errori gravissimi, e tanto maggiori in quelle che hanno più dello istraordinario, come è questa. Debbesi, adunque, non comunicare mai la cosa se non necessitato ed in sul fatto; e se pure la vuoi comunicare, comunicarla ad uno solo, del quale abbia fatto lunghissima isperienza, o che sia mosso dalle medesime cagioni che tu. Trovarne uno così fatto è molto più facile che trovarne più, e per questo vi è meno pericolo, dipoi, quando pure ei ti ingannassi, vi è qualche rimedio a difendersi, che non è dove siano congiurati assai: perché da alcuno prudente ho sentito dire che con uno si può parlare ogni cosa, perché tanto vale, se tu non ti lasci condurre a scrivere di tua mano, il sì dell’uno quanto il no dell’altro; e dallo scrivere ciascuno debbe guardarsi come da uno scoglio, perché non è cosa che più facilmente ti convinca, che lo scritto di tua mano. Plauziano, volendo fare ammazzare Severo imperadore ed Antonino suo figliuolo, commisse la cosa a Saturnino tribuno; il quale, volendo accusarlo e non ubbidirlo, e dubitando che, venendo all’accusa, e’ non fussi più creduto a Plauziano che a lui, gli chiese una cedola di sua mano, che facessi fede di questa commissione; la quale Plauziano, accecato dall’ambizione, gli fece: donde seguì che fu, dal tribuno, accusato e convinto; e sanza quella cedola, e certi altri contrassegni, sarebbe stato Plauziano superiore; tanto audacemente negava. Truovasi, adunque, nell’accusa d’uno, qualche rimedio, quando tu non puoi essere da una scrittura, o altri contrasegni, convinto: da che uno si debbe guardare.
Era nella congiura Pisoniana una femina chiamata Epicari, stata per lo adietro amica di Nerone; la quale giudicando che fussi a proposito mettere tra i congiurati uno capitano di alcune trireme che Nerone teneva per sua guardia, gli comunicò la congiura ma non i congiurati. Donde, rompendogli quello capitano la fede ed accusandola a Nerone, fu tanta l’audacia di Epicari nel negarlo, che Nerone, rimaso confuso, non la condannò. Sono, adunque, nel comunicare la cosa ad uno solo, due pericoli: l’uno, che non ti accusi in pruova; l’altro, che non ti accusi convinto e constretto dalla pena, sendo egli preso per qualche sospetto o per qualche indizio avuto di lui. Ma nell’uno e nell’altro di questi due pericoli è qualche rimedio, potendosi negare l’uno, allegandone l’odio che colui avesse teco; e negare l’altro, allegandone la forza che lo constringesse a dire le bugie. È, adunque, prudenza non comunicare la cosa a nessuno, ma fare secondo gli esempli soprascritti; o, quando pure la comunichi, non passare uno; dove, se è qualche più pericolo, ve n’è meno assai che comunicarla con molti. Propinquo a questo modo è quando una necessità ti costringa a fare quello al principe che tu vedi che ’l principe vorrebbe fare a te, la quale sia tanto grande che non ti dia tempo se non a pensare ad assicurarti. Questa necessità conduce quasi sempre la cosa al fine desiderato: ed a provarlo voglio bastino due esempli. Aveva Commodo, imperadore, Leto ed Eletto, capi de’ soldati pretoriani, ed intra’ primi amici e familiari suoi; aveva Marzia in nelle prime sue concubine o amiche; e perché egli era da costoro qualche volta ripreso de’ modi con i quali maculava la persona sua e lo Imperio, diliberò di farli morire; e scrisse in su una listra Marzia, Leto ed Eletto ed alcuni altri che voleva, la notte sequente fare morire; e quella listra messe sotto il capezzale del suo letto. Ed essendo ito a lavarsi, un fanciullo favorito da lui, scherzando per camera e su pel letto, gli venne trovato questa listra, ed uscendo fuora con essa in mano, riscontrò Marzia; la quale gliene tolse, e, lettala, e veduto il contenuto di essa, subito mandò per Leto ed Eletto; e