Don Zeno: Il sovversivo di Dio/XVIII

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La sfida al Governo: scaramucce e vittorie

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La sfida al Governo: scaramucce e vittorie


Gli anni della città della fraternità costruita nel lager di Fossoli, i più drammatici della vita turbinosa di don Zeno Saltini, bruciano, col fulgore di una torcia, tra speranze e attese supreme, scontri titanici, tradimenti e incommensurabili ingenuità. Don Ferruccio Richeldi, uno dei preti modenesi che hanno professato la più calda amicizia per il fondatore di Nomadelfia, ma che, lontanissimo per indole e per attitudini, amava dichiararsi il più scettico dei suoi fautori, per il proprio scetticismo testimone tanto più attendibile, ricordava, negli ultimi anni di vita, che chi visitava Nomadelfia negli anni della passione e della speranza era colpito dalla percezione del clima di responsabile eroismo che animava i cittadini. Gli uomini e le donne che avevano sottoscritto, sull’altare, l’impegno di affrontare qualunque sacrificio «fosse anche ... un bagno di sangue di martiri» per realizzare l’ “unum” evangelico dimostravano di non avere assunto quell’impegno senza consapevolezza.

Nell'immagine ripresa da un grande operatore l'inizio dell'epopea della conversione del campo di concentramento di Fossoli in nuova società della fraternità. Fanciulli dalle mani nude abbattono muraglie e reticolati eretti nel segno dell'odio e della sopraffazione.

Era quella consapevolezza, congiunta alla dignità con cui la città affrontava la palese, durissima povertà, a soggiogare i protagonisti della scena giornalistica, sedotti da un fenomeno umano di cui, scandagliando la scena sociale alla ricerca di situazioni eccezionali, non avevano mai osservato l’equivalente. Era la stessa consapevolezza che appassionava i sacerdoti desiderosi che la Chiesa proponesse risposte adeguate alle tensioni sociali, che convinceva i prelati perplessi, che incantava folle di tutte le estrazioni sociali.

Il consapevole eroismo della città non si dimostrerà sufficiente, tuttavia, ad assicurare alla comunità la solidità istituzionale ed economica necessaria a garantirne il futuro. Alla ricerca degli elementi di debolezza che dissolveranno la tenacia di Nomadelfia nell’urto con gli avversari che avrà sfidato, non v’è dubbio che tra i cento eventi e le cento circostanze sulle quali chi ripercorra la vicenda può fissare l’attenzione v’è una costante della vita della città che si impone alla sua analisi e al suo giudizio: la crescita inarrestabile della popolazione.

La carovana di vecchi camion che ha varcato i reticolati del campo di concentramento vi ha portato 280 persone, nel settembre dell’anno successivo don Zeno vanta che il numero degli abitanti è salito a 780, nel 1951, alla vigilia dell’evacuazione che i “celerini” di Scelba imporranno agli occupanti illegali del campo, l’anagrafe della città registrerà 1.049 presenze, tra le quali 145 di ospiti bisognosi, 759 di minorenni, 145 di maggiorenni, i membri a pieno titolo della comunità.

Seppure il numero degli adulti che hanno aderito al progetto di don Zeno operando una scelta matura sia aumentato significativamente, cioè, fino alla formazione di un nucleo che comprende 48 coniugi, 24 mamme di vocazione, 73 celibi e nubili in attesa del matrimonio, di una scelta di maternità vocazionale o di un impegno celibatario, e sacerdoti, rispetto al numero degli adulti è cresciuto in proporzioni geometriche quello dei giovani accolti nelle famiglie della comunità, che ne contano fino a venticinque ciascuna. Un’entità ingente ha raggiunto anche il numero dei bisognosi ospitati perché privi di possibilità diverse di ricovero. Nella scelta di don Zeno di abbandonare la crescita della popolazione ad una progressione tanto rapida v’è, trasparente, una triplice sfida: la sfida, filiale, alla Provvidenza, a sovvenire alle necessità della città che non nega l’asilo a nessuno che lo invochi come l’ultima speranza del cammino verso la disperazione, la sfida agli uomini di buona volontà perché riconoscano la prodigiosa fecondità di Nomadelfia, ne accettino il messaggio, e si impegnino a soccorrerla, la sfida ai potenti di cui l’apostolo della fraternità vuole dimostrare l’inerzia di fronte ai bisogni crudeli che solo Nomadelfia accetta di soccorrere.

