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Discorso sull'indole del piacere e del dolore/I

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Introduzione

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Discorso sull'indole del piacere e del dolore II

La sensibilità dell’uomo, il grande arcano, al quale è stata ridotta come a generale principio ogni azione della fisica sopra di noi, si divide e scompone in due elementi, e sono amor del piacere e fuga del dolore: tale almeno è la comune opinione degli uomini pensatori e maestri. Ognuno conosce e sente quanta influenza abbiano il piacere e il dolore nel determinare le azioni umane; la speranza, il desiderio, il bisogno del primo; il timore, lo spavento, l’orrore del secondo, dànno il moto a tutte le nostre passioni. Tutti gli amatori delle belle arti sanno che il loro scopo parimente è il piacere col quale allettano altrui a ben accogliere e l’utile e il vero. I tentativi adunque destinati a conoscerne l’indole, a illuminare questi primordiali oggetti, sono meritevoli di qualche attenzione. Se fra le tenebre, ove sta riposta la parte preziosa dell’uomo, che si cela all’uomo medesimo, ci fosse possibile carpire una nozione esatta del piacere e del dolore, una precisa definizione che ce ne palesasse la vera essenza, si sarebbe fatto un passo importantissimo, e sarebbesi acquistata una generalissima e utilissima teoria applicabile alla liberale eloquenza, alla seduttrice poesia, alle bell’arti tutte e all’uso comune della vita medesima, perché ci darebbe la norma e ci additerebbe i mezzi onde potere colle attrattive di lui rendere le azioni degli uomini cospiranti alla nostra felicità. Fra i molti filosofi, che della natura del piacere hanno scritto dopo l’epoca della ristorazione delle lettere, si distinguono singolarmente le opinioni di Descartes, del Wolf, e del signor Sulzer. Il primo fa consistere il piacere nella coscienza di qualche nostra perfezione: il secondo nel sentimento della perfezione: il terzo nell’avidità dell’anima per la produzione delle sue idee. Sia però detto con la venerazione dovuta al merito di questi autori, queste definizioni mancano e di chiarezza e di precisione. Il piacere di spegnere la sete, il piacere di riposarsi dopo la stanchezza e una infinita schiera di piaceri singolarmente fisici, né ci fanno sentire una perfezione qualunque, meno poi hanno relazione veruna coll’avidità dell’anima per produrre le sue idee. Da ciò chiaramente si vede non essersi in tal modo definito il piacere. Ma ne’ tempi a noi piú vicini sopra di ogni altro ha acquistata fama il signor di Maupertuis. Ci propose egli una definizione del piacere. L’organizzazione geometrica ch’egli dié alla sua tesi, sommamente preparò gli animi alla persuasione; e sebbene alcuni gli abbiano fatto contrasto, nondimeno prevalse la fama di lui su quella degli oppositori. Egli cosí definí il piacere: Il piacere è una sensazione che l’uomo vuol piuttosto avere che non avere. Questa però non è altrimenti una definizione, se ben vi si rifletta; sarebbe la stessa cosa il dire che il piacere è quel che piace: asserzione egualmente evidente quanto superflua, essendo che da essa non ci viene veruna idea generale di proprietà stabilmente inerente a ogni sensazione di piacere. La simmetria artificiosa delle parole ha sedotti molti lettori, che di essa contenti accettarono una parafrasi per una definizione. Ogni uomo ha un’idea esatta del dolore e del piacere, ed ogni uomo è giudice competente di quello che eccita in lui la sensazione che gli è aggradevole o disgustosa; ma non cosí ogni uomo ha la ostinata curiosità di scomporre gli elementi che formano le proprie sensazioni e rintracciare quale sia la proprietà comune a tante e sí variate sensazioni che sono piacevoli, e a tante e sí variate che sono dolorose. Questo è quello che penso io di fare; e se per ventura potrò ritrovare questa proprietà, che sempre ha seco il piacere, e senza di cui non si può questo sentire, dirò d’aver mostrata la definizione di esso, e di averne spolpata l’idea, e ridotta alla nuda precisione. Questa ricerca per sé medesima spinosa forse mi può condurre all’errore. Forse la immaginazione mi farà traviare, lo temo io stesso; pure tentiamo. I vari tasti, sui quali debbo porre le dita, forse desteranno qualche idea nuova ne’ miei lettori; lampeggerà forse fra questo buio qualche utile vista, sebbene ancor io non riesca al mio fine. Sono ben augurati sempre gli scritti che fanno ripiegar l’uomo in sé medesimo, e l’obbligano a rendersi un esatto conto di ciò che sente. L’esame attento dei fenomeni interni è lo specchio della filosofia e della morale umana. Quanto piú l’uomo s’abitua a scorrere nei labirinti della propria sensibilità, quanto piú si rende amico di sé medesimo, tanto migliora, perché tanto piú teme le inconseguenze e i rimorsi. Quindi le ricerche che si fanno fra queste tenebre, quand’anche non giungano alla verità, possono paragonarsi ai lavori degli alchimisti, i quali traviando dallo scopo hanno però, strada facendo, ritrovati non solo gli utili rimedi, ma altresí le preparazioni chimiche piú fortunate.