conosciuto tutti a tre il pericolo in quale erano, deliberorono prevenire; e, sanza mettere tempo in mezzo, la notte sequente ammazzorono Commodo. Era Antonino Caracalla, imperadore, con gli eserciti suoi in Mesopotamia, ed aveva per suo prefetto Macrino, uomo più civile che armigero; e, come avviene ch’e’ principi non buoni temono sempre che altri non operi, contro a loro, quello che par loro meritare, scrisse Antonino a Materniano suo amico a Roma, che intendessi dagli astrologi, s’egli era alcuno che aspirasse allo imperio, e gliene avvisasse. Donde Materniano gli scrisse, come Macrino era quello che vi aspirava; e pervenuta la lettera, prima alle mani di Macrino che dello imperadore, e, per quella, conosciuta la necessità o d’ammazzare lui prima che nuova lettera venisse da Roma o di morire, commisse a Marziale centurione, suo fidato, ed a chi Antonino aveva morto, pochi giorni innanzi uno fratello, che lo ammazzasse: il che fu esequito da lui felicemente. Vedesi, adunque, che questa necessità che non dà tempo, fa quasi quel medesimo effetto che il modo, da me sopra detto, che tenne Nelemato di Epiro. Vedesi ancora quello che io dissi, quasi nel principio di questo discorso, come le minacce offendono più i principi, e sono cagione di più efficace congiure che le offese: da che uno principe si debbe guardare; perché gli uomini si hanno o accarezzare o assicurarsi di loro; e non li ridurre mai in termine che gli abbiano a pensare che bisogni loro o morire o far morire altrui.
Quanto ai pericoli che si corrono in su la esecuzione, nascono questi o da variare l’ordine, o da mancare l’animo a colui che esequisce, o da errore che lo esecutore faccia per poca prudenza, o per non dare perfezione alla cosa, rimanendo vivi parte di quelli che si disegnavano ammazzare. Dico, adunque, come e’ non è cosa alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a tutte le azioni degli uomini, quanto è in uno instante, sanza avere tempo, avere a variare un ordine e a pervertirlo da quello che si era ordinato prima. E se questa variazione fa disordine in cosa alcuna, lo fa nelle cose della guerra, ed in cose simili a quelle di che noi parliano; perché in tali azioni non è cosa tanto necessaria a fare, quanto che gli uomini fermino gli animi loro ad esequire quella parte che tocca loro: e se gli uomini hanno volto la fantasia per più giorni ad uno modo e ad uno ordine, e quello subito varii, è impossibile che non si perturbino tutti, e non rovini ogni cosa; in modo che gli è meglio assai esequire una cosa secondo l’ordine dato, ancora che vi si vegga qualche inconveniente, che non è, per volere cancellare quello, entrare in mille inconvenienti. Questo interviene quando e’ non si ha tempo a riordinarsi; perché, quando si ha tempo, si può l’uomo governare a suo modo.
La congiura de’ Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de’ Medici, è nota. L’ordine dato era che dessino desinare al cardinale di San Giorgio, ed a quel desinare ammazzargli: dove si era distribuito chi aveva a ammazzargli, chi aveva a pigliare il palazzo, e chi correre la città e chiamare alla libertà il popolo. Accadde che, essendo nella chiesa cattedrale in Firenze i Pazzi, i Medici ed il Cardinale ad uno ufficio solenne, s’intese come Giuliano la mattina non vi desinava: il che fece che i congiurati s’adunorono insieme e quello che gli avevano a fare in casa i Medici, deliberarono di farlo in chiesa. Il che venne a perturbare tutto l’ordine, perché Giovambatista da Montesecco non volle concorrere all’omicidio, dicendo non lo volere fare in chiesa: talché gli ebbono a mutare nuovi ministri in ogni azione; i quali, non avendo tempo a fermare l’animo, fecero tali errori, che in essa esecuzione furono oppressi.