Quanto, peraltro, pretendere di definire la congruità della prima sfida appare proposito vano, tanto la cronaca impone di verificare il successo della seconda, che sospinge folle intere a visitare ammirate la città della fraternità, decine di neofiti ad aderirvi, centinaia di spiriti fervorosi a sostenerla, tanto si rivela fallace e, insieme, temeraria la terza.

Un ingannevole calcolo di strategia rivoluzionaria induce don Zeno a ritenere, infatti, che, quando Nomadelfia sarà una città popolata da mille fanciulli strappati al bisogno, gli uomini che governano il paese, quegli uomini che accusa di avere usurpato il titolo di cristiano a un partito borghese, non potranno ardire di colpirla, salvo decidere un eccidio che costituirebbe, è convinto, la scintilla della fiammata rivoluzionaria che ne annienterebbe il potere. Se osassero, provocherebbero la svolta tra epoche diverse della storia: moltiplicando i martiri, è una delle cognizioni più salde dei suoi fantasiosi ricordi scolastici, Roma ha segnato il proprio destino e il trionfo del Cristianesimo. Insieme alla popolazione della città, è convinto, sulle fondamenta della stessa logica sovversiva, di potere accrescere indefinitamente l’entità dei suoi debiti: è assolutamente sicuro, infatti, che moltiplicando le passività, e dimostrando che esse derivano dall’impegno a sostenere fanciulli che la società ha gettato sulla strada e destinato alla delinquenza, impugnerà un’arma invincibile per costringere sul banco degli imputati il Governo e il partito cattolico che ne detiene la responsabilità. Più ingente sarà, fantastica, il cumulo delle pendenze della città, più ineludibili saranno i capi d’accusa con cui chiamerà a rendere conto delle proprie inadempienze i governanti del Paese, responsabili di perpetuare un sistema economico che provoca come corollario necessario la miseria e l’abbandono. Non vale a dimostrare la fallacia del convincimento lo stillicidio di pignoramenti che l’ufficiale giudiziario opera, fino dalle origini, tra i laboratori della città, né allarmano l’apostolo della Bassa le vendite giudiziarie che seguono i pignoramenti.

Il sillogismo eversivo rivelerà la propria inconsistenza quando lo scontro con il partito di governo che don Zeno ricerca con determinazione toccherà il proprio acme: stretta nella morsa del bisogno, una comunità tanto numerosa si rivelerà incapace di ogni resistenza all’offensiva degli avversari. Fosse stata meno pletorica, il bisogno sarebbe stato, è dato supporre, meno cogente. Non fosse stata oberata da debiti tanto schiaccianti, al Governo sarebbe mancato il pretesto per un intervento d’autorità, per il quale non avrebbe disposto di alcun appiglio giuridico o amministrativo. Il numero delle bocche e le centinaia di milioni di debiti, le armi alle quali don Zeno crede di affidare la propria battaglia suprema, riveleranno la propria forza dirompente contro la città di cui dovrebbero costituire il baluardo. Certo, comunque, della lucidità della propria strategia, mentre moltiplica iniziative e comitati per raccogliere fondi con cui sovvenire alle necessità della città, non lascia trascorrere un giorno senza vergare una lettera infuocata al capo del Governo o al ministro dell’interno reclamando sovvenzioni per i minori che ha accolto, senza pronunciare un’arringa antigovernativa o effettuare il pacifico assedio della prefettura di Modena. Ogni atto di accusa, ogni gesto clamoroso accresce, inevitabilmente, la tensione tra il patriarca di Nomadelfia e gli uomini che guidano il Paese. De Gasperi, ripetutamente accusato da don Zeno di essere il servitore imbelle della borghesia capitalista, evita ogni replica pubblica. Al suo fianco Giulio Andreotti, a trent’anni già tessitore della politica nazionale, dispone lo `stanziamento di qualche sussidio contando che, affidati, con pazienza, al tempo, i bollori del prete “rosso” possano placarsi: un atteggiamento che rivela la duttilità, tale da potersi tradurre, agli occhi degli osservatori, in scelte esemplari o in manovre spregiudicate, che farà di Andreotti l’uomo più amato e più aborrito della scena nazionale. Se Giulio Andreotti conta, tuttavia, che qualche elargizione, e la benevolenza del Cielo, possano evitare lo scontro con un prete tanto amato dalla sua gente, nella Democrazia cristiana non mancano i nemici autentici di don Zeno e di Nomadelfia, e tra quei nemici si contano uomini che conducono in prima linea la guerra politica ed elettorale con il Partito comunista, che per combattere quella guerra possono pretendere, nel partito, la più ampia libertà di azione.

