Egloghe (Chiabrera 1834)/VI

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V VII
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VI

URANIO.

Bizzarro mio, che sì barbuto il mento
     Movendo per lo campo i passi tardi,
     3Come altier Capitan guidi l’armento;
Perchè sì bassi, e sì pensosi i guardi
     In terra volgi? e pure i piè ti miri?
     6Ed oltremodo il tuo cammin ritardi?
Per avventura Tirsi oggi desiri?
     E lui non rimirando hai disconforto,
     9E così ci palesi i tuoi martiri?
Bizzarro mio, nostro buon Tirsi è morto;
     Per lunga strada di campagne scure
     12Lunge da noi nostro buon Tirsi è scorto.
Tu fra le balze delle rupi dure
     O ti dirocca mortalmente, ovvero
     15Apprestati a soffrir crude venture.
Io poi, che più letizia unqua non spero,
     Da queste piaggie penso far partita,
     18Ed a più non tornar fermo il pensiero.
Foresta più deserta, e più romita
     Sarà mia stanza; il cupo orror di Verna,
     21O pur di Falterona avrà mia vita.
Strana cosa a pensar, che ci governa
     Morte sì ciecamente, e che nel Mondo
     24Nulla non sia, che le sue leggi scherna!
Tirsi sul fior degli anni ha messo in fondo,
     Ed alcun poscia lascerà canuto,
     27Che a lui non sarà terzo, nè secondo.
Or che mi rechi, o Farfallin, venuto
     A volo verso me senza ritegno?
     30Oh la seconda volta ecco starnuto.
Ciò di liete novelle hassi per segno,
     Ma sciocco me: non così dice Alcasto,
     33Che ha nell’indovinar cotanto ingegno.
Ei mi suole affermar, che invan contrasto,
     E che letizia non convien, che aspetti;
     36Io per sì dura vita omai non basto:
Lasso! dove son iti i miei diletti?