Manca l’animo a chi esequisce, o per riverenza, o per propria viltà dello esecutore. È tanta la maestà e la riverenza che si tira dietro la presenza d’uno principe, ch’egli è facil cosa o che mitighi o che gli sbigottisca uno esecutore. A Mario, essendo preso da’ Minturnesi, fu mandato uno servo che lo ammazzasse; il quale, spaventato dalla presenza di quello uomo e dalla memoria del nome suo, divenuto vile, perdé ogni forza ad ucciderlo. E se questa potenza è in uomo legato e prigione, ed affogato nella mala fortuna; quanto si può tenere che la sia maggiore in uno principe sciolto, con la maestà degli ornamenti, della pompa e della comitiva sua! talché ti può questa tale pompa spaventare, o vero con qualche grata accoglienza raumiliare. Congiurorono alcuni contro a Sitalce re di Tracia, deputorono il dì della esecuzione; convennono al luogo diputato, dove era il principe; nessuno di loro si mosse per offenderlo: tanto che si partirono sanza avere tentato alcuna cosa e sanza sapere quello che se gli avessi impediti; ed incolpavano l’uno l’altro. Caddono in tale errore più volte; tanto che, scopertasi la congiura, portarono pena di quello male che potettono e non vollono fare. Congiurarono contro a Alfonso, duca di Ferrara, due sui frategli, ed usarono mezzano Giannes, prete e cantore del duca; il quale più volte, a loro richiesta, condusse il duca fra loro, talché gli avevano arbitrio d’ammazzarlo: nondimeno, mai nessuno di loro non ardì di farlo; tanto che, scoperti, portarono la pena della cattività e poca prudenza loro. Questa negligenza non potette nascere da altro, se non che convenne o che la presenza gli sbigottisse o che qualche umanità del principe gli umiliasse. Nasce in tali esecuzioni inconveniente o errore per poca prudenza o per poco animo; perché l’una e l’altra di queste due cose ti invasa, e portato da quella confusione di cervello ti fa dire e fare quello che tu non debbi.
E che gli uomini invasino e si confondino, non lo può meglio dimostrare Tito Livio quando discrive di Alessameno etolo, quando ei volle ammazzare Nabide spartano, di che abbiamo di sopra parlato; che, venuto il tempo della esecuzione, scoperto che egli ebbe ai suoi quello che si aveva a fare, dice Tito Livio queste parole: «Collegit et ipse animum, confusum tantae cogitatione rei». Perché gli è impossibile che alcuno, ancora che di animo fermo, ed uso alla morte degli uomini e adoperare il ferro, non si confunda. Però si debba eleggere uomini isperimentati in tali maneggi, ed a nessuno altro credere, ancora che tenuto animosissimo. Perché, dello animo nelle cose grandi, sanza averne fatto isperienza, non sia alcuno che se ne prometta cosa certa. Può, adunque, questa confusione o farti cascare l’armi di mano, o farti dire cose che facciano il medesimo effetto. Lucilla, sirocchia di Commodo, ordinò che Quinziano lo ammazzassi. Costui aspettò Commodo nella entrata dello anfiteatro e con un pugnale ignudo accostandosegli, gridò: - Questo ti manda il Senato! - le quali parole fecero che fu prima preso ch’egli avesse calato il braccio per ferire. Messer Antonio da Volterra, diputato, come di sopra si disse, ad ammazzare Lorenzo de’ Medici, nello accostarsegli disse: - Ah traditore! - la quale voce fu la salute di Lorenzo, e la rovina di quella congiura. Può non si dare perfezione alla cosa, quando si congiura contro ad uno capo, per le cagioni dette: ma facilmente non se le dà perfezione quando si congiura contro a due capi, anzi è tanto difficile, che gli è quasi impossibile che la riesca. Perché fare una simile azione in uno medesimo tempo in diversi luoghi, è quasi impossibile; perché in diversi tempi non si può fare, non volendo che l’una guasti l’altra. In modo che, se il congiurare contro ad uno principe è cosa dubbia, pericolosa e poco prudente; congiurare contro a due, è al tutto vana e leggieri. E se non fosse la riverenza dello istorico, io non crederrei mai che fosse possibile quello che Erodiano dice di Plauziano, quando ei commisse a Saturnino centurione, che elli solo ammazzasse Severo ed Antonino, abitanti in diversi paesi: perché la è cosa tanto discosto da il ragionevole che altro che questa autorità non me lo farebbe credere.