Così come è un nemico per Ferdinando Truzzi, il giovane deputato ignorato dalle cronache che combatte in prima linea nella trincea della Bassa, e che da quella trincea chiede che contro il prete di Carpi impieghi la propria influenza nel partito Paolo Bonomi, don Zeno è un nemico da combattere fino ad annientarlo per Mario Scelba, il ministro degli interni il cui nome assurgerà a simbolo della lotta politica del decennio rovente della Ricostruzione. Preannunciata dal fatidico diverbio in trattoria, la sfida tra don Zeno e Scelba è cominciata con l’occupazione del campo di Fossoli: con l’efficace impiego teatrale della sua carovana di donne e bambini, soggiogando De Gasperi don Zeno ha guadagnato, clamorosamente, il primo scontro.

Si risolve in una vittoria altrettanto clamorosa del patriarca di Nomadelfia anche il secondo scontro del duello. Il Governo ottiene dal Vaticano l’invio a Fossoli, in visita ufficiale, del nunzio apostolico presso il Quirinale, monsignor Borgoncini Duca. La visita riveste un inequivocabile significato politico. Il prelato è, formalmente, il responsabile delle relazioni tra lo Stato italiano e la Città del Vaticano: inviandolo a Nomadelfia la Curia romana dimostra di volere verificare se le attività della città possano costituire, come denuncia il Governo, ragione di frizione tra le due parti.

Sua eccellenza Borgoncini Duca dà prova di avere affrontato il compito rimessogli senza giudizi precostituiti, con la libera determinazione di osservare e valutare. Giunge nella città il 17 febbraio 1950, effettua la propria visita appassionandosi al quadro umano che si dischiude davanti a lui e la conclude, nella chiesetta ricavata in una baracca, benedicendo la comunità. Alla benedizione aggiunge un indirizzo di saluto in cui vibrano simpatia e adesione: «Per me è stata una grande rivelazione. - proclama - Ho visto tante città, ma una città come questa non l’ho vista mai. Riferirò al Papa tutto quello che ho visto. Dirò quanta vita c’è, quanto entusiasmo. Sono sicuro che il Papa confermerà questa benedizione che io adesso vi dò.»

Il tentativo dei responsabili del paese di dirigere contro don Zeno la censura della Chiesa si risolve nella benedizione papale della sua città: data l’autorevolezza del prelato, il patriarca di Nomadelfia non ha, fondatamente, alcun dubbio scorgendo dietro la mano benedicente del presule quella del Papa, dietro l’anello del nunzio quello del vicario di Cristo, che attraverso il proprio legato pare confermare l’affettuoso interesse di cui don Zeno ha ricevuto la prima prova nel corso dell’udienza di due anni prima. Nell’entusiasmo della città per il solenne riconoscimento, il suo fondatore raddoppia le energie ed i cimenti: l’anno di cui la visita apostolica segna l’inizio sarà il più fervente della vita di Nomadelfia, e il dinamismo di cui essa darà prova aggiungerà cento ragioni per rendere ineludibile la conclusione della contesa con il potere politico di cui la benedizione del presule ha acuito, non appianato le ragioni.

