Duemila leghe sotto l'America/VIII. Un polipo gigante

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Capitolo VIII. Un polipo gigante

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CAPITOLO VIII.

Un polipo gigante.

La situazione era disperata. Il battello, semirovesciato per l’improvviso spostamento del carico, cacciato dentro ai due scogli, investito furiosamente a poppa dalla massa enorme delle acque, rollava, si sollevava, beccheggiava, gemeva, strideva, minacciando di sfracellarsi o d’aprirsi. Le ondate, urtandovi contro, balzavano a bordo inondando i viveri, la macchina e gli uomini.

Ancora pochi minuti, forse pochi secondi e una catastrofe forse irreparabile avrebbe compromesso per sempre le sorti di quella spedizione con tanti sacrifici, con tanta audacia e con tante speranze intrapresa.

L’ingegnere con un solo sguardo comprese la gravità della situazione.

Ordinò a Burthon e a O’Connor di portarsi a poppa onde coi loro petti formassero una barriera alle acque che irrompevano nel battello, poi si slanciò a prua seguito da Morgan, entrambi armati di una solida manovella.

— Tenete fermo! gridò al marinaio e al meticcio.

Cacciò la manovella in un crepaccio dello scoglio e fece forza. Morgan, che aveva subito compresa la manovra, lo imitò. [p. 61 modifica]

L’Huascar a quella vigorosa contro-spinta non resistette e si gettò fuori di via radendo lo scoglio.

— Saldi in gambe! gridò Morgan.

Burthon e O’Connor non ebbero il tempo di aggrapparsi ai banchi e caddero in mezzo ai barili e alle casse che correvano disordinatamente da babordo a tribordo.

L’Huascar scendeva con rapidità vertiginosa, ora strisciando sul pendio con uno stridore inquietante, ora urtando, ora sbandandosi e ora balzando sulle acque.

L’ingegnere e Morgan, coi remi cercavano di moderare la corsa che diventava sempre più rapida, ora arrancando contro acqua e ora puntando.

— Attenzione! gridò ad un tratto sir John.

L’Huascar era a pochi metri dal fondo della rapida, e stava per immergere la prua nelle acque. I quattro uomini, trascinando i barili e le casse più pesanti, si aggrapparono alla poppa.

— Coraggio! gridò l’ingegnere.

Il battello giunse al fondo. La sua prua, per l’inclinazione fortissima della rapida, sparve sott’acqua, ma subito si rialzò. I quattro naviganti, vedendo la poppa abbassarsi e imbarcare acqua, furono pronti a lasciare il posto, sicchè il battello, equilibrato, riprese la sua posizione normale.

— Dove andiamo? chiese Morgan precipitandosi verso il forno della macchina che l’acqua aveva spento.

L’ingegnere girò all’intorno un rapido sguardo. A babordo v’era un’alta sponda che formava una infinità di fiords microscopici, capaci tuttavia di riparare un grosso battello.

— A terra, disse.

Con pochi colpi di remo l’Huascar fu spinto in uno di quei fiords e i cacciatori e l’ingegnere [p. 62 modifica] scesero a terra. I loro occhi si volsero subito verso la gigantesca cateratta che empiva le tenebrose vôlte di mille fragori.

Lo spettacolo era superbo. La massa delle acque si precipitava giù con veemenza incredibile su di un pendio fortemente inclinato, accavallandosi, frangendosi e rifrangendosi contro le rupi e le roccie e schiacciandosi, per così dire, contro il fondo, dove a poco a poco si calmava scorrendo verso il sud-ovest attraverso a oscure gallerie.

Al vivido chiarore della torcia del bengala, pareva una fiumana di ardente lava, precipitante lungo i fianchi scoscesi di un vulcano. I muggiti, centuplicati dall’eco, potevansi benissimo scambiare pei boati del mostro eruttante fuoco e la nube di spuma per una immensa nube di fumo illuminata dalle fiamme.

— Corpo d’un cannone! esclamò Burthon. Io tremo ancora pensando che noi siamo discesi entro un battello. Vi giuro, sir John, che non ho mai provato una emozione così forte e che non vorrei provarla una seconda volta.

— Io non dava due soldi della mia pelle, disse O’Connor. Quando il battello urtò mi credetti morto e raccomandai la mia povera anima S. Patrick.

— Ve lo aveva detto io che il viaggio non sarebbe stato facile, disse l’ingegnere. Esaminiamo il battello e se nulla ha di rotto, partiamo.

Ridiscesero la riva e risalirono nel battello. C’era una mezza tonnellata d’acqua dentro, ma nè la macchina nè lo scafo avevano sofferto in quella discesa.

Con alcuni mastelli vuotarono l’acqua che aveva recato, fortunatamente, pochissimi danni, essendo le casse e i barili ben chiusi, indi Morgan accese la macchina. [p. 63 modifica]

— Sir John, disse Burthon. Quanta via abbiamo percorso finora?

— Un centinaio di leghe, secondo i miei calcoli.

— Allora navighiamo....

— Sotto il Tennessea.

— A quale profondità?

— A ottocento piedi, rispose l’ingegnere guardando il manometro.

— La macchina non domanda che di funzionare, signore, disse Morgan in quell’istante.

— Partiamo, comandò sir John. O’Connor intanto ci preparerà il pranzo sul piccolo fornello.