Congiurorono certi giovani ateniesi contro a Diocle ed Ippia, tiranni di Atene. Ammazzarono Diocle ed Ippia, che rimase, lo vendicò. Chione e Leonide eraclensi e discepoli di Platone, congiurarono contro a Clearco e Satiro, tiranni; ammazzarono Clearco; e Satiro, che restò vivo, lo vendicò. Ai Pazzi, più volte da noi allegati, non successe di ammazzare se non Giuliano. In modo che di simili congiure contro a più capi, se ne debbe astenere ciascuno, perché non si fa bene né a sé né alla patria né ad alcuno: anzi quelli che rimangono, diventono più insopportabili e più acerbi; come sa Firenze, Atene ed Eraclea, state da me preallegate. È vero che la congiura che Pelopida fece per liberare Tebe sua patria, ebbe tutte le difficultà: nondimeno ebbe felicissimo fine; perché Pelopida non solamente congiurò contro a due tiranni, ma contro a dieci, non solamente non era confidente e non gli era facile la entrata a e’ tiranni, ma era ribello: nondimanco ei poté venire in Tebe, ammazzare i tiranni, e liberare la patria. Pure nondimanco fece tutto, con l’aiuto d’uno Carione, consigliere de’ tiranni, dal quale ebbe l’entrata facile alla esecuzione sua. Non sia alcuno, nondimanco, che pigli lo esemplo da costui: perché come ella fu impresa impossibile, e cosa maravigliosa a riuscire, così fu, ed è tenuta dagli scrittori, i quali la celebrano, come cosa rara e quasi sanza esemplo. Può essere interrotta tale esecuzione da una falsa immaginazione o da uno accidente imprevisto che nasca in su ’l fatto. La mattina che Bruto e gli altri congiurati volevano ammazzare Cesare, accadde che quello parlò a lungo con Gneo Popilio Lenate, uno de’ congiurati; e vedendo gli altri questo lungo parlamento, dubitarono che detto Popilio non rivelasse a Cesare la congiura: e furono per tentare di ammazzare Cesare quivi, e non aspettare che fosse in Senato; ed arebbonlo fatto, se non che il ragionamento finì, e, visto non fare a Cesare moto alcuno istraordinario, si rassicurarono. Sono queste false immaginazioni da considerarle, ed avervi, con prudenza, rispetto; e tanto più, quanto egli è facile ad averle. Perché chi ha la sua conscienza macchiata, facilmente crede che si parli di lui: puossi sentire una parola, detta ad uno altro fine, che ti faccia perturbare l’animo, e credere che la sia detta sopra il caso tuo, e farti o con la fuga scoprire la congiura da te, o confondere l’azione con acceleralla fuora di tempo. E questo tanto più facilmente nasce, quando ei sono molti ad essere conscii della congiura.
Quanto alli accidenti, perché sono inisperati, non si può se non con gli esempli mostrarli, e fare gli uomini cauti secondo quegli. Luzio Belanti da Siena, del quale di sopra abbiamo fatto menzione, per lo sdegno aveva contro a Pandolfo, che gli aveva tolto la figliuola che prima gli aveva data per moglie, diliberò d’ammazzarlo, ed elesse questo tempo. Andava Pandolfo quasi ogni giorno a vicitare uno suo parente infermo, e nello andarvi passava dalle case di Iulio. Costui, adunque, veduto questo, ordinò di avere i suoi congiurati in casa ad ordine per ammazzare Pandolfo nel passare; e, messisi dentro all’uscio armati, teneva uno alla finestra, che, passando Pandolfo, quando ei fussi presso all’uscio, facessi un cenno. Accadde che, venendo Pandolfo, ed avendo fatto colui il cenno, riscontrò uno amico che lo fermò; ed alcuni di quelli che erano con lui, vennono a trascorrere innanzi; e veduto, e sentito il romore d’arme, scopersono l’ agguato; in modo che Pandolfo si salvò, e Iulio ed i compagni si ebbono a fuggire di Siena. Impedì quello accidente di quello scontro quella azione, e fece a Iulio rovinare la sua impresa. Ai quali accidenti, perché e’ son rari, non si può fare alcuno rimedio. È bene necessario esaminare tutti quegli che possono nascere, e rimediarvi.