Le direttrici dell’azione del prete carpigiano nell’anno più appassionante della vita della sua città mirano a due obiettivi immensamente ambiziosi: il varo di un programma di riforma della Chiesa e la costituzione di un vasto movimento popolare. Sono, entrambe, mete verso le quali don Zeno ha già diretto la propria predicazione, la prima più sommessamente, con scritti diversi e la creazione dell’Unione dei sacerdoti piccoli apostoli, la seconda più vigorosamente, con la campagna di comizi fermata, nel 1945, dal veto ecclesiastico. Può perseguire entrambe, ora, nella tacita condiscendenza delle autorità vaticane, che conta stia per tradursi in aperto consenso.

Nella sfera dell’ordinamento ecclesiastico il patriarca di Nomadelfia ha sempre denunciato come ripugnante alla coscienza cristiana l’autonomia, o, secondo la prospettiva ottica, l’isolamento economico, dei membri del clero, tra i quali v’è chi gode le rendite di ricchi benefici, che è libero di usare a favore di amici e nipoti, chi vive nella povertà più cruda, privo dei mezzi indispensabili al ministero, incapace di assolvere anche alle urgenze più gravi che insorgano nella parrocchia che gli è affidata. Ha, poi, sempre nutrito il convincimento, che pure non ha mai espresso in scritti pubblici, che gli ordini religiosi, sorti per rispondere alle esigenze caritative, sociali e dottrinali dell’epoca in cui ognuno ha avuto vita, costituiscano, ormai, organismi atrofici, la cui molteplicità non sarebbe giustificata da obiettive diversità di finalità: proverebbe la vetustà dell’intera compagine la caduta del numero delle vocazioni che colpisce anche i più gloriosi, ed il senso di frustrazione che gli pare di percepire anche tra le file delle congregazioni più dinamiche. Chi si senta chiamato dall’amore di Cristo a spendere la vita per elevare, attirandola al Salvatore, la società degli uomini, dovrebbe gettarsi, è convinto, con lui nel compimento della rivoluzione di cui legge l’urgenza nei “segni” dei tempi. Gli ordini che sopravvivono senza scopo dovrebbero travasare, cioè, le proprie energie nella schiera dei suoi seguaci, quella schiera che, durante un corso di esercizi spirituali ha definito, nel 1948, un nuovo «movimento benedettino, ma con carattere familiare, non monacale».

Illustra le proprie idee sull’impegnativo argomento in una “Lettera ai religiosi” che sottopone alle autorità vaticane, le quali ne autorizzano la diffusione, seppure limitata, consentendogli di svolgere, per illustrare il proprio progetto, una serie di incontri con i Servi di Maria, il cui convento milanese, nel quale don Zeno conta amicizie antiche, è tra i poli che orientano, tradizionalmente, la coscienza dell’intellettualità cittadina. Il risultato è la domanda ai superiori, da parte di sette religiosi e di due novizi, di trascorrere alcuni mesi, a titolo di esperienza apostolica e sociale, nella città creata a Fossoli. La risposta delle autorità vaticane è positiva: il gruppo vivrà nella città fino al luglio successivo. Sul secondo terreno viene concesso a don Zeno di tenere il congresso che gli è stato impedito nell’autunno del 1945. Prepara il grande incontro, che decide di svolgere in ottobre, nel Palazzo dello sport di Modena, con una nuova frenetica campagna di comizi. Narrando le proprie memorie riferirà di avere riunito nel piccolo stadio coperto 1.700 persone, con le quali avrebbe stabilito un intenso confronto, seppure chi a Modena avesse conservato la memoria dell’incontro ricordasse un evento alquanto lontano dalla grandiosità da cui prende vita un grande movimento popolare.