Un fischio acuto scosse gli echi della galleria, mescendosi ai cupi muggiti della cateratta, poi l’Huascar, uscito dal piccolo fiord, si slanciò innanzi a tutto vapore.

La fiumana non era più vasta come prima nè molto rapida. Misurava tutt’al più sei o sette metri di larghezza e descriveva moltissime svolte, e talvolta dei bruschi angoli, ove era necessaria tutta l’abilità del timoniere perchè l’Huascar non s’infrangesse contro le rive.

L’ingegnere fece gettare più volte lo scandaglio, ma non toccò il fondo. La vôlta invece era tanto bassa che alzando una manovella, in certi luoghi, la si toccava.

A mezzodì, durante l’ora del pasto, la galleria cominciò ad allargarsi e ben presto raggiunse le dimensioni di un piccolo lago, irto di immensi colonnati che sostenevano la vôlta la quale cominciava a rialzarsi. Anche qui lo scandaglio non toccò il fondo, ma portò a bordo alcune alghe nerissime e sottili.

Alle otto di sera, il battello aveva percorso una trentina di leghe dirigendosi costantemente verso il sud-sud-ovest. Secondo i calcoli dell’ingegnere [p. 64 modifica] navigava allora sotto l’Arkansas a settecento e quindici metri di profondità.

Alle 9, dopo la cena, O’Connor, pel primo, montò la guardia. Fu spenta la macchina per non consumare troppo rapidamente la scarsa provvista di carbone, furono riempite le due lampade che ardevano a poppa l’una e a prua l’altra, poi i tre compagni del marinaio s’accomodarono nel fondo del battello chiudendo gli occhi.

Nessun incidente venne a turbare la guardia dell’irlandese. Alle 12, Morgan lo surrogò, poi toccò all’ingegnere e finalmente a Burthon.

Il meticcio, come i suoi compagni, aveva caricata la pipa e fumava vigorosamente per scacciare il sonno che suo malgrado l’assaliva.

Il canale era sempre largo, la corrente abbastanza rapida e il silenzio perfetto. Le due lampade spandevano all’intorno una luce chiarissima, mostrando gli enormi colonnati, che di tratto in tratto sorgevano dalle nere acque.

Fumava da una mezz’ora, cogli occhi mezzi chiusi e la mano dritta sulla barra, quando un violento rollìo scosse improvvisamente il battello.

Il meticcio, sorpreso e un po’ spaventato, si stropicciò energicamente gli occhi e guardò intorno. La corrente era affatto tranquilla, nondimeno il battello si agitava ancora da babordo a tribordo.

— Oh! oh! esclamò. Cosa succede? Abbiamo urtato?

Staccò la lampada di poppa e guardò nuovamente. Nè a babordo nè a tribordo apparivano colonnati, nè a fior d’acqua apparivano scogliere.

— È strano, borbottò. Eppure non sogno.... Se fosse toccato un caso simile a O’Connor, direbbe che è stato uno scherzo di qualche fantasma, ma Burthon non ha mai creduto ai folletti. [p. 65 modifica]

Appese nuovamente la lampada, ricaricò la pipa, l’accese e tornò sedersi a poppa cogli occhi bene aperti e le orecchie tese.

Erano scorsi appena cinque minuti quando un braccio lungo lungo e rotondo alzossi dinanzi la prua. L’estremità di quello strano membro si posò sulla lampada appesa al piccolo bompresso, l’agitò per qualche istante, la staccò, la sollevò nell’aria ad una altezza di cinque o sei metri, poi l’abbassò descrivendo strane curve e la tuffò nelle negre acque. Burthon udì distintamente lo stridìo della fiamma che spegnevasi al contatto del liquido. Balzò in piedi, pallido, atterrito, coi capelli irti.

Guardò con ispavento a poppa temendo di vedere un secondo braccio, poi si curvò rapidamente sull’ingegnere che russava sonoramente e, tremando, lo svegliò.

— Che hai? chiese sir John alzandosi sulle ginocchia.

— Signore, balbettò il meticcio. Succedono certe cose.... Io non ho mai creduto agli spiriti, ma... to! tremo come se avessi la febbre.

— Cos’è accaduto?

— Hanno portato via la lampada di prua.

— Chi?...

— Non lo so. Ho visto un braccio smisurato afferrarla, alzarla e poi cacciarla in acqua.

— Hai sognato, amico mio.

— Avete torto a non credermi, signore.

— Ma a chi apparteneva quel braccio?

— Sorse dall’acqua, non ne so di più.

L’ingegnere, più sorpreso che spaventato, s’alzò afferrando una scure. Vide subito che la lampada non era più al suo posto.

— C’è da meravigliarsi! esclamò. Che ci sieno [p. 66 modifica] dei folletti? Prendi un fucile, Burthon, e andiamo a vedere.

Accesero una nuova lampada e si diressero a prua. D’improvviso l’ingegnere si arrestò.

— Ma noi siamo fermi! esclamò.

— È vero, disse Burthon.

— Eppure l’acqua cammina.

— Che il braccio sconosciuto abbia afferrato l’Huascar?

Salirono sulla prua e guardarono giù sporgendo innanzi la lampada. Un grido sfuggì a tutti e due e retrocessero vivamente calpestando i loro compagni addormentati.