Restaci al presente, solo a disputare de’ pericoli che si corrono dopo la esecuzione: i quali sono solamente uno; e questo è, quando e’ rimane alcuno che vendichi il principe morto. Possono, adunque, rimanere suoi frategli, o suoi figliuoli, o altri aderenti, a chi si aspetti il principato; e possono rimanere o per tua negligenzia o per le cagioni dette di sopra, che faccino questa vendetta: come intervenne a Giovanni Andrea da Lampognano, il quale, insieme con i suoi congiurati, avendo morto il duca di Milano, ed essendo rimaso uno suo figliuolo e due suoi frategli, furono a tempo a vendicare il morto. E veramente, in questi casi, i congiurati sono scusati, perché non ci hanno rimedio; ma quando ne rimane vivo alcuno, per poca prudenza, o per loro negligenza, allora è che non meritano scusa. Ammazzarono alcuni congiurati Forlivesi il conte Girolamo loro signore, presono la moglie, ed i suoi figliuoli, che erano piccoli; e non parendo loro potere vivere sicuri se non si insignorivano della fortezza, e non volendo il castellano darla loro, Madonna Caterina (che così si chiamava la contessa) promisse ai congiurati, che, se la lasciavano entrare in quella, di farla consegnare loro, e che ritenessono a presso di loro i suoi figliuoli per istatichi. Costoro, sotto questa fede, ve la lasciarono entrare; la quale, come fu dentro, dalle mura rimproverò loro la morte del marito, e minacciogli d’ogni qualità di vendetta. E per mostrare che de’ suoi figliuoli non si curava, mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva ancora il modo a rifarne. Così costoro, scarsi di consiglio e tardi avvedutisi del loro errore, con uno perpetuo esilio patirono pena della poca prudenza loro. Ma di tutti i pericoli che possono dopo la esecuzione avvenire, non ci è il più certo né quello che sia più da temere, che quando il popolo è amico del principe che tu hai morto: perché a questo i congiurati non hanno rimedio alcuno, perché e’ non se ne possono mai assicurare. In esemplo ci è Cesare, il quale, per avere il popolo di Roma amico, fu vendicato da lui; perché, avendo cacciati i congiurati, di Roma, fu cagione che furono tutti, in varii tempi e in varii luoghi, ammazzati.
Le congiure che si fanno contro alla patria sono meno pericolose, per coloro che le fanno, che non sono quelle contro ai principi: perché nel maneggiarle vi sono meno pericoli che in quelle; nello esequirle vi sono quelli medesimi; dopo la esecuzione non ve ne è alcuno. Nel maneggiarle non vi è pericoli molti: perché uno cittadino può ordinarsi alla potenza sanza manifestare lo animo e disegno suo ad alcuno; e, se quegli suoi ordini non gli sono interrotti, seguire felicemente la impresa sua; se gli sono interrotti con qualche legge, aspettare tempo ed entrare per altra via. Questo s’intende in una republica dove è qualche parte di corrozione; perché, in una non corrotta, non vi avendo luogo nessuno principio cattivo, non possono cadere in uno suo cittadino questi pensieri. Possono, adunque, i cittadini per molti mezzi e molte vie aspirare al principato dove e’ non portano pericolo di essere oppressi: sì perché le republiche sono più tarde che uno principe, dubitano meno, e per questo sono manco caute; sì perché hanno più rispetto ai loro cittadini grandi, e per questo quelli sono più audaci e più animosi a fare loro contro. Ciascuno ha letto la congiura di Catilina scritta da Sallustio, e sa come, poi che la congiura fu scoperta, Catilina non solamente stette in Roma, ma venne in Senato, e disse villania al Senato ed al Consolo, tanto era il rispetto che quella città aveva ai suoi cittadini. E partito che fu di Roma, e ch’egli era di già in su gli eserciti, non si sarebbe preso Lentulo e quelli altri, se non si fossoro avute lettere di loro mano che gli accusavano manifestamente. Annone, grandissimo cittadino in Cartagine, aspirando alla tirannide, aveva ordinato nelle nozze d’una sua figliuola di avvelenare tutto il Senato, e dipoi farsi principe. Questa cosa intesasi, non vi fece il Senato altra provisione che d’una legge, la quale poneva termini alle spese de’ conviti e delle nozze: tanto fu il rispetto che gli ebbero alle qualità sue. È bene vero, che nello esequire una congiura contro alla patria, vi è difficultà più, e maggiori pericoli, perché rade volte è che bastino le tue forze proprie conspirando contro a tanti; e ciascuno non è principe d’uno esercito, come era Cesare o Agatocle o Cleomene, e simili, che hanno ad un tratto e con le forze loro occupato la patria. Perché a simili è la via assai facile ed assai sicura, ma gli altri, che non hanno tante aggiunte di forze, conviene che facciano le cose, o con inganno ed arte, o con forze forestiere. Quanto allo inganno ed all’arte, avendo Pisistrato ateniese vinti i Megarensi, e per questo acquistata grazia nel popolo, uscì una mattina fuora, ferito, dicendo che la Nobilità per invidia lo aveva ingiuriato, e domandò di potere menare armati seco per guardia sua. Da questa autorità facilmente salse a tanta grandezza, che diventò tiranno di Atene. Pandolfo Petrucci tornò, con altri fuora usciti, in Siena, e gli fu data la guardia della piazza con governo, come cosa mecanica, e che gli altri rifiutarono; nondimanco quelli armati, con il tempo, gli dierono tanta riputazione, che, in poco tempo, ne diventò principe. Molti altri hanno tenute altre industrie ed altri modi, e con ispazio di tempo e sanza pericolo vi si sono condotti. Quegli che con forze loro, o con eserciti esterni, hanno congiurato per occupare la patria, hanno avuti varii eventi, secondo la fortuna. Catilina preallegato vi rovinò sotto. Annone, di chi di sopra facemo menzione, non gli essendo riuscito il veleno, armò, di suoi partigiani, molte migliaia di persone, e loro ed elli furono morti. Alcuni primi cittadini di Tebe per farsi tiranni chiamorono in aiuto uno esercito spartano, e presono la tirannide di quella città. Tanto che, esaminate tutte le congiure fatte contro alla patria, non ne troverrai alcuna, o poche, che, nel maneggiarle, siano oppresse; ma tutte, o sono riuscite o sono rovinate, nella esecuzione. Esequite che le sono, ancora non portano altri periculi che si porti la natura del principato in sé: perché divenuto che uno è tiranno, ha i suoi naturali ed ordinari pericoli che gli arreca la tirannide, alli quali non ha altri rimedi che si siano di sopra discorsi.
Questo è quanto mi è occorso scrivere delle congiure; e se io ho ragionato di quelle che si fanno con il ferro, e non col veneno, nasce che le hanno tutte uno medesimo ordine. Vero è che quelle del veneno sono più pericolose, per essere più incerte, perché non si ha commodità per ognuno; e bisogna conferirlo con chi la ha, e questa necessità del conferire ti fa pericolo. Dipoi, per molte cagioni, uno beveraggio di veleno non può essere mortale: come intervenne a quelli che ammazzarono Commodo, che, avendo quello ributtato il veleno che gli avevano dato, furono forzati a strangolarlo, se vollono che morisse. Non hanno, pertanto, i principi il maggiore nimico che la congiura: perché, fatta che è una congiura loro contro, o la gli ammazza, o la gli infama. Perché, se la riesce, e’ muoiono; se la si scuopre, e loro ammazzino i congiurati, si crede sempre che la sia stata invenzione di quel principe, per isfogare l’avarizia e la crudeltà sua contro al sangue e la roba di quegli che egli ha morti. Non voglio però mancare di avvertire quel principe o quella republica contro a chi fosse congiurato, che abbino avvertenza, quando una congiura si manifesta loro, innanzi che facciano impresa di vendicarla, cercare ed intendere molto bene la qualità di essa, e misurino bene le condizioni de’ congiurati e le loro; e quando la truovino grossa e potente, non la scuoprino mai, infino a tanto che si siano preparati con forze sufficienti ad opprimerla: altrimenti facendo, scoprirebbono la loro rovina. Però, debbono con ogni industria dissimularla; perché i congiurati, veggendosi scoperti, cacciati da necessità, operano sanza rispetto. In esemplo ci sono i Romani; i quali, avendo lasciate due legioni di soldati a guardia de’ Capovani contro ai Sanniti, come altrove dicemo, congiurarono quelli capi delle legioni insieme di opprimere i Capovani: la quale cosa intesasi a Roma, commissono a Rutilio nuovo Consolo che vi provvedesse; il quale, per addormentare i congiurati, pubblicò come il Senato aveva raffermo le stanze alle legioni capovane. Il che credendosi quelli soldati, e parendo loro avere tempo ad esequire il disegno loro, non cercarono di accelerare la cosa; e così stettono infino che cominciarono a vedere che il Consolo gli separava l’uno dall’altro: la quale cosa generò in loro sospetto, fece che si scopersono e mandarono ad esecuzione la voglia loro. Né può essere questo maggiore esemplo nell’una e nell’altra parte: perché per questo si vede, quanto gli uomini sono lenti nelle cose dove credono avere tempo, e quanto e’ sono presti dove la necessità gli caccia. Né può uno principe o una republica, che vuole differire lo scoprire una congiura a suo vantaggio, usare termine migliore che offerire, di prossimo, occasione con arte ai congiurati acciocché, aspettando quella, o parendo loro avere tempo, diano tempo a quello o a quella a gastigarli. Chi ha fatto altrimenti, ha accelerato la sua rovina: come fece il duca di Atene, e Guglielmo de’ Pazzi. Il duca, diventato tiranno di Firenze, ed intendendo esserli congiurato contro, fece, sanza esaminare altrimenti la cosa, pigliare uno de’ congiurati: il che fece subito pigliare l’armi agli altri; e torgli lo stato. Guglielmo, sendo commessario in Val di Chiana nel 1501, ed avendo inteso come in Arezzo era una congiura in favore de’ Vitelli per tôrre quella terra ai Fiorentini, subito se n’andò in quella città, e sanza pensare alle forze de’ congiurati o alle sue, e, sanza prepararsi di alcuna forza, con il consiglio del vescovo suo figliuolo, fece pigliare uno de’ congiurati: dopo la quale presura, gli altri subito presono l’armi, e tolsono la terra ai Fiorentini; e Guglielmo, di commessario, diventò prigione. Ma quando le congiure sono deboli, si possono e debbono sanza rispetto opprimerle. Non è ancora da imitare in alcuno modo due termini usati, quasi contrari l’uno all’altro, l’uno dal prenominato duca di Atene, il quale, per mostrare di credere di avere la benivolenza de’ cittadini fiorentini, fece morire uno che gli manifestò una congiura; l’altro da Dione siragusano, il quale, per tentare l’animo di alcuno che elli aveva a sospetto, consentì a Callippo, nel quale ei confidava, che mostrasse di farli una congiura contro. E tutti a due questi capitorono male: perché l’uno tolse l’animo agli accusatori, e dettelo a chi volesse congiurare, l’altro dette la via facile alla morte sua, anzi fu elli proprio capo della sua congiura; come per isperienza gl’intervenne, perché Callippo, potendo sanza rispetto praticare contro a Dione, praticò tanto che gli tolse lo stato e